Un’estate con Manzoni #3 — Il corpo
[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima e la seconda puntata.]
di Marco Viscardi
I Promessi sposi, capitolo XIV : il corpo
È bastata una notte. Una sola interminabile notte. Quella che San Giovanni della Croce avrebbe chiamato l’oscura notte dell’anima. Quella dell’incontro con l’Altro per eccellenza. Il Divino, in questo caso Cristo. Uno studioso magnifico, come il padre francescano Giovanni Pozzi, ha scritto un bellissimo saggio sul nome di Dio nei Promessi sposi e ci ha insegnato che mai, in tutto il romanzo, si pronuncia la parola Cristo, quindi anche io, da laico, la scrivo con rispetto e sottolineandola. In una notte, l’innominato ha riconosciuto, nella sua interiorità, la voce di Dio. È stata una notte interminabile, mostruosa. Al mattino, il suono del popolo festante, in marcia verso il cardinale Borromeo, in visita pastorale, l’aveva dissuaso dal suicidio. Era la voce della vita. Il resto si sa: dall’incontro con l’uomo santo, il peccatore prende l’impegno di cambiare vita, libera Lucia e arringa i suoi uomini dicendo loro che tutto è cambiato e che, da ora, la sua immensa energia vitale, la sua potenza, l’intelligenza del falco saranno orientate al bene.
Ora leggiamo il brano:
E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel’avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.
Cosa caratterizza un grande scrittore? Ognuno avrà la propria risposta, io credo sia la capacità di tenere il mondo nella sua scrittura, nella sua sintassi. Di tenerlo saldamente e poi, se vuole, di lasciarlo andare. Insomma, questa pagina per me è bellissima: commentarla è una sfida, bisogna contare le parole.
Qui Manzoni è concentratissimo: sta affrontando uno dei passaggi più ideologicamente delicati del romanzo. La conversione, che lui stesso, don Alessandro Manzoni, aveva conosciuto in un momento delicatissimo della sua esistenza. Non è apologetica, non è dottrina astratta, è l’anima di un uomo che attua, o forse subisce, una torsione, cambia, ma cambia senza dimenticare chi è stato fino a quel momento. Getta all’aria la propria dittatura interiore, si apre ad un mondo nuovo di possibilità. Rileggiamo tutto:
E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.
L’innominato sta al centro della sala, eccolo:
Il suo è il gesto di un condottiero: i suoi uomini, abituati ad un mondo di violenza, «vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta, e con la spada in pugno». Nel loro immaginario, la santità è una virtù energica, pronta alla battaglia. L’innominato li vede andare via come pecore e bastano davvero queste poche parole per darci il senso visivo della scena. Si sono sbrancati, hanno rotto le fila, nella penombra dei lumi, bellissimo.
Rimasto solo, l’innominato procede all’ispezione degli spazi. Maledetto Manzoni, ancora una volta ci sono poche parole e, a noi, quel giro pare lunghissimo e allo stesso tempo consuetudinario. È il dovere del comandante, ma in questa scena c’è qualcosa del commiato, dell’addio a ciò che era prima. Ogni volta che la leggo, penso a Prospero nella Tempesta di Shakespeare che spezza la sua bacchetta e dice addio agli inganni, alle illusioni e ai trucchi. Qui il comandante attraversa per l’ultima volta gli spazi del male: d’ora in poi, la roccaforte darà rifugio e protezione a chiunque si senta in pericolo e perso fra le tragedie del mondo.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel’avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.
Rieccolo, il grande scrittore: entra nella testa del personaggio senza dircelo. Ora, per l’innominato, il mondo assomiglia ad un caos, ad una matassa da sbrogliare, da rimettere in ordine. Un caos che lui stesso ha creato, come artefice principale, e che a lui tocca rimediare.
Ma non adesso. Dopo aver pacificato l’anima, il corpo si fa sentire. Scandisce la sintassi del romanzo, addolcisce i pensieri. È il sonno della riconciliazione, quello che la notte prima, e per chissà quante notti, gli era mancato. Il corpo sancisce il nuovo accordo che l’uomo ha stretto con sé stesso. Nel bellissimo italiano di Boccaccio, potremmo dire che l’innominato si è “rappattumato”. Verbo difficile da pronunciare, ma bellissimo, che deriva dal pactum, dal patto che sempre stringiamo con noi stessi, che spesso è un patto pavido, un po’ al ribasso, ma che, nelle grandi crisi, quando tutto crolla, a volte riusciamo a rinegoziare — e, in questo modo, a rinascere.
Aveva sonno, aveva sonno, aveva sonno.
L’ingombro delle cose da fare, quelle che avrebbero messo a dura prova l’intelligenza, appartengono alla dimensione del domani. Ora il corpo consiglia la necessità superiore del sonno e del riposo. E l’ora di dimenticare il male, di cedere ad una saggezza delle membra, e non dei pensieri.
