Ultimo giorno di scuola ( dettagli)
di Giorgio Mascitelli
L’ultimo giorno dell’anno scolastico è sempre il giorno più lungo per tutti gli insegnanti perché richiede il rapido sviluppo di capacità che vanno dall’animatore al vigile urbano fino all’addetto al servizio d’ordine di un evento pubblico. Nella scuola dove insegno in realtà non è accaduto nulla di particolarmente idiota o vandalico, ma proprio per questa sua medietà la giornata è un interessante indicatore di alcune tendenze. Diciamo che rispetto anche solo a quindici anni fa si è sviluppato un modello di festeggiamento che potremmo definire, con un riferimento culturale che parla alla mia generazione non certo a quella attuale, da Animal house anche in studenti che non hanno intenzione di fare nulla di eclatante né di incivile: semplicemente vi è un presupposto che è quello della sfrenatezza coltivata secondo modelli mediatici, dalla classe che si è presentata a scuola arrivando direttamente dalla discoteca in cui ha trascorso la notte al corteo guidato da un qualche aggeggio di amplificazione alla battaglia all’uscita con la schiuma da barba, condiviso da tutti, salvo pochi antisociali. Ripeto quello che registro non sono quegli eccessi incivili, che in fondo ci sono sempre stati, ma un lento scivolamento del festeggiamento standard verso modelli, sicuramente mediatici, isterici e papeetiani.
Osservando questi movimenti, mi è venuta in mente una considerazione che Lévi-Strauss compie in Tristi tropici, sebbene sia relativa agli studenti universitari, per di più di un secolo fa. L’etnologo francese suddivide la famiglia degli studenti in due grandi famiglie, da un lato quelli di Diritto e Medicina e dall’altro quelli di Lettere e Scienze. I primi interpretavano una giovinezza ‘ rumorosa, aggressiva, preoccupata di affermarsi anche a prezzo della peggiore volgarità’, mentre i secondi erano ‘adolescenti prematuramente invecchiati, discreti, riservati’. La differenza delle attitudini secondo Lévi-Strauss è dovuto al fatto che i futuri giuristi e medici, benché vivessero ancora una situazione relativamente indeterminata, erano già dentro il sistema sociale delle professioni, che li avrebbe inglobati dopo la laurea ponendo fine alla loro ‘giovinezza’; viceversa coloro che si sarebbero dedicati ai mestieri dell’insegnamento e della ricerca non avrebbero mai del tutto detto addio all’universo infantile perché in qualche misura, a vario titolo, sarebbero restati sempre nella scuola. Difatti una vita di studio porta naturalmente a una visione dei tempi totalmente diversi rispetto a quelli dei fatti concreti della vita sociale, che caratterizza la vita dei professionisti.
Ora lo stesso Lévi-Strauss sottolinea l’estemporaneità della sua osservazione, supponendo che già nel momento in cui scriveva il libro, una trentina d’anni dopo, le cose probabilmente fossero cambiate, eppure a me è venuto naturale paragonare la rumorosa giovinezza di questo ultimo giorno di scuola con quella degli studenti di Diritto e Medicina. E’ indubbio, infatti, che anche i festeggiamenti dell’ultimo giorno di scuola siano una testimonianza di adesione a questo modello di ‘giovinezza giovane’, ma con due grandi differenze rispetto all’osservazione dell’autore di Tristi tropici in primo luogo che le pratiche concrete di quel tipo di giovinezza oggi sono condivise e in voga anche nella società adulta; in secondo luogo esse non sono segno di nessun particolare inserimento in un sistema delle professioni, essendo noi in una scuola di massa, e dunque non sono un segno di sicurezza sociale, come lo erano ancora, per esempio, i pantaloni ‘con nu stemma arreto’ e il cappellino ‘cu ‘a visiera alzata’ della nota canzone di Carosone, Tu vuò fa’ l’americano, rimixata con successo in tempi recenti ma ormai del tutto incomprensibile nelle sue allusioni sociali.
Se non rimandano più a un sistema socialmente prestigioso, significa che sono diventati simulacri che ricordano la passata sicurezza sociale, ma non la rappresentano affatto, anzi il fatto che questo tipo di giovanilismo non passi con la fine degli studi certifica che non c’è uscita dalla giovinezza e non c’è, simbolicamente, età matura da raggiungere. Si sa che nelle dinamiche lavorative e sociali questo elisir di giovinezza ha un nome ben preciso ed è quello di precariato: il precario per le specifiche qualità di adattamento, pardon resilienza, deve essere giovane indipendentemente dall’età anagrafica. D’altronde una volta non si chiamavano ‘ ragazzo’, a prescindere dall’effettiva età, camerieri, fattorini d’albero e facchini alla stazione?
Ma forse c’è una differenza ancora maggiore: in una classe in quest’ultimo giorno si saluta, negli ultimi minuti prima della fatidica campanella, una compagna che si trasferisce non in Polinesia, ma in una scuola a qualche fermata di metro da lì. Insomma si perde una compagna, ma l’amica resta sempre lì facilmente raggiungibile sia virtualmente sia fisicamente, eppure un pianto incontrollabile erompe come se la destinazione finale fosse la Polinesia, specialmente tra i più euforici e attivi nei festeggiamenti. E’ come se l’amicizia, il legame personale, non potesse sopravvivere al cambiamento di collocazione nella struttura scolastica, è come se sentimento e funzione coincidessero, è come se i compagni di classe fossero amici soltanto in quanto compagni: la classe non è l’occasione dell’amicizia ma la ragione. E una vita relazionale che coincida con quella lavorativa ( e prima scolastica) è in fondo sintomo di una chiusura alle possibilità d’incontro, una chiusura che però viene vissuta come limite oggettivo, posto dall’esterno, da una sorta di cappa aziendalistica che domina i modelli e le aspettative di contatto sociale, con l’ironia che queste aziende totali, che ti prendevano dal primo all’ultimo giorno di lavoro, nell’epoca del precariato non esistono quasi più.
Quand’ero ragazzo, i punk cantavano no future, si trattava nel nostro caso di un eccessivo pessimismo giovanile, la prima generazione che lo potrebbe sostenere a ragion veduta è proprio questa dei nati nel nuovo millennio.
Bell’ articolo. La scuola ho bisogno di queste analisi, non retoriche, non debordanti di indignazione ( che resta fine a sè stessa), a volte stucchevoli. Ci vogliono analisi che colgono il nocciolo dei fenomeni, con la giusta distanza dell’ intellettuale.