Sibili e spasmi: Polly Jean oltre la fossilizzazione del rock
di Stefano Solventi
Col nuovo disco PJ Harvey si è lasciata alle spalle le soluzioni canoniche del rock: una scelta necessaria e perciò emblematica. Qualche considerazione a latere su I Inside the Old Year Dying.
PJ Harvey è maturata lungo un viaggio che l’ha vista attraversare il mondo e quindi attraversare se stessa, esplorare ed esplorarsi, cambiare maschera, sguardo, linguaggio. Se Dry (1992) era l’esordio di una ventiduenne irrequieta che si aggrappava all’effervescenza tumultuosa dei primi anni Novanta, di un rock che recuperava centralità nell’immaginario collettivo come espressione di inquietudine generazionale e sguardo critico sulle prospettive, l’ultimo lavoro I Inside the Old Year Dying vede invece all’opera una (splendida) cinquantatreenne che ha imparato a domare la propria irrequietezza senza risolverla, ovvero accettando che un’esistenza consapevole debba (non possa fare a meno di) prevedere turbamenti, crucci, irrequietezza (appunto).
Un bel po’ di tempo fa – era il 2009 – pubblicai una monografia su di lei (PJ Harvey Musiche Maschere Vita, Odoya) nel quale azzardavo una profezia: ovvero che White Chalk (2007) rappresentava per Polly Jean la conclusione di un percorso e, di conseguenza, la premessa per l’aprirsi di una nuova fase della sua carriera. Non sono mai stato granché bravo con le previsioni, ma in quel caso gli eventi non mi smentirono. Il successivo Let England Shake (del 2010) coincise infatti con una svolta piuttosto netta, senz’altro da un punto di vista musicale (anche se a ben vedere non si trattava di una novità: praticamente in ogni disco Harvey aveva introdotto cambiamenti stilistici considerevoli) ma soprattutto sul versante tematico, perché la ex-ragazza del Dorset sembrava allargare lo sguardo al di fuori della propria parabola esistenziale, oltre le inquietudini (auto)biografiche.
Dopo avere cercato se stessa nel mondo, sembrava prendere coscienza del mondo. Ecco quindi che nuovi temi – la guerra, le forme contemporanee e variamente delocalizzate di imperialismo, le strategie macro-economiche e relative ricadute sulle realtà sociali – arrivarono a segnare liriche e atmosfere di Let England Shake così come del successivo The Hope Six Demolition Project (2016).
Il cambiamento più importante rispetto alla produzione dei Novanta e degli anni Zero riguardava quindi il rapporto tra musica e testi, con questi ultimi spostati sensibilmente in posizione prioritaria, a guidare – per così dire – il design sonoro. Non a caso The Hope Six Demolition Project fu preceduto da The Hollow of the Hand (2015), un progetto poetico e visuale condotto a quattro mani assieme al fotografo e videomaker Seamus Murphy. Mi pare conseguente individuare proprio in questo spostamento dell’angolazione espressiva una delle ragioni alla base della mutazione profonda sul versante sonoro: con il suo tipico basso profilo ma con altrettanto tipica risolutezza, PJ Harvey ci stava dicendo che non poteva più essere considerata semplicemente una rocker.
O, almeno, non nell’accezione più tipica e caratterizzante del fare rock, che al di là delle connotazioni stilistiche e formali – struttura delle canzoni, arrangiamenti – vede le canzoni ruotare quasi sempre attorno a una volontà di agnizione, al tentativo di sciogliere nodi emotivi con finalità liberatorie, contemplando “temperature” espressive che vanno dalla rabbia alla tristezza, dall’allegria all’aggressività, dal rapimento allo scazzo, dall’eccitazione (sessuale o meno) all’apatia e via discorrendo.
In ogni caso, la canzone rock – utilizzo qui “rock” come termine ombrello sotto il quale, fin dalla sua nascita, agisce una pletora di elementi anche assai eterogenei, dalla black music al folk passando dalla musica sintetica alla colta contemporanea e via discorrendo – è nella migliore delle ipotesi una cipolla di vetro intrigante, nella quale è piacevole – liberatorio – gettare lo sguardo e immergersi. Tuttavia, è una cipolla compiuta in sé, un “luogo” formalmente e atmosfericamente delimitato in cui si consuma una vicenda emotiva anche stratificata e complessa, ma di cui viene fornita comunque una soluzione (coincidente con il suo acme o la sua stessa problematizzazione, talvolta entrambe le cose).
Da Let England Shake in avanti – ma a guardar bene già da White Chalk – sembra che per PJ Harvey questo schema non abbia più avuto importanza o, addirittura, senso. Per il malcelato sconcerto – ammettiamolo – dei fan della prima ora.
Negli scorsi mesi mi è capitato qualche volta di scambiare con amici qualche ipotesi sul nuovo disco di Polly Jean, di cui era ormai certa l’imminenza. Quasi sempre le considerazioni vertevano su un auspicio: che tornasse a farsi sentire almeno in parte la potenza scorbutica e viscerale di un tempo. Di cui anche il tour di The Hope Six Demolition Project recava ormai pochi segni, a favore di un ben congegnato e peraltro assai efficace costrutto post (o avant) folk con perturbazioni blues e a tratti persino jazz. L’auspicio di cui sopra parlava chiaramente più di noi – del nostro attaccamento a un’idea ormai fossile, della nostra comprensibile nostalgia – che della musicista Polly Jean Harvey negli anni Venti del ventunesimo secolo.
Colpa, va detto, di una prassi trita e ritrita di molte carriere rock convenzionali: il famigerato rientro nei ranghi dopo una più o meno lunga escursione in territori diversi e in alcuni casi addirittura sperimentali. Fa parte del novero di ritualità consolatorie che rappresentano il porto sicuro per ispirazioni giunte al capolinea in termini di spinta propulsiva, mantenendo così viva (e remunerativa) la relazione coi vecchi fan e lasciando aperta casomai la possibilità che a questi se ne aggiungano di nuovi, attratti dal riverbero mitologico tipico delle vecchie glorie. Ma è evidente – lo è ancor più oggi – che quella di PJ Harvey non può essere definita una carriera rock standard.
Più correttamente, pare essersi sganciata dal locomotore rock per inoltrarsi in un territorio che deve rendere conto solo alla propria necessità di esprimere, nelle forme, nei modi e nei tempi che ritiene più congrui. In poche parole, Harvey si sta prendendo il rischio di volersi tanto poeta quanto musicista, forse addirittura prima poeta che musicista. Il suo sembra essere un approccio sempre più verbale all’espressione (coprendo tutto l’arco che va dalla sintassi alla semantica narrativa), come testimonia il grande lavoro sulla voce che caratterizza I Inside the Old Year Dying.
Va da sé che la voce è sempre stata per Polly Jean un elemento cruciale, ma la sua calligrafia canora (se mi si consente la locuzione) è assai mutata nel tempo. Inizialmente si è contraddistinta per l’approccio selvatico, poco o per nulla impostato, votato alla fibrillazione e al deragliamento. La sua dichiarata ammirazione per Captain Beefheart e i costanti paragoni con Nick Cave (con cui ebbe una breve ma intensa relazione), risultano del tutto indicativi per quanto riguarda la prima parte della discografia (fino a To Bring You My Love – 1995 – compreso). Poi qualcosa ha iniziato a sfaldarsi e a ricomporsi diversamente, prendendo direzioni poco pronosticabili.
Allargando progressivamente il raggio d’azione – in senso stilistico ma anche geografico e (quindi) tematico – Harvey ha capito di dover domare il timbro e il fraseggio, si è affidata a insegnanti di canto che le hanno consentito di modulare un semifalsetto evocativo e inquietante senza il quale non sarebbe stato concepibile un lavoro come Is This Desire, l’album del 1998 con cui incrociava le traiettorie trip-hop di Bristol, e soprattutto il più volte citato White Chalk. Quest’ultimo, è il caso di ribadire, la vedeva fare i conti coi fantasmi delle proprie origini adottando uno stile prossimo al cosiddetto prewar folk, ovvero lontanissimo (già allora) da tutto ciò che ci saremmo aspettati da una delle rocker più importanti a cavallo tra anni ‘90 e Zero.
