Entravo nella città di Roma, l’otto settembre del quarantatré

di Davide Orecchio

{Dieci anni fa, proprio su questo sito, pubblicai un pezzo tra invenzione e ricostruzione dedicato al 25 aprile di mio padre. Lavoravo da tempo sulla vita della persona dalla quale provengo, vita che, tra adesione al fascismo, riscatto nella Resistenza e nel comunismo, conoscevo molto poco. Avevo pubblicato un racconto-biografia infedele su di lui nella mia prima raccolta edita, e stavo proseguendo il lavoro. Inaspettatamente, mia sorella lesse e apprezzò quel pezzo su NI (c’è anche un suo commento in calce) e pochi giorni dopo depositò a casa mia l’intero Nachlass paterno di lettere, manoscritti, diari ecc. Segno di fiducia, immagino, in un possibile mio amore verso nostro padre al quale, fino a quel pezzo su NI, mia sorella non aveva forse troppo creduto. Amore che avrebbe potuto generare una capacità di rispetto nel ricostruire la storia.

E così, come mi capita sovente, mi ritrovai condannato da me stesso a raccontare una storia. È una storia piena di biografemi e date cubitali, e certo l’8 settembre è una delle più importanti. Quell’8 (e 9) settembre 1943 a Roma propone uno dei pochi episodi che mi raccontò addirittura mio padre, sempre avaro e muto riguardo al proprio passato. Quindi ne ho potuto scrivere anche basandomi sulle sue memorie. In particolare le immagini di piazza Colonna, i gruppetti nella Galleria, un oscuro scrutarsi reciproco per capire chi sarebbe rimasto coi fascisti, chi sarebbe fuggito, chi andava a combattere con gli antifascisti. Mio padre, sottotenente dell’esercito, arrivava a Roma da tre campagne belliche, l’ultima in Sicilia, persa pochi giorni prima, era vivo per miracolo, era stanco e vecchio, aveva ventotto anni, ormai odiava il fascismo, insomma era pronto, come tanti insieme a lui, e lo attendeva l’unica guerra giusta che avrebbe combattuto, la Resistenza a Roma. La diagnosi del fascismo quale malattia politica era in lui ormai consolidata, ma potremmo immaginare l’8 settembre (e il periodo a seguire) come il momento nel quale mio padre, chirurgo e paziente, estirpò definitivamente il male da sé. Dall’onestà e accuratezza di questa operazione di defascistizzazione (di mio padre e di tutti gli italiani e le italiane come lui) sarebbe dipeso il futuro del nostro Paese.

Com’è andata a finire? Così così, mi sento di dire, visto che al governo, mentre scrivo, ci sono gli eredi della cultura politica fascista. È una storia ancora aperta, titolo appunto scelto nel romanzo che ho scritto per raccontarla; i brani che seguono vengono da lì, anche se formattati diversamente rispetto all’originale, sistemati in a capo come se fosse una poesia, più che altro per aiutare la lettura digitale.

Siamo a Roma, la mattina dell’8 settembre, e Pietro Migliorisi (alter ego di mio padre), aggirandosi per Prati, il quartiere delle caserme, ascolta una voce alla radio…}

∞ ∞ ∞

E ora troviamo un diario di guerra,
i giornali intimi maturano come la pastura nel campo,
piove la morte e per reazione loro crescono verdi,
sono erbe comuni,
coprono i teschi con le parole,
sommergono di frasi le canne mozze,
con le pagine asfissiano i calibri,
di solito raccontano sempre una storia: 

Così mi sono salvato,
ma dopo potevo morire,
però mi sono salvato di nuovo,
ma dopo volevano uccidermi,
e ancora mi sono salvato.

Cercavamo il sambuco, la pianta preziosa…

…e troviamo il diario che dice
«sono un soldato italiano, disonorato»,
ieri entravo nella città di Roma
e «avevo molte croci sul petto»,
tornavo da una guerra «combattuta a ritroso»,
era l’otto settembre del quarantatré,
i banchi di viale Angelico esponevano l’uva di Terracina,
grappoli d’oro agostani, acini enormi,
ne mangiai cinque per elemosina,
“una vera delizia”,
nessuno mi dava ancora la caccia,
ero vecchio, «sciupato e lordato»,
avevo le chele disidratate,
ma ne ho compiuti appena ventotto
– dice il diario del bambino diacronico –,
allora sono giovane o vecchio?,
chiede Pietro alla guerra.

