Erosione (sillabario della terra # 4)
di Giacomo Sartori
I suoli coltivati sono molto fragili, un po’ di acqua che ruscella alla loro superficie è in grado di strappare via gli straterelli superiori, che sono quelli più ricchi e fertili. Depositandoli alla base dei versanti, dove l’acqua rallenta, o sversandoli nei fiumi e torrenti, che li portano nei mari. In entrambi i casi, che spesso coesistono, è una perdita definitiva. Se poi l’acqua scorre violenta arraffa tutta la parte buona, incide rigagnoli e profonde forre, mangiandosi quantità impressionanti di terra, annientando il lavorio di millenni con il quale questa si è formata a partire dalle rocce. Non occorrono forti pendenze, l’acqua prende forza anche con dislivelli minimi, nemmeno percettibili all’occhio umano.
Fin dall’inizio per coltivare le nostre piante abbiamo tolto di mezzo la vegetazione naturale, che proteggeva efficacemente la terra, non c’erano molte alternative. Nei campi seminati il suolo resta allora nudo per lunghi periodi, e spesso proprio quando le piogge sono più intense. L’inverno, nelle zone temperate. Ma anche le piante già spuntate spesso proteggono male il suolo, in particolare quando sono ancora piccole. Fin dall’inizio l’agricoltura si è scontrata con questa sua indole a ingigantire un processo naturale che alla base aveva i suoi effetti positivi, quella di portare materiali e annessi nutrienti nelle porzioni costiere dei mari. Rendendo un buon servizio a pesci e altri organismi.
Da una manciata di decenni l’erosione è un flagello assolutamente generalizzato, perché l’agricoltura industriale ha ampliato i campi, accorpandoli e eliminando le siepi e le barriere vegetali che li separavano. Senza preoccuparsi delle conseguenze, nonostante le conoscenze scientifiche ci fossero già tutte: semplicemente si guardava solo a rendere il lavoro delle macchine agricole più pratico e redditizio. Si guardava e si guarda alle rese a ettaro del momento, senza preoccuparsi del futuro, ignorando i danni e i segni che mostravano l’urgenza delle attenzioni. E’ molto semplice, più un campo è lungo, più l’acqua acquista velocità e energia distruttrice.
Ho in mente i giganteschi canyon scavati dall’acqua nelle colline coltivate nel nord dell’Algeria. Resta un paesaggio pietroso, senza vegetazione, che fa pensare alle immagini delle superfici di Marte, risultato di successioni di cataclismi sconosciuti. Restano il reticolo delle incisioni, le carie scavate dalla furia dell’acqua. Il tutto è accaduto in pochi decenni. I coloni sono arrivati con le loro tecniche e la loro scienza, i loro trattori, la loro arroganza. Hanno spianato le gobbe dei poggi, per ricavarci lenzuoli ben regolari e di bell’aspetto, li hanno seminati a frumento. Le rese a ettaro erano ottime, il futuro sembrava radioso. In men che non si dica l’acqua si è portata via tutto. Scacciando l’agricoltura e gli uomini, scacciando la terra. Dalle devastazioni provocate dall’uomo esala qualcosa di enigmatico, sfuggono la logica e il senso. Gli uomini fanno i danni, e quando questi sono troppo gravi per essere riparati se ne vanno.
Più spesso si tratta di una asportazione dilazionata negli anni, incessante ma non visibilmente catastrofica. Per certi versi è ancora peggio, manca il monito alla saggezza. Noi passando in automobile vediamo campi verdi, con la droga dei concimi chimici si riesce a mantenerli rigogliosi, e pensiamo che tutto vada bene. Lo pensano molto spesso anche gli agricoltori. Ma non è così: la terra un po’ alla volta si accumula nelle zone più basse, e soprattutto se ne va via con le acque che viaggiano verso il mare.
Nella maggior parte dei casi la gravità del processo non è visibile a occhio nudo, soprattutto per i profani. Niente di spettacolare, niente che possa finire sulla rete, niente che faccia fremire, e che anzi ha l’apparenza della floridezza tecnologica. Se per caso si forma una ferita più grave viene subito colmata con le macchine, viene nascosta. Quello che sa fare molto bene l’agricoltura industriale è curare le apparenze. Anche per questo la si lascia fare, e i campi vengono ogni anno piallati un po’ di più in superficie.