Si trattò di una scelta sorprendente ma del tutto congrua se valutiamo la sua parabola come un percorso di individuazione, di ricerca di sé dal Dorset al Mondo e ritorno. Era proprio questo senso di compimento e chiusura, di pacificazione e individuazione, che all’alba degli anni Dieci mi spingeva a ipotizzare nel futuro di Polly Jean l’aprirsi di una fase nuova.
Let England Shake costituì indubbiamente una svolta, anche se per molti versi presentava ancora stilemi e strutture di stampo rock, retaggi della “vecchia” Polly Jean. Nei testi, soprattutto, avveniva qualcosa di inedito: pur se ispirati ad avvenimenti storici, sembravano progettati affinché ogni canzone lasciasse una questione aperta sul tavolo. Di conseguenza, il processo canonico – l’enunciazione di una tensione o tumulto, l’eventuale sedimentazione in uno stato d’animo e la più o meno immancabile soluzione liberatoria – appariva depotenziato, per non dire oltrepassato. Lo sguardo di Polly Jean somigliava più a un otturatore aperto, le sue canzoni a carrellate che catturavano situazioni conflittuali, corrose, tese, delle quali intendeva essere testimone prima che (anziché) il punto di fusione: una specie di rovesciamento copernicano rispetto al fisiologico egocentrismo del rock, come frutto di una rinnovata consapevolezza della propria dimensione e del proprio ruolo rispetto al presente e alla Storia.
Un aspetto che nel successivo The Hope Six Demolition Project sarà ancora più evidente. A quel punto, a rimanere fuori dalle inquadrature era lei stessa, o meglio le maschere nella quali si era incarnata fino ad allora, vale a dire quel suo cercarsi tenace e spasmodico. Guadagnata padronanza di sé, dell’idea di sé nel mondo, sceglieva di essere testimone di un mondo ferito, tanto più labirintico quanto più interconnesso, scrutando nelle pieghe e nelle piaghe del sistema alla ricerca delle particelle elementari dell’iniquità.
Tuttavia, il suo non sembrava affatto un impegno indossato come si può indossare una maglietta. Si trattava di un approccio più poetico che militante, e in questo senso non tanto a-politico quanto pre-politico: la Harvey degli anni Dieci non sceglieva una parte, il suo era un esercizio di sguardo, un farsi carico della realtà anche se spigolosa e impura, anzi proprio della sua condizione più accidentata e contraddittoria. I testi volevano costituirsi come cronache da un mondo sottoposto alla forza sia centripeta che centrifuga della globalizzazione ai tempi del web, un paradigma che investe ogni angolo del pianeta, instaurando connessioni pervasive ma impedendo una reale vicinanza, anzi esaurendosi proprio nell’imposizione di un simulacro di vicinanza, confezionato su modelli economici e sociali sradicati, funzionali a un meccanismo economico tanto immanente quanto astratto. Da cui un ritorno alla (un bisogno di) percezione immediata – Polly Jean si recò personalmente in Kosovo, in Afghanistan e a Washington DC per realizzare The Hollow Of the Hand – come antidoto alla falsa prossimità della connessione, al gioco di prestigio che illude di abbattere gradi di separazione solo per straniarti in un soddisfacimento dopaminico.
Non c’è conclusione né morale nelle storie che raccontano le canzoni di The Hope Six Demolition Project, sono sequenze che catturano un presente instabile, in bilico su sviluppi che ramificheranno tanto nella realtà esterna quanto in quella interiore di chi ascolta. Tutto è pianificato, sembra dire Harvey in filigrana, ma molto si sta ancora scrivendo, dove si consuma l’attrito tra vita e Mondo, nella risacca tra quotidiano e globale. Da cui un’esigenza espressiva poco compatibile con le convenzioni della canzone rock, che appunto tende a orbitare attorno a un costrutto emotivo chiuso, risolto, esplosivo anzi esploso, per quanto complesso e stratificato. Al contrario, il bisogno di apertura, di inesploso, di alea, ha spinto sempre più PJ Harvey verso la poesia.
