Via dalla pazza folla

di Paola Ivaldi

“E la gente è contenta nelle città che sono belle”
Elio Vittorini

Luca no, non è un escapista. “Non sono mica scappato, mai stato uomo in fuga, ho solo trovato un mio posto nel mondo”. Luca e io ci conosciamo, come si usa dire, da una vita: una vacanza estiva famigliare condivisa da bambini, nei lontani Settanta, in una Palau ancora (quasi) incontaminata; poi liceali scapestrati, negli Ottanta (lo chiamavamo “Freedent” per via del suo strepitoso sorriso da spot pubblicitario); infine, dopo una lunