o tempora o mor(t)es!
di
Franco Arminio
Forse la morte non è più evento. Per tanto tempo era qualcosa che veniva nella vita come una faina arrivava nel pollaio. Si puo pensare che questa faina abbia stampato la sua zampa su ogni tipo di religione. Adesso la morte ha cambiato faccia, è diventata l’aria che si respira, la scena madre della vita, il riassunto delle nostre giornate. È sempre bene in vista dentro gli amori, dentro la politica, dentro le cene tra amici. Non deve arrivare da nessun parte, è già qui. Si mette in mezzo tra l’anima e il corpo e ci scinde. Si mette in mezzo tra noi e gli altri e ci divide.
Non è facile dire come e quando sia avvenuta questa mutazione della morte da evento che irrompe a realtà che ristagna. Pensate a una nebbiolina che avvolge la nostra semisfera, pensate a una nebulizzazione dell’evento traumatico e unico della fine in vapore sospeso intorno ad ogni minuto della nostra vita. Vivere pare non altro che un aerosol della vanità di tutte le cose. E tutta la rete di comunicazione di cui siamo poveri tralicci sembra che agisca solo per diffondere il senso della fine. La morte non viene dopo l’ultimo respiro, ma sembra essere il legame tra un respiro e l’altro. Non viene pavesianamente a prendere i nostri occhi, ma già li apre e chiude a suo piacimento ogni giorno. Vediamo dal balcone della morte, vediamo il mondo come se già fossimo fuori di esso. È una situazione profondamente nuova. È una condizione che dovrebbe farci leggere l’esperienza di ognuno e di tutti come un’esperienza straordinaria. E invece ragioniamo come se fossimo sempre nello stesso mondo, nella stessa psiche, nello stesso corpo.
Questo che viviamo forse è il momento più affascinante nella storia dell’uomo. In un certo senso e per la prima volta non siamo nella vita come un’esperienza continua interrotta dalla morte, ma siamo nella morte come un’esperienza continua interrotta dalla vita. Forse non sarà divertente, ma è una situazione clamorosamente interessante.
I commenti a questo post sono chiusi
E la paura?
di vivere o di morire?
effeffe
Bellissimo brano. Già la morte come un veleno nella nostra vita?
So che vivo più con i miei fantasmi, ora che sono nell’ombra del versante.
Penso che l’ho sempre stata nell’infanzia con i fantasmi, separata del mondo della realtà.
Ma Franco Arminio parla in un senso generale, della morte in nostro mondo.
Ritrovare il senso della vita, del desiderio, dello slancio, quando tutto chiude la nostra vita.
Ciascuna giornata dovrebbe essere un desiderio alto: aprire i sensi verso natura ( cielo, vento, sole, mare), occuparsi di un vero giardino,
incontrare amici, toccare, carezzare, sorridere, amare, scivere, danzare,cantare, ritrovare il nostro corpo d’infanzia fragile e vivo.
Ora, se ascolta bene i miei fantasmi, so che sono al caldo nel mio cuore, alla mia tristezza si sovrappone il ricordo di un sorriso, e ora posso riconoscere nel mio sorriso, il sorriso dei fantasmi. A poco a poco sul volto si delineano la storia delle mie morte, negli miei occhi, anche delle amori scomparse.
Quando vedo una vecchia persona, mi sembra vedere tutta la storia della sua vita, come posso vedere anche nel volto di un amnte, il sorriso del bambino.
In realtà vita e morte si sposano ma con la passione dell’amore.
Ho sempre pensato che vive una memoria dell’amore che oltrepassa la morte.
io credo che ci stiamo avvicinando all’era del postdigitale. dopo la vita c’è la matrice. o forse questo mutato senso di morte può diopendere dal fatto che molta emozionalità, molto eros e molto thanatos sono diventati spettacolo di rete, irretiti non dalla morte, ma dalla non-vita. non c’è più l’anima che arriva dovunque senza che il corpo su muova, c’è l’avatar. e sono convito, da vari anni ormai, che si viva una dissocietà del mediale.
#Vivere pare non altro che un aerosol della vanità di tutte le cose.#
questo è bellissimo. è proprio vero che un giorno ci sveglieremo da questo incubo e inizieremo a vivere, per ora siamo macchine sfasciate parcheggiate in un parco e coperte dall’umidità di una lunghissima lunghissima sera.
Porca miseria!
E’ vero: ieri, 2 novembre, ho fatto un passeggiata a Ponte Vecchio.
Sembrava Natale.
“Una gran folla fluiva […], così tanta,
Ch’i’ non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse
disfatta.”
Mi pizzicai, per vedere se ero vivo almeno io.
Mi rimase tra le dita un lacerto.
Lo splendore dell’oro nelle vetrine
mi convinse che l’unica cosa viva,
in questo mondo,
fosse quello.
Grazie ad Arminio per la bella, significativa considerazione che ci dà da pensare e a Francesco, anche per la magnifica “performance” [ma si può dire così, in questo caso?] del principe De Curtis nonché Totò.
Bel commento di Soldato Blu.
Vorrei pensare al giallo vivo dei fiori che vedevo quando era bambina, nel mese di ottobre.
il giallo oro del crisantemo.
Amavo questo fiume dei colori, non avevo fatto il vincolo con la morte, anche se i vasi erano messi con cura nella macchina.
Oggi l’oro della vitrina nasconde la morte.
mentre che si occupa di denaro, non si pensa alla morte, ma non si pensa alla vita.
Poco a poco penso che il cimitero è un luogo da pensare.
vedo il pino che si alza verso il mare, o sento il profumo del cipresso che ho sempre amato.
Mi rammento la fotografia di un cimitero guardando verso il mare: è un luogo che ispira tristezza, ma anche senso dell’umano, dell’importanza dell’amore; una tristezza dolce.
Come non ho bambino, il senso della morte mi preoccupa.
Mi sento come una pianta sulla duna, pianta con viento, con niente discendenza: mi fa paura. Ho un sentimento di vasta solitudine, di oblio immenso, di niente che mi prolungherà: ho rotto la schiatta delle madri.
Spero non troppo scrivere, ma è un post che sveglia molte idee.
non capisco e non vedo questa mutazione epocale secondo cui ora la morte starebbe sempre con noi e prima no. Tutte metafore per dire cose con poco significato, se non forse nella percezione soggettivissima dell’autore. Ma in quale senso mai c’è ora questa nebbiolina sospesa e la vita non è più continua ma continuamente intervallata dalla morte. Ma dove mai?
@sparz
trattasi di percezione poetica, del tutto arminica.
in questo senso è reale e non contestabile.
spero che non abbia a che fare con la profezia.
l’intesità arminica è sempre più accentuata, piuttosto.
caro sparz
capisco i tuoi dubbi.
ti ha replicato perfettamente il signor t.
mi commuove l’attenzione con cui v.v.
segue questo blog e chi scrive.
bloom e il soldato blu scrivono cose su cui c’è da riflettere.
a me pare che la cosa importante del mio pezzo sia l’apertura finale.
io non sono tra quelli che porta il broncio alla propria epoca, pure se è l’epoca della morte.
armin
Grazie a te Franco.
Il brano che hai scritto è bellisssimo e mi parla: morte nel mondo odierno, come mi parla la natura, il viaggio sulla terra del sud ( il paesologo) ; terra che trovo sorella alla mia ( d’infazia) con paesi tra vento e durezza, abbandono e silenzio. La noia laggiù si fa bellezza, e le voci venute dalla terra sono rivelate in piena luce. Ho ritrovato il senso della terra nella tua poesia.
Parole scarse, ma quando vengono, hanno la luce d’oro del torrente.
infanzia volevo dire
a me sia franco che Tash fanno una tenerezza infinita. Di là (nelle altre stanze e post) si parla di loro e loro se ne stanno qui tranquilli. E’ inverno e leggere le vostre parole mi ricorda quando per preparare gli esami tosti in tre si andava a casa di un amico che abitava a Campoli Monte taburno (assai straordinario come paesaggio Frà se puoi facci un salto). e si restava dentro al salotto col camino acceso – fuori c’era la neve- in un tepore che lasciava che le ferite si aprissero alle parole e le parole ricucivano gli strappi, le lacerazioni, purificate dal fuoco.
effeffe
Bellissimo il ricordo di effeffe riscaldato alla memoria dell’amicizia. C’è un dolce asilo nelle parole da cui viene risplendere l’immagine della neve e il cuore della casa: il focolare.
Il focolare dei cuori nel canto a sotto voce dell’emozione, nel brusio della fiamma, nel suo sospiro.
Quando si cammina ( e penso che forse il paesaggio di Campoli monte taburno porta i tratti rudi del monte) nel freddo, il dolore si sente acuto, poi intorpidisce.
Allora si entra nella casa, e il fuoco brucia l’intorpedimento, si sveglia nella dolcezza il rintorno alla vita.
Questo post e i commenti sono bellissimi perché parlano con pudore delle cose importante della vita e anche della sensibilità maschile. fa bene.
caro francesco
so come potrei intervenire sul pezzo della policastro e sui commenti. forse questo testo che ho messo qui è anche una risposta a quella discussione. è che io scrivo per visioni, per dettagli, per getti di umore. le teorie su cosa debba essere la letteratura preferisco leggerle dagli altri più che farle io.
armin
caro arminio, in effetti avrei voluto scrivere un post di risposta al tuo post. un ris-post. lo farò sul mio blog… anche se mi piacerebbe postare qui, ovviamente. è vero quando parli della morte come “legame tra un respiro e l’altro”. la morte è in fondo quell’essere mancante (per dirla alla Lacan) che mai colmeremo e che pure siamo spinti a colmare. La dissocietà del mediale viene dopo la società dello spettacolo. E proprio di dissocietà parlavo nel 2003 e proprio la dissocietà vivo ora nel 2008. Vero è anche quando scrivi dell’illusione di molti che credono di vivere sempre lo stesso mondo, mo(n)do. Per me non è così. Io stesso sono Leo Bloom, Bimodale, gg. Io sono i miei altri. Io sono continuamente la morte dei miei altri. Questo è il postdigitale: quando l’avatar diventa l’anima di corpi temporali e il digitale è quello che è, non una traduzione dell’esperienza analogica, eccetera. Basta con l’analogia io non esisto!
per ridirla alla Carmelo Bene.
Il sogno di una morte perfetta, senza ambiguità, senza incomprensioni, che si presenta all’improvviso non preannunciata, magari nel sonno, priva del dolore di un cammino che la precede, poco si presta a riflessioni su di essa. Poco spazio lascia alla poesia.
Meditazioni sulla vita che l’ha preceduta, sulle conseguenze che ha apportato, sulle possibilità nascoste che una concatenazione diversa di eventi avrebbe potuto generare al posto della morte, sono invece preda dei pensieri dell’intellettuale più acuto come di quelli appartenenti ad un uomo ugualmente abile, ma in possesso della licenza di quinta elementare.
Spostare la morte dai suoi non luogo e non tempo per mescolarla alla vita da respirare tutti i giorni come un aerosol, è come pretendere di spostare la notte nel giorno e mescolarla ad esso creando un gioco infinito di forti contrasti ed illimitate sfumature. Di luci, di ombre, di bui. Dove non si capisce se sono più utili gli occhiali chiari, gli occhiali scuri o un antidoto al trip.
Troppo flusso emozionale, quasi provocatorio, troppa soggettività pessimistica in cerca – apparentemente – di condivisione con gli altri. Vedi l’uso del voi, e del noi.
Forse, non so, è un modalità difensiva dell’autore contro un’inevitabile angoscia che lo accompagna nella percezione della propria “finità”, nella conduzione della propria continuità.
Rappresentazioni magari interessanti, ma che stimolano una reazione uguale e contraria, tanto sono lontani dallo spirito di appartenenza.
Viene in mente, per esempio, la terapia del sorriso che personale specializzato mette in opera in alcuni reparti di ospedali pediatrici, e non, italiani.
Non farlo Arminio, c’è la pantera.
Sul monte Taburno.
ieri sulle strisce di piazza mazzini vedo la mia amica p.
come sta? le dico.
male, risponde.
muore?
sì.
è in ospedale?
sì. dovevamo tenerlo a casa. aveva trenta battiti, se ne sarebbe andato. invece adesso che lo tengono in vita, soffre inutilmente.
è una macchina infernale, penso. e glielo dico.
già, dice lei e vedo che piange.
dammi un bacio le chiedo senza togliermi il casco.
mi bacia sulla guancia.
@ panta rei
sul Taburno
effeffe
Sono andata a veder su google le immagini del paese Taburno. E’ un paesaggio meraviglioso come amo: alta solitudine, antiche case, memoria dei radici.
Mi rammento qualche paese della mia terra natale.