Les nouveaux réalistes: Luca Maiolino
Il guardiano delle fogne
di
Luca Maiolino
Io lavoro nelle fogne, e credo sia troppo tardi per scegliermi un lavoro diverso. Ho preso questa strada da ragazzo, una scelta che credevo felice, ma è ormai da qualche tempo che mi pare di agire esclusivamente per dovere: ogni mattina, quando la torre dell’orologio segna le 04.00, mi sveglio, e mi ritrovo negli occhi l’immagine di un tombino serrato nella mia zona di competenza, e il mio animo non è in pace finché non infilo l’impermeabile per andare a sollevarlo. Solo quando arrivo sul posto mi calmo e mi giudico sciocco per essermi preoccupato.
Faccio un respiro profondo e, pochi minuti prima che sorga l’alba, col solito sforzo di reni, sollevo il tombino e riesco a violare il passaggio: scendo la scaletta una gamba alla volta, arrivo a mettere piede sulla banchina, e la puzza di feci mi avviluppa completamente e mi libera da ogni pensiero. È un attimo che dura il tempo di abituarmi al fetore; ma tanto basta perché, fino a sera, io sia concentrato esclusivamente sul lavoro, e questo ancora mi dà soddisfazione.
Quando sono di sotto, per quattordici ore, percorro lo stesso tratto di strada, al buio, e questo potrebbe dirsi noioso, ma è necessario. Infatti succede che un tubo perfetto il giorno prima, faccia difetto il giorno dopo senza dare nessun preavviso. L’esperienza aiuta a orientarsi al buio, e si scopre che percorrere la stessa via, piuttosto che un avvilimento, diventa un vantaggio. Da ragazzino mi aiutavo nelle ricerche con una torcia, ed è naturale, ma ho imparato prestissimo che la torcia mette in pericolo tutto il lavoro (l’oscurità gioca un ruolo essenziale). D’altronde, se dovessi avanzare a orecchio, con tutto quel frastuono di ruscelli di melma, sarebbe impossibile scovare il difetto nella tubatura. Il guasto invece si trova sempre, con un trucco, che vale per tutti gli operatori ma ognuno crede di averlo inventato da sé. Si sfrutta la caratteristica del terreno di essere poroso: qualora un tubo ceda, cede anche il terreno, che si apre mostrando un filo di luce scappato alla superficie. È questa la luce che io devo cercare – anche se dovrei dire che noi dobbiamo cercare, ma è sempre difficile dirlo. Su questa luce io non ho lamentele da fare, e nemmeno niente di buono da dire; è persino difficile descriverla. Anche andandoci sotto con la mano, infatti, toccherei un filo senza calore, trasparente come una vestaglia di donna, e così effimero che potrei dubitare della sua esistenza se non fosse per l’acqua che ci scorre in mezzo. Questa luce potrei anche chiamarla aria se fosse possibile respirarla; ma non si può. Senza l’abitudine all’oscurità, accumulata negli anni, mi sarebbe impossibile riconoscerla. Eppure esiste, è un fatto. Così come è un fatto che, quando risalgo la scaletta la sera, questa luce per me è finita.
Io richiudo il tombino con attenzione, e cammino la strada del ritorno voltandomi a guardare le ombre che ho superato, senza sapere se sono colleghi che tornano come me dal lavoro. Solo quando arrivo nella mia stanza, dopo aver fatto una doccia che lava via la sozzura, mi sento al sicuro, e mi infilo nel letto con la tranquillità che una squadra si sta già occupando della mia crepa, e che il giorno dopo la troverò sigillata. (E chi sa come sarà la nuova!).
Nelle notti più serene cammino con più parsimonia, e mi attardo a osservare le sagome dei passanti che diventano più misteriose mano a mano che si avvicinano alla portata dei lampioni. Talvolta getto uno sguardo nei vicoli, e penso di imboccarne uno a caso e di perdermi in una parte di città sconosciuta.
So già come andrebbe a finire.
All’inizio sarei spaesato, crederei subito di essermi perso. Le finestre e i portoni delle case si assomiglierebbero così tanto che solo con un occhio più attento, che penetri all’interno, distinguerei una facciata dall’altra. Se io volessi, mi basterebbe bere da una fontanella pubblica per sapere, solo dal sapore dell’acqua, di non essere stato io a ripararla. Forse mi lascerei vincere dallo sconforto, e cadrei addormentato su una panchina. Ma camminando per cinque minuti, con gli occhi sempre rivolti verso l’alto, prima o dopo scorgerei la torre con l’orologio, che da vent’anni è lì e mi aiuta a ritrovare la strada. Io dico da vent’anni mi aiuta a ritrovare la strada, ma potrebbero essere meno o molti di più. I giorni bui si assomigliano tutti, l’uno mi riconduce all’altro, e perciò non sento il peso del tempo che passa.
Il vigilante delle fogne, un nuovo assunto
Io lavoro nelle fogne, settore vigilanza, e qualcuno crede che il mio sia un lavoro facile, pagato il giusto, e che chiunque sarebbe in grado di portarlo a termine.
Di regola dovrei occuparmi solo di vigilanza, ma per via della disorganizzazione burocratica di cui è vittima il mio mestiere – e non solo il mio – finisco per fare anche altri e secondari lavori. Di questo non mi lamento: ci sono colleghi in grado di parlare meglio di me, che si lamentano al posto mio, e mi sembrerebbe, sommando la mia voce alla loro, di rendere la lamentela meno chiara e produttiva. D’altronde, delle questioni di cui bisognerebbe lamentarsi davvero purtroppo nessuno ne parla.