Il corpo è il campo di battaglia del romanzo. Tutto inizia dalla scommessa di don Rodrigo e del cugino Attilio sul corpo di Lucia. Il potere feudale è basato sul possesso: delle terre, delle anime, dei corpi. Il potere feudale verticizza: il nucleo di quella morale sta tutto nelle parole che il Principe Padre rivolge alla figlia Geltrude, non ancora monaca di Monza, per spiegarle come va il mondo. Una volta badessa, le dice, farai l’«alto e il basso». Il cosmo mentale di questi personaggi è gerarchico, ogni cosa sta in una tassonomia, tutto è disposto secondo un ordine in cui si può solo obbedire o comandare. Più si va verso il basso, più l’unica sorte possibile è servire e tacere. Sono gente di nessuno, dice don Rodrigo di Renzo e Lucia, e vuol dire una cosa precisa: sono esseri umani senza protezione, non appartengono a corporazioni, non gravitano in campi di potere, valgono per sé stessi. Sono solo corpi. Corpi da possedere. Come si fa al bordello.
Ma il corpo non è mai controllabile, malgrado ogni diffusa fantasia al riguardo. Il corpo non segue le regole sociali, tira trabocchetti, non è affidabile. Si ammala, e così anche don Rodrigo si ammala di peste, va al lazzaretto, diventa corpo fra i corpi, cosa fra le cose.
Nella notte in cui si ammala, fa un sogno che è uno degli incubi più perfetti della nostra letteratura. Si ritrova in una chiesa: «Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni». Nel delirio onirico, Rodrigo si trova nella messa dei morti. Dal fondo della coscienza, il tema folclorico della funzione, cui partecipano i defunti che da vivi non furono pii, diventa lo scenario perfetto per l’angoscia. In mezzo a quei volti deturpati, a quella folla che l’opprime, anche don Rodrigo è diventato nessuno. Ogni autorità, ogni distinzione si è persa.
Largo canaglia! – gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte.
Sentiamo anche noi l’orrore di quei corpi sporchi: solo uno scrittore agorafobico poteva pensare una pagina come questa. Don Rodrigo si perde, quei corpi sparsi e oppressivi sono in realtà il suo corpo, il corpo che, in preda alla malattia, si fa enorme e straniero. Si fa ostile. La spada, il simbolo dell’orgoglio nobiliare, si trasforma nel male fisico, della piaga che genera dolore. Come per tutti gli altri appestati.
Il corpo vince sempre.
Ma il corpo ha le sue esigenze. Nel suo Romanzo per gli occhi, Daniela Brogi ha immaginato che una copia delle caravaggesche Sette opere di Misericordia campeggiasse nelle sale del Lazzaretto di Milano.
Il quadro fu completato nel 1607, a Napoli, per il Pio Monte della Misericordia, e da allora è ancora lì, sopra l’altare maggiore. Il Pio Monte era nato dal desiderio di alcuni giovani nobili napoletani di attuare misericordia per i bisognosi. Misericordia materiale, occuparsi dei corpi. Perché da soli, i corpi non sopravvivono.
La natura, nel romanzo, è spesso segnata dalla carestia e dalla privazione. È un mondo povero, fragile, instupidito dalla fame. Mendichi, lavoratori stremati e sfiduciati, bambini stralunati e persi, animali macilenti. Il cibo è scarso, ma nel romanzo si mangia, tanto che lo si potrebbe leggere seguendo la traccia del cibo, dalla polenta minima di Tonio che sembrava «una piccola luna, in un gran cerchio di vapori», alle polpette che Renzo mangia all’osteria. Renzo è un eroe mangiatore, si nutre di continuo e quando arriva a Milano nei giorni della rivolta, si avvicina al grande avvenimento, mangiando dei pani che ha trovato per strada. Come un bambino al circo. Ma vediamo mangiare anche Lucia quando, libera dal suo prigioniero, trova riparo nella casa di quel meraviglioso personaggio che è il sarto, gran lettore di storie cavalleresche.
Eccola, in un interno lombardo che, per pulizia e sobrietà, ricorda le case della pittura olandese. Il padrone di casa manda cibo ad una vicina afflitta dalla miseria. Il corpo è universale e nutrirlo è un atto collettivo, sociale, soprattutto in tempi di carestia. “Compagno” è chi divide il pane, che non è mai solo il pane. È il corpo di Cristo, ma è anche l’incontro con chi condivide il nostro destino. Può essere uno sconosciuto o un amico. E così, avvicinandoci alla prossima puntata, chiudiamo con Renzo che nel capitolo trentasette torna nel paese dopo aver ritrovato Lucia viva e ripara a casa di un amico – Manzoni lo chiama proprio così, l’amico – che gli offre un pasto.
“Lascia fare”, disse l’amico; mise l’acqua in un paiolo, che attaccò alla catena; e soggiunse: “vado a mungere: quando tornerò col latte, l’acqua sarà nell’ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa’ il tuo comodo”.
Il centro della frase mi sembra essere il biancore del latte, soprattutto associato alla trasparenza dell’acqua. Erich Auerbach ha messo al centro della rivoluzione culturale del romanzo la dignità con cui esso tratta gli aspetti più quotidiani e materiali dell’esistenza. La vita, anche quella organica e semplice, è seria, va rispettata. L’avevano già fatto i pittori olandesi, appunto, e ora lo fanno i narratori. Nei gesti dell’amico c’è la gioia della condivisione. E l’invito finale è commovente. Dopo tante che ne hai passate, adesso riposati un po’ e sbracati, che dopo si mangia. È la vita, la vita che tutti conosciamo nella totale uguaglianza del corpo, dei suoi bisogni e dei suoi desideri.
Il romanzo iniziato col corpo braccato di Lucia termina coi figli degli sposi. Nelle nuove incarnazioni, la vita va avanti.