L’aspettativa di vita dei suoli coltivati in pendenza anche minima si è ridotta quindi più frequentemente all’ordine di grandezza di quella di un essere umano. Nei casi migliori il doppio, spesso e volentieri meno: grazie al nostro intervento i tempi geologici e dei cicli climatici, quelli della terra, si conformano a quelli umani. Difficile dire quanto fosse all’inizio, c’è appunto di mezzo anche il clima, ma quando l’erosione resta molto scarsa è compensata dall’approfondimento verso il basso, quello legato alla lenta degradazione dei materiali minerali di partenza.
E’ forse il danno principale che l’agricoltura che molti considerano assai efficiente ha causato e sta causando in tutti i continenti. Si sono ridotte e si stanno riducendo le superfici coltivabili, già molto ridimensionate dalle inarrestabili metastasi delle città e delle infrastrutture. E peggiorano drasticamente le capacità di quelle che restano. A differenza di altri guasti questi sono perenni: per rimediare si può ben poco. Vuol dire che in futuro le terre utilizzabili saranno meno, e di minore qualità.
Ora in alcune parti del mondo si sta più attenti, e si cerca di applicare misure preventive, evitando in particolare di lasciare i suoli nudi tra una coltura e l’altra, seminando per esempio piante al solo scopo di proteggere. La scienza ha adesso le idee ancora più precise, e si conoscono bene molti espedienti adatti. L’agricoltura delle grosse macchine e dei grossi investimenti non è però abituata a riflettere sui guasti che essa stessa provoca, è un colosso cieco e sordo, istruito a andare sempre dritto. Non ha connessione con la terra, non sa ascoltare la sua lingua, non dà retta a nessuno. Va dove la portano le rese a ettaro, pompate dai concimi chimici, e la convenienza monetaria immediata.
Ma intendiamoci, ci vorrebbe relativamente poco. Spesso è sufficiente ridurre la dimensione delle parcelle, in particolare nella direzione della massima pendenza, o intercettare in qualche modo le acque che scorrono perché si diano una calmata. Ci sono molteplici soluzioni. Tanto più che negli Stati occidentali gli agricoltori ricevono molti quattrini pubblici, quindi si potrebbero mettere delle condizioni. Nessuno vuole però o si può permettere di aumentare anche solo di un minimo i costi di produzione: detta legge l’economia schizofrenica, quella che non tiene conto dei costi ambientali, che finge di non vederli, e che strozza l’anello più importante, i produttori.
Nelle regioni secche è invece il vento a strappare via la parte migliore della terra, quasi l’acqua mancasse anche per fare i danni. I risultati sono però sostanzialmente analoghi: il vento sa essere ladro come le acque arrabbiate. La differenza è che la terra asportata diventa polvere che viene trasportata chissà dove, anche a centinaia o migliaia di chilometri. Nei casi peggiori i venti lasciano indietro solo i pietrami, gli strati sterili.
Sono quelle polverine che noi conosciamo perché sporcano le automobili, per intenderci. In quel caso vengono dal Sahara, e rappresentano per così dire la versione naturale del fenomeno, e benefica. Quelle particelle volanti sono infatti fondamentali per concimare i mari, compreso il Mediterraneo, apportando in particolare il ferro di cui essi sono molto poveri. Si può considerare una consegna a domicilio di un bene di prima necessità. E perfino la foresta amazzonica viene foraggiata in quel modo per lei essenziale, e qui nel vasto cesto di elementi il vero regalo è il fosforo.
Il problema è che con l’agricoltura ampliamo le zone di asporto: anche molti campi delle aree aride o con una relativa aridità diventano deserti che i venti scarificano. Soprattutto quando i suoli hanno perso materia organica, che lega assieme le particelle, difendendole, e non sono protetti dalla colture. Negli anni Trenta nell’Oklahoma e negli stati adiacenti è stata una catastrofe, il Dust Bowl, che ha portato disperazione e morte. Ora succede a scala più ridotta, ma molto più estesa, in tante regioni del mondo. Anche in Europa, e non solo nel suo sud. Come sempre le azioni dell’uomo amplificano o moltiplicano meccanismi esistenti della natura, rendendoli più aggressivi e nocivi, o appunto ubiquitari. Non inventiamo niente, nemmeno nella nostre distruzioni.