Allora scopriamo la pianta preziosa…

… ha la sigla di Pietro sulla prima pagina,
una scrittura minuscola di carbone, di lapis,
a volte non rettilinea,
simile alla parabola della bomba sganciata,
una corda stringe il diario di guerra che dice:
ero nel quartiere delle caserme,
camminavo al fianco degli accasamenti,
settembre aveva ereditato il caldo di agosto,
fuggivo dal Foro di M.,
forse volevo raggiungere il Tevere
e poi, in centro, lo studio di un amico poeta,
ma a piazza dei Quiriti la radio di una trattoria,
dove mi ero fermato per un bicchiere d’acqua,
trasmetteva Una strada nel bosco,
che è la strada del cuore,
che non muore mai più,
e io sognavo quel nido semplice,
e volevo conoscere il nome
della strada nel bosco,
e mi fermavo più del dovuto,
poi la canzone finì
e attaccò una voce “cupa, metallica”,
quando il duca di Addis Abeba ci disse:

Ora voi dovete cessare,
quando il maresciallo Badoglio ci disse:
ogni atto di ostilità. 

La mongolfiera di M. dissipava il suo elio sull’Appennino…

…un golem laconico regnava sul Vaticano,
riaprivano teatri e cinema,
al Quirino si aspettava Un marito ideale,
gli studenti preparavano gli esami di riparazione,
“le ragazze andavano in bicicletta”,
“i contadini” entravano nel rettilario di Roma
“su carretti trainati da muli e cavalli”,
poi l’Eiar trasmise la voce di un basilisco,
il duca di Addis Abeba proclamava la resa,
a piazza dei Quiriti Pietro ascoltava Badoglio
quando annunciò l’armistizio e disse:
ogni atto di ostilità
contro le forze angloamericane
deve cessare,
e disse: da parte delle forze italiane,
e disse: in ogni luogo,
e aggiunse: esse però reagiranno,
e disse: a eventuali attacchi,
e disse: da qualsiasi altra provenienza,
e nel rettilario pochi capirono bene l’antifona,
ma Pietro già pensava che 

Non è finita,
non è finita,
non è finita.

Ma era solo un «disco marziale» che gira…

…e io ascoltavo una voce che ruota
– dice Pietro al diario –,
mentre Badoglio era già lontano da Roma,
e io arrossivo «fino alla cima dei miei capelli»,
e ricordavo la donna «vecchissima,
nella piazzaforte di Dagahbur»,
nella mia memoria dell’Africa
era rimasta la «vecchia matriarca»,
e il rosso del suo cranio spaccato,
e il fucile del miliziano fascista,
e il «ciuffo bianco» della criniera dell’Africa,
e mentre il duca di Addis Abeba parlava,
e ci lasciava «nudi e crudi ai nazisti»,
io provavo una «vergogna amara»,
una «decrepitezza precoce»,
mi sentivo «rotto e confuso,
pieno di collera che cerca
una sua direzione».

Ora la voce del duca finisce,
lascia le creature di Roma nella meraviglia,
dalle case delle iguane “straripa un brusio”,
dai negozi delle testuggini esce uno stupore,
per strada vanno lucertole ingenue e ottimiste
che “gridano gioiosamente alla pace”,
manticore terrificate scappano
verso i “capolinea dei mezzi pubblici”,
vogliono raggiungere genitori e figli,
e dalle soffitte e dalle cantine
Sillabari rossi,
tornati dal loro esilio,
preparano i centauri all’attacco,
distribuiscono armi, e dicono:

Presto combatteremo
per la libertà e l’uguaglianza,
subito uccideremo
il vostro fascismo.

Ora un insetto stecco si mimetizza…

…tra le querce di Villa Torlonia
ed è l’Enciclopedia del fascismo,
ora scorgiamo le piastre degli alligatori,
le squame di vipere e idre,
crocchi di aspidi sibilano
su cosa si debba fare,
tutti sono nemici di tutti,
tra il vecchio e il nuovo nessuno si fida,
le lingue biforcute chiedono al nostro fascismo:
ma se tu muori, noi come vivremo?,
poi “si sciolgono i crocchi”,
e i rettili “corrono dietro agli autobus”,
e le strade sono deserte nell’oscurità,
e “le finestre si spengono” con disciplina,
e verso mezzanotte il rettilario ascolta
“un nutrito cannoneggiamento lontano”
e gli ululati del nuovo nemico
portati da un vento di Tuscia,
scesi dai Monti Cimini.