Perciò non ha stupito – non troppo, almeno – che I Inside the Old Year Dying sia stato preceduto nell’aprile del 2022 dalla pubblicazione di Orlam, un poema (300 pagine nell’edizione inglese) incentrato sulla stessa vicenda che diverrà poi il concept del disco. Protagonista è Ira-Abel Rawles, una bambina di nove anni che vive nel villaggio immaginario di Underwhelem, un luogo intriso di superstizioni ataviche con al centro il santuario di Gore Woods, del quale Orlam – bulbo oculare di un agnello mitologico – costituisce una sorta di guardiano spirituale. Le pagine seguono il passaggio di Ira dall’età dell’innocenza a quella della consapevolezza-corruzione, segnata da turbamenti inconfessabili, soprusi, trasalimenti estatici, ribellione agli schemi oppressivi della famiglia e della piccola comunità, quindi dall’infatuazione per un soldato fantasma, Wyman, nel quale si compenetra la figura di Elvis, colui che annuncia “La Parola”, simboleggiata da una canzone emblematica come Love Me Tender.
Appare chiaro come tutto ciò comporti una cesura rispetto alla direzione intrapresa dai due dischi (e dal libro) precedenti. A prima vista sembra anzi trattarsi di un recupero dei vecchi temi, con Polly Jean che collassa di nuovo nel groviglio (evidentemente) irrisolto di se stessa, ovvero scruta il cuore oscuro dei tempi attraverso Ira-Abel e la sua tenebrosa vicenda di formazione. In effetti il tema della superstizione, delle figure ctonie, dell’arretratezza culturale e della perniciosità rurale caratterizzavano già la primissima produzione di Harvey, basti pensare a pezzi come Sheela-Na-Gig o Dress. Sono d’altronde gli stessi spettri (culturali e sociali) che più avanti avrebbe affrontato – con una diversa maturità, altri mezzi e intenzioni – in White Chalk. Ma sarebbe un errore credere che la PJ Harvey degli anni Dieci, quella che osservava il mondo facendosene carico, con I Inside the Old Year Dying sia stata messa da parte, svanita come una parentesi o un vezzo episodico.
Ogni percorso analitico non può che partire da Ira-Abel, simbolo di ciò che galleggia nel suo (nel nostro) essere profondo, il fanciullino pascoliano che la formattazione sociale sempre più pervasiva tenta di rimuovere col risultato di farne un mostriciattolo rannicchiato dietro i pensieri coscienti, il demone che complica i piani della volontà, la sabbia nel motore del raziocinio. In altre parole, è il fattore umano, il desiderante, quello che nell’epifania di Elvis Presley scorge il varco per raggiungere la liberazione del corpo e della parola (ovvero l’individuazione tra corpo e parola) in un presente che tende sempre più a normalizzare il desiderio – la sua natura misteriosa e sostanzialmente impura – per farne input di profilazione e carburante di piattaforme commerciali.
In questo senso, Orlam e la sua appendice sonora I Inside the Old Year Dying rientrano ancora nella sfera della militanza, dello sguardo sul mondo. Ovvero, sono il modo con cui Polly Jean Harvey ha coperto la frattura tra biografia e politica, con la mediazione di musica e poesia. Una musica che, per tutto quanto detto sopra, non poteva manifestarsi e costituirsi all’interno dei tipici schemi rock: dal punto di vista degli arrangiamenti (architettati assieme ai fidi Flood e John Parish), notiamo che trombone, clarinetto, Variophon, field recording, pianoforte, chitarre acustiche, sintetizzatori e loop pennellano una trama vibratile, caliginosa, che non esclude il rock dallo scenario (possiamo pretendere che il rock non affiori nella calligrafia di Polly Jean?) ma lo spinge in secondo piano, come una silhouette familiare (folk-psych? slowcore?) che riesci a scorgere attraverso a un diaframma, come un’ombra dietro le palpebre socchiuse.
Ma al di là degli elementi che compongono la palette sonora, nelle dodici canzoni di I Inside the Old Year Dying domina ancor più che nei due dischi precedenti un senso di tensione orizzontale, di mesmerismo rapsodico che non intende risolvere l’intuizione melodico/narrativa in un acme emotivo (come tende a fare il rock e ancor più il pop), ma anzi disegna una geografia sgranata, la vaghezza angosciosa di un orizzonte senza punti di riferimento netti. È un “luogo” che elude la territorialità, vaporizza le coordinate temporali, spariglia i connotati culturali, costituendosi come un altrove ibrido, superficie atavica lacerata di strappi e cosparsa di buchi dai quali filtrano i fantasmi di un futuro passato.
È il campo da gioco ideale – o, meglio, necessario – per la strategia espressiva individuata da Polly Jean, il modo in cui ha scelto di produrre senso, dal momento che il senso è sempre prodotto, non è mai originario ma causato, quindi correlato a modi e forme delle sue cause. Un senso che evidentemente non poteva essere causato da forme rock: tuttavia, Harvey non ha potuto abdicare a se stessa, a tutto ciò che l’ha portata fino a qui (e quindi anche fino a quel senso). Perciò al poema è seguito il disco, il riflesso sonoro del poema.
Vista da qui può sembrare una scelta arbitraria e, soprattutto, conveniente. Ma occorre puntualizzare: Harvey ha confermato le voci che la volevano intenzionata a chiudere con la musica dopo The Hope Six Demolition Project, così da potersi dedicare alle sue altre passioni, ovvero la scrittura e il disegno. Ha rivelato inoltre di avere coltivato concretamente il sogno di realizzare una versione teatrale di Orlam, progetto poi naufragato ma i cui lavori preliminari l’hanno portata naturalmente a concepire il disco.
Così ha dichiarato in un’intervista a NPR: “Mi sono resa conto che sono un’artista che crea con parole, musica e immagini, e non sono mai del tutto sicura degli esiti finali. Anche nelle prime fasi di scrittura di una canzone, molto spesso concepisco le cose in modo molto visivo: potrei vedere una scena, quasi come una scena di un film, e vedrò i colori e l’ora del giorno. Le immagini, le parole, la musica: si alimentano a vicenda”. Il disco andrebbe visto quindi come un asintoto tra due forme espressive così lontane così vicine – così sovrapponibili e aliene – come la poesia e la musica (con l’arte figurativa ad agire, diciamo così, come processo sinestetico in background).
Sostiene Lewis Carroll, citato da Gilles Deleuze: “spasmo o sibilo, le due regole della poesia”. Quanto sia “sibilo” il (post?)rock di I Inside the Old Year Dying è evidente all’ascolto, costituisce la fibra stessa del canto di Polly Jean, prevalentemente tarato su un registro sfuggente, laterale, quasi riluttante (“mi sento come se non avessi mai cantato come faccio in questo disco”, sostiene nella succitata intervista a NPR). Non cerca mai la deflagrazione, l’agnizione – melodica, testuale – liberatoria. Dal punto di vista lessicale, ricorre sistematicamente a locuzioni dialettali – del Dorset – per la loro carica esoterica, per la capacità di offuscare e al tempo stesso contenere, di ramificare senso. Termini come “leery”, “bwoneyard”, “wordle”, “gapmouth”, “Eäpril” o “curdling” determinano uno scostamento ricorrente tra significante e significato, sono riconoscibili e quindi tutto sommato comprensibili rispetto all’inglese standard eppure sono altro, prevedono un livello residuo di sfocamento, testimoniano uno scarto di realtà minimo ma sensibile. Da cui il perturbante, l’uncanny che si prova di fronte a ciò che è familiare tuttavia trasmette segnali di alterità. È una delle chiavi con cui Harvey tenta di scardinare la materia oscura del senso.
In una scaletta più dinamica di quanto non faccia pensare un ascolto superficiale, che appunto fa prevalere – deve farlo – il senso profilmico di slittamento e mancanza di appigli, Lwonesome Tonight costituisce la chiave di volta: la bambina si schiude rispetto ai misteri diversi – ma simili nella loro profondità – di Natura e Civiltà, da una parte i faggi, i salici, le betulle e i pioppi tremuli, dall’altra il soldato/fantasma con la sua Pepsi, i panini al burro di arachidi e banana, e quella canzone che sembra spalancare universi di carne e spirito. “Are you Elvis? Are you God?/Jesus sent to win my trust?”, sibila Ira-Abel, ed è quasi più un’invocazione che una domanda. In questo amplesso spettrale intravediamo l’interrogativo angoscioso della contemporaneità: se è vero che siamo umani perché produttori di strumenti culturali, di tecnologie sociali, cosa sta accadendo alla nostra umanità profonda, alla nostra dualità indecifrabile, al nostro essere pre-tecnologico?
La canzone si chiude con una domanda – “My love, will you come back again?” – che spinge il sibilo fin sull’orlo dello spasmo. E proprio su questo orlo/confine il disco continuerà a muoversi fino al movimento conclusivo, al tracimare nella dimensione elettrificata di A Noiseless Noise, nella sua pulsazione battente, meccanica. Che è uno spasmo sì, e uno spasmo rock, certo, ma non spasmodico, anzi come devitalizzato, vissuto da una distanza poetica, domato in una forma reiterabile, quindi rumore senza rumore (appunto), un falso movimento, uno spasmo spettrificato. In questo finale si avverte come un corrugarsi estemporaneo del mistero, un’oscillazione di senso tra una “gawly girl” e un “bogus boy” prima che cali di nuovo su di loro la foschia dell’indistinto, la falsamente pacifica(ta) normalità (“Go home now, love/Leave your wandering”). E questo è il massimo che ci viene concesso in quanto acme liberatorio: sembra quasi che Harvey utilizzi una forma rock per evidenziarne l’impotenza in una cornice narrativa che non prevede soluzione. Che non prevede liberazione.
Dopo un numero considerevole di ascolti, la sensazione è che I Inside the Old Year Dying sia un disco destinato a restare. Sono convinto che lo aiuterà – paradossalmente: ma questa è un’epoca di strani paradossi – il fatto di non curarsi dei trend e delle prassi promozionali standard. Anche solo per la sua così strutturata e stratificata natura di album (potremmo addirittura parlare di concept album), costituisce un anacronismo tenace, una sfida alle prassi imposte dalle piattaforme di streaming che tendono a privilegiare l’uscita del singolo (di più singoli anziché di un album), tanto che tra i cosiddetti nativi digitali fatica ad attecchire il concetto di album diversamente da quello di “raccolta di canzoni”.
Tuttavia, non si può ignorare che I Inside the Old Year Dying esiste così come esiste grazie a un’opera letteraria preesistente: sembra quasi suggerire che la possibilità stessa di un (concept) album oggi non possa prescindere da una “stampella” esterna, da qualcosa che lo determini e lo giustifichi.
Inoltre, come ampiamente detto, per realizzarlo la sua autrice – una delle più importanti figure del rock degli ultimi trent’anni – ha ritenuto necessario intervenire sul proprio linguaggio fino a metterne in crisi la fisionomia rock, vale a dire mutando in profondità quelle caratteristiche che definiscono il rock da circa settant’anni – dal primo Elvis – a questa parte.
In conclusione, credo che I Inside the Old Year Dying sia un disco particolarmente riuscito anche per come chiede all’ascoltatore di uscire dalla comfort zone e riconsiderare la propria cassetta degli attrezzi estetica. Ciò vale ancor più per chi voglia tentare un approccio critico: un’angolazione rock (ci si metta tutto il folk, il blues e le escursioni sintetiche che si vuole) rischia di spingere l’analisi fuori dalla cornice e produrre valutazioni incongrue.
Detto in altre parole, col suo decimo album PJ Harvey ci sta comunicando – sta sibilando – un messaggio a latere ma a mio avviso cruciale: in un presente mai tanto rapido a trasfigurare ogni codice nel proprio stesso avatar, per esprimere in maniera significativa occorre tenere salda la presa sul significante, e se necessario intervenire con determinazione, modificandolo anche in profondità. Per evitare che ne rimanga solo un riflesso calcificato al termine di una lunga catena di riflessi, la scintillante amnesia di un linguaggio ormai fossile.