Una di queste riguarda l’abbattimento dei topi, che ci tocca seguire a giorni alterni, per turni stabiliti. Durante le prime settimane di servizio questa era la mansione che più mi avviliva: provavo schifo per i resti dilaniati di questi ratti, che flagellavo infilzandoli col punteruolo senza nemmeno guardarli mentre li ficcavo nel sacco di tela. Mi pareva che quest’azione soffocasse la mia natura, che è quella di presidiare i luoghi, e non di voltarli in cimiteri. Perciò, se sentivo che a un singolo squittio seguiva il silenzio, tiravo dritto; oppure, ignoravo un topo che avanzava rasente al muro, premiandone la prudenza, e confidando nella capacità di coltivare la sua solitudine senza affidarsi agli amici. Mi accanivo solo con i topi più audaci, che zampettavano impuniti al centro della passeggiata, o che addirittura al mio passaggio si davano a bagni nei ruscelli di melma.
Purtroppo ho scoperto che la natura di questi ratti è di tradire la fiducia di chi li protegge: in una settimana più di mille code impazzite, ritte come bandiere, mi gioivano incontro, quasi volessero, con la loro ottusa euforia, offuscare la mia disfatta. La delusione per il fallimento moltiplicò la mia pietà, che decisi di rivolgere tutta verso me stesso. Da quel giorno svolgo i compiti assegnati con diligenza, e nei termini previsti dalla legge.
Individuare i crolli nella controsoffittatura rimane sempre una grande responsabilità, soprattutto se si considerano le conseguenze secondarie, e cioè, che qualche idiota della superficie potrebbe cadere di sotto e farsi molto male. Questo aspetto non riguarda direttamente le nostre responsabilità, ma è di fondamentale importanza per la nostra motivazione. È per questo motivo che i lavoratori di sopra, una volta l’anno, organizzano una parata in nostro onore, alla quale, per questioni di orario, siamo costretti a rinunciare. Purtroppo nella città in cui ho preso servizio quest’usanza si è persa, ma mi è stato riferito, con assoluta certezza, che al mio paese d’origine continuano a organizzarla ogni anno, e questo ancora mi dà soddisfazione.
Quando mi annoio, nei giorni di massima saggezza animale, e pure di quella umana – per quale altro motivo, mi si dovrebbe spiegare, dovrebbe cedere la controsoffittatura, se non per qualche scelleratezza nel camminare – quando mi annoio, dicevo, mi intrattengo raccontandomi delle storie ad alta voce che assomigliano alle favole che ascoltavo da bambino; a volte cambio il finale, oppure le racconto usando le stesse parole, ma le uso per dire l’opposto. Qui purtroppo gli unici giochi nascono dall’immaginazione e bisogna fare con quello che si ha; questa è certamente la parte più difficile del nostro lavoro, sentirsi soli e non annoiati; e allora si potrebbe anche sostenere che il nostro non sia proprio un lavoro che chiunque può portare a termine; e non c’è neanche tanto tempo da dedicare a questi giochi: ci sono tantissimi lavoretti che attendono, lavoretti infimi e di nessuna importanza, che a trascurarli si rischia di compromettere il lavoro di anni.
Quando li ho terminati, risalgo la scaletta e richiudo il tombino con attenzione; passeggio poi la strada del ritorno zigzagando tra le stradine e i resti della folla del pomeriggio, avvicinandomi alle vetrine e scrutando le facce dei passanti che, non appena mi vedono, scappano via spaventate. Seguo la luce che filtra dalla piazza principale, che mi consente, come lo spioncino di una porta infernale, di presentire il calore i miei colleghi radunati sotto il chiosco di un bar. Non vedono l’ora che li raggiunga per lamentarsi delle loro giornate! Per non farmi vedere, taglio per una strada secondaria, e infilo un vicolo che conosco soltanto io. All’interno non affacciano negozi, né abitazioni; l’altro capo è cieco, perciò nessuno ha motivo di entrarci. Al centro sta un buco in cui ci passa a stento un dito, che è nient’altro che un tombino senza il suo chiusino. Questo tombino è l’unico accesso a una sezione di fogna isolata dal resto della banchina. Controllare in superficie se ci siano cedimenti strutturali della strada per verificarlo è inutile, poiché le mattonelle sono saldate in un unico blocco indivisibile. Da nessun altro punto la si può raggiungere. Le acque sporche si accumulano al centro, come in un pozzo, e defluiscono ai lati attraverso canali così stretti che neanche i topi riescono a entrarci; lo so perché sono stato io a costruirli. Ogni giorno controllo se qualcuno c’è caduto dentro per sbaglio. Da vent’anni che sono in servizio non è mai accaduto. Io dico Vent’anni che sono in servizio, e sono certo d’ogni minuto. La direzione ci fornisce di orologi da polso precisi, da quando il comune decise di abbattere la torre con l’orologio, nel mio primo giorno di servizio, quando mi svegliai di soprassalto, nel cuore della notte, alle 04.00 del mattino.
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Prosa alta e limpida. Grazie Luca e Francesco. Spero di leggere ancora Luca Maiolino.