L’Enciclopedia della guerra ci mostra la battaglia al mattino,
il lupo nazista non è più l’alleato,
vediamo le bombe che lancia, i mortai,
il “fuoco violento” sull’Ostiense e sulla via Cassia,
su piazza Cola di Rienzo e piazza Cavour,
il nostro esercito non è più del nostro fascismo
ma non è di nessuno,
lo stato maggiore l’ha abbandonato di nuovo
e lui non sa a chi obbedire,
i cefalopodi vanno a combattere,
i cefalopodi non sanno come combattere,
ai mercati generali centinaia di salamandre e rane si fanno coraggio,
“strisciano lungo i muri”,
“si mescolano alle pattuglie” dei cefalopodi, degli astici, dei granciporri,
“soccorrono i combattenti feriti”,
e i lancieri coi granatieri resistono alla Piramide Cestia,
a Porta San Paolo,
leggiamo nell’Enciclopedia della guerra

Nei palazzi di Roma “si bruciano le carte e gli archivi”,
mentre gli impiegati tornano a casa:
i criceti dai ministeri,
i castori dalle banche,
le talpe dalle assicurazioni,
e i funzionari di Palazzo Chigi
“appiccano il fuoco, attizzano fiamme”,
rinforzano a badilate i “bracieri”
di “cifrari, dispacci, minute”
che bruciano in un fumo che sale,
e il lupo nazista mitraglia
il “bivio della Laurentina”

E le campane delle chiese
suonano per il “vespro”.

Ora i Sillabari rossi convocano il popolo…

…a piazza Colonna,
pubblicano un giornale e l’intitolano 
Il Lavoro italiano,
Pietro ne prende una copia e ricorda
che quel foglio prima si chiamava 
Il Lavoro fascista,
allora capisco che i Sillabari mi stanno ammonendo
– dice il suo diario di guerra –
e ci tengono a che io non sia più fascista,
per questo mi chiamano a piazza Colonna
insieme a «tutti gli italiani amanti dell’onestà»,
e mi chiedono se ho «voglia di ringiovanire impugnando un’arma
per la libertà nazionale e repubblicana»,
leggiamo nel diario di guerra
annotato nel quartiere delle caserme
con la fretta per sottotesto, con la paura.

E io non sono più fascista,
non sono fascista,
non sono fascista
– dice il diario di guerra –,
dovrò andare alla piazza e spiegarlo,
e sono esausto ma proverò
a ringiovanire,
e i Sillabari mi devono credere,
userò parole sincere,
dirò quello che è successo e chi sono,
e per piacere non voglio il lupo nazista,
per cortesia sentite i cannoni e le bombe?,
quelle bestie sono feroci,
vengono qui a divorarci,
davvero dobbiamo combattere ancora?

Non è meglio
morire,
morire,
morire?

Ma non ho diritto al riposo…

…dice il diario di guerra –,
ora vado alla piazza e lo spiego,
ora “Roma è deserta”,
ma non è il “silenzio solito”,
c’è un “vuoto creato dalla paura”,
poi c’è chi si fa forza,
“su via Cola di Rienzo incontro” cefalopodi
“che vanno verso le mura in reparto”
contro il lupo nazista,
e testuggini e rane li “acclamano”,
e penso che “c’è uno sforzo da compiere”,
e «sul selciato di piazza Colonna»
mi ritrovo nei «drappelletti»,
con «uomini di diversa immaginazione»,
“non c’è molta gente, ma c’è una grande inquietudine”,
scoiattoli dalla fronte larga indossano
le loro tute operaie,
portano ghiande e cortecce,
camaleonti dagli occhi globosi
vengono con le camicie di cotone slacciate,
gli abiti lisi eleganti di intellettuali,
e dilatano e restringono le loro palpebre
di giornalisti, poeti, romanzieri e pittori,
e tutti circondiamo un camion
dal quale i Sillabari distribuiscono
«archibugi disusati e pistolettoni di modello antico»,
e finalmente li vedo,
Sillabari,
e loro vedono me,
e sento «gli occhi aperti dei morti su noi che viviamo»,
e vedo la mia «gioventù riconquistata»,
e inizia
la mia resistenza,
la mia resistenza,
la mia resistenza.

