Terre avvelenate (sillabario della terra # 10)

di Giacomo Sartori

Abituato da tempo alle terre alpine con i loro odori di resine e muschi di punto in bianco mi sono ritrovato a avere a che fare con i suoli di una valle con schiere disciplinate di meleti che occupavano ogni tassello delle ondulazioni, anche i fazzoletti più erti, a perdita d’occhio. Era evidente che i coltivatori non sopportavano la minima asperità o avvallamento: prima di irregimentare le file di piantine nanizzate piallavano i versanti con grandi macchine, rendendoli perfettamente piatti. Li volevano certo al passo con i tempi, in coerenza con i geometrici capannoni di cemento armato per la cernita e la conservazione dei frutti, e con i futuribili centri commerciali dei paesi più floridi.

Così facendo devastavano per sempre terre che ci avevano messo quindicimila anni a formarsi, e che non avrebbero più ritrovato la loro bella fisionomia e la loro fiera vitalità. Non lo sapevano, o non se ne davano pensiero. Per facilitare la circolazione dei trattori spianavano anche lo spazio tra le file dei meli di nuova generazione, levandogli la pendenza trasversale, trasformandolo in una comoda strada. Anche lì sotterravano gli strati buoni della terra, suggellando il seppellimento con la costipazione delle pesanti macchine.

Per i loro fini immediati andava bene così: i nuovi meli ancora più produttivi non erano più alti di una persona e avevano radici di una spanna. Per facilitare raccolta e potatura ricercatori e vivaisti riusciti a metamorfosare i poderosi meli tradizionali in rachitici cespuglietti, piegati sotto il peso esagerato dei frutti pompati di acqua e nutrienti chimici, senza alcun difetto. Non pensavano ai loro figli e ai figli dei loro figli, che forse avrebbero avuto bisogno, l’abbondanza non è mai eterna, di buona terra per coltivare frumento o patate per nutrirsi. Per me quello sprezzo e quell’incoscienza erano una sofferenza.

Anche lì facevo le mie solite buche, perché il nostro metodo rimane sempre quello, per arcaico che appaia nell’epoca dei sensori che vedono in profondità, delle fotocamere miniaturizzate e delle intelligenze elettroniche. Lì non c’era più la successione ordinata di strati delle terre naturali, quasi una lingua criptata della natura: la massa terrosa era stata rivoltata in malo modo varie volte, era stata violata e lordata. L’odore non era mai buono, c’era un tanfo di cattive fermentazioni e di prodotti chimici, di sozze acque stagnanti. Spesso dalla massa spuntavano frammenti di plastica, pezzi di ferro, e qualche volta anche grossi frantumi catramosi, finiti lì chissà come.

Dopo i trattamenti con i pesticidi il manto erboso e le chiome erano un marmo senza incrinature: non c’era il più il minimissimo fremito di ali, nessun cricchio o crepitio. Per giorni e giorni. Facendo i carotaggi io cercavo allora di toccare il meno possibile, di non respirare l’aria satura di sentori chimici. Rimpiangevo le terre delle montagne, la loro altera purezza, ma inanellavo i gesti che le mie mani e il mio cervello sono abituati a fare senza quasi pensarci. Era terra molto maltrattata, però svolgeva pur sempre il suo compito, faceva vivere quei meli nani stracolmi di frutti di uniforme turgidezza e pezzatura, che ricordavano magri schiavi schiacciati dalle mercanzie. Mi dicevo che forse il mio lavoro sarebbe servito per far capire che ci volevano più attenzioni, per migliorare la situazione.

Da quello che avevo sentito dire lo studio era stato commissionato dal consorzio degli agricoltori solo per fini di marketing, nessuno intendeva usarlo per risparmiare acqua o non inquinare le falde, nessuno credeva a una sua qualche utilità. Erano più che soddisfatti dei sistemi che adoperavano: per loro la terra era solo uno spazio a disposizione, una superficie sfruttabile che purtroppo era limitata e sul mercato costava parecchio. Non tenevano in conto nessun fattore che non avesse un qualche peso nei bilanci economici dell’annata.

Nelle pubblicità patinate delle loro mele c’erano assolate vette e sorgenti purissime, e anche sulle confezioni rilucevano prati e boschi incontaminati: per l’immagine tornava bene uno studio sulla terra, la terra richiama l’ecologia e i tempi andati. In ogni caso erano riusciti a far pagare l’indagine alle banche locali, con i fondi che queste sono obbligate a reinvestire nei progetti culturali. Io però continuavo a dirmi che certo qualche tecnico o qualche agricoltore avrebbe apprezzato quello che facevo, avrebbe trovato l’ispirazione per dare retta alla terra.

In molti campi, quelli considerati più avanzati, alla sommità degli imponenti pali di cemento che sorreggevano le schiere di quelle piante nanizzate erano fissati gli spioventi delle reti antigrandine. Sembrava di essere in una serra, se non piuttosto in uno stabilimento industriale, visto il forte odore di plastica battuta dal sole e di medicinali. Altro che mele raccolte da ragazze con le gote rosse di ossigeno in un paradiso alpino: quella era solo la comunicazione.

Con molte resistenze sono riuscito a trovare un accordo con l’Istituto di ricerca agricola regionale per misurare i residui di pesticidi in quei terreni tanto martoriati, ma anche verdi di erba e apprezzati dai turisti in transito verso le località alpine. Ho quindi messo a punto un elaborato piano sperimentale per verificare le differenze nei vari tipi di suolo e nelle varie zone, mi dicevo che anche quello poteva forse avere una utilità. Ho poi eseguito i campionamenti, e il grande e attrezzatissimo laboratorio dell’ente ha eseguito approfondite analisi. Nonostante le reiterate mie insistenze non sono però mai riuscito a vedere i risultati. Presumo che abbiano trovato dei valori molto alti, e non avessero fiducia nella mia discrezione.

La cosa incredibile è che perfino in quelle caverne mortifere la vita finiva per risvegliarsi. Riappariva qualche rallentato animaletto della terra, qualche ragnetto come inebetito. Presto sarebbe arrivata un’altra spruzzata di micidiali veleni, ma loro non demordevano, cercavano di rialzarsi. Sapevano forse che la vita è più forte degli uomini, continuerà anche dopo di loro. Persistevano.

A posteriori mi dico che erano come le mie speranze, che non muoiono mai. Del resto anch’io persistevo, e senza accorgermi cominciavo anzi a voler bene a quelle terre massacrate per ignoranza e mancanza di rispetto, a quelle terre avvelenate con la presunzione di mettere a bacchetta la natura, alle quali mi ero dedicato solo per mancanza di alternative, quando avevano tagliato i fondi delle ricerche naturalistiche.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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