Pietro vede “carri di giovani scamiciati, che agitano bandiere”,
partire verso Porta San Paolo dov’è il lupo nazista,
poi “scoppiano due bombe”
e qualcuno grida che le ha gettate un fascista,
poi le creature di Roma aspettano il comizio dei Sillabari,
cince e martin pescatori si posano sulla colonna di Marco Aurelio,
polpi e cannolicchi fanno gruppo a piazza Colonna
nella vasca della fontana asciugata,
i cercopitechi si dondolano dai portici di Palazzo Wedekind,
motociclisti in divisa “attraversano rapidamente la piazza,
da largo Chigi imboccano il corso sparando”,
e Pietro dice al diario: sparano in aria,
ma noi scappiamo tutti nella Galleria.

E fuggono i roditori coi camaleonti,
e gli uccelli prendono il volo,
e le scimmie si arrampicano
fino alla statua di Paolo.

Poi il bambino diacronico…

…sta “appiattito contro la saracinesca
di un negozio, abbassata” nella Galleria
– leggiamo nel diario di guerra –
e pensa non è meglio morire, morire, morire?,
poi si volta a destra e scorge un uomo
che sfila un’arma da sotto la giacca,
una “pistola enorme”,
e riconosce il Comunista nell’uomo,
non lo incontra da anni,
da quella riunione a Palazzo Braschi,
quando il Comunista era già comunista,
e il nostro fascismo lo sapeva bene,
e Pietro lo chiama,
e il Comunista lo vede e si scambiano un cenno.

Poi la sparatoria si ferma
e il Comunista mi indica di seguirlo
su per una scala
dietro la Camera dei deputati
– dice Pietro al diario –,
e gli vado dietro e mi porta
a una guardiola,
qui i Sillabari rossi “discutono animatamente,
chiedono ancora più armi”
e li circondano donnole e cani procioni,
istrici e topi muschiati,
“poi ce ne andiamo”
e camminiamo insieme
– dice Pietro al diario –
e il Comunista mi chiede
se sono ufficiale
e rispondo di sì,
poi mi chiede
se sono ancora fascista
e rispondo di no,
poi al ponte Umberto mi dice:
sei pronto?

E ora inizia
la mia resistenza,
la mia resistenza,
la mia resistenza.

∞ ∞ ∞

Da Storia aperta, Bompiani 2021, cap. X, La città dei bambini (1943-1945), pp. 196-201. 

Alfredo Orecchio fu partigiano nei Gruppi di azione patriottica, Brigate Garibaldi, organizzati a Roma dal Partito comunista italiano, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944. Operò nel Gap della III zona (Flaminio, Parioli, Trieste, Salario) prima come responsabile militare (fino al 31 dicembre 1943), poi come gregario (cfr. Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione laziale per il riconoscimento della qualifica di partigiano e patriota, Attestato di partigiano combattente di Alfredo Orecchio, prot. n. 7091, Roma, 21 aprile 1949; Regio esercito italiano, Stato di servizio nell’esercito, Alfredo Orecchio; Mario Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana. La Resistenza dei GAP a Roma, a cura di Massimo Sestili, Odradek, Roma 2015, pp. 98, 139).

CITAZIONI

Di Alfredo Orecchio, tra «…»: “Così ritrovammo la gioventù”, Paese Sera, 9 settembre 1953 (l’8 e il 9 settembre 1943: le parole di Badoglio, la manifestazione a piazza Colonna, la donna uccisa a Dagahbur).

Tra “…”:

  • Fausto Coen, Una vita tante vite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 p. 88 (l’uva di Terracina a viale Angelico).
  • Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (1987), Ediesse, Roma 2008, pp. 179 sgg. (ragazze in bicicletta, contadini in città).
  • Luciana Castellina, La scoperta del mondo, nottetempo, Roma 2011, p. 52 (8 settembre: dopo aver trasmesso la canzone Una strada nel bosco, l’Eiar annuncia l’armistizio).
  • Lorenzo D’Agostini e Roberto Forti (a cura di), Il sole è sorto a Roma. Settembre 1943, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, Roma 1965, pp. 24-25 (la voce metallica di Badoglio e la reazione della popolazione romana), 39-40 (cannoneggiamenti tedeschi su via Cola di Rienzo e piazza Cavour), 44 sgg. (settembre 1943: la battaglia di Roma).
  • Giorgio Amendola, Lettere a Milano 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 159, 162-163, 166-167 (8 e 9 settembre 1943, la battaglia di Roma e il raduno di piazza Colonna).
  • Carla Capponi, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 93 sgg. (la battaglia di Porta San Paolo).
  • M. Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana, cit., p. 32 (scontri di Porta San Paolo).
  • Paolo Monelli, Roma 1943 (1945), Einaudi, Torino 2012, pp. 197-217 (settembre 1943: la battaglia di Roma, gli archivi bruciati).
  • Carlo Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca (1945), Borla, Torino 1954, pp. 11 sgg. (settembre 1943: la battaglia di Roma).
  • L’incontro tra Migliorisi e il Comunista nella Galleria Colonna durante la sparatoria del 9 settembre è ispirato alle memorie di Aldo Natoli, che nella Galleria vide Giaime Pintor estrarre una pistola e fare fuoco, cfr. Giovanni Falaschi (a cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, Manifestolibri, Roma 2005, pp. 323-324.

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7 Commenti

  1. Grazie. Ho letto sia il presente che lo scritto di dieci anni fa solo ora, ma mi è venuto in mente questo testo (che traggo dal terzo volume di “Oh mia Patria – Versi e canti dell’Italia unita” a cura di Vanni Pierini, Ediesse, 2011) che confido possa essere di interesse (anche il commento che segue è del curatore dell’opera):

    Il voltagabbana

    Cercano il voltagabbana
    per fucilarlo.

    Con alle tempia
    la pistola
    sono sereno

    come se il terremoto
    m’avesse squassato
    la coscienza.

    Riemergono i volti
    dei morti compagni;
    con loro ho creduto
    ubbidito
    combattuto.

    Lui ci misurava
    dai garretti
    e il prete ci benediceva
    e il re ci mandava
    a morire: Savoia!

    I partigiani
    mi scrutano dentro;
    parlottano
    con la pistola puntata.

    Avanti: ti mettiamo
    alla prova.

    Davide Lajolo

    (Lajolo, ‘vice federale’ di Ancona fino al 25 luglio, passò alla Resistenza dopo l’8 settembre – sarà il comandante Ulisse – e dovette evidentemente affrontare un ravvicinato e duro confronto con se stesso e con chi decideva se accoglierlo).

  2. Grazie per avere letto, apprezzato e per i commenti che avete lasciato.

    – Per Fausta: l’abbiamo iniziata e conclusa su questo sito!

    – per Alessio Ruffoni. Grazie per avere condiviso la pagina dall’antologia di Pierini. Lajolo è in effetti figura fondamentale nella storia di quella generazione, sia nel tornante della defascistizzazione e Resistenza, sia nella fase delle memorie comuniste più o meno senili, in cui molti di loro provarono a dare un senso ai propri percorsi. Per “Storia aperta” Lajolo è stata “persona-fonte” tra le principali. Se può essere utile allego qui sotto la nota che ho inserito su di lui alla fine del romanzo.

    Davide Lajolo
    1912-1984. Giornalista, scrittore, dirigente del Pci. Nel 1937 partecipa alla guerra di Spagna nella divisione Volontari del Littorio. Inizia una carriera di giornalista e dirigente nel partito nazionale fascista. Durante la Seconda guerra mondiale è ufficiale sul fronte greco-albanese. Dopo l’8 settembre aderisce alla Resistenza e al partito comunista, e dirige il movimento partigiano piemontese. Nel dopoguerra lavora all’Unità, in qualità di redattore-capo a Torino (1945), poi a Milano come direttore dell’edizione per l’Italia settentrionale (1948-1958). Nel 1958, e poi nelle due successive legislature, è eletto deputato nelle liste del Pci.

    – Per: il lungo viaggio nel fascismo, le memorie comuniste negli anni della repubblica.
    – Opere citate: Il «voltagabbana» (1963), Bur, Milano 2005; Finestre aperte a Botteghe Oscure. Da Togliatti a Longo a Berlinguer, dieci anni vissuti all’interno del PCI, Rizzoli, Milano 1975; Ventiquattro anni. Storia spregiudicata di un uomo fortunato, Rizzoli, Milano 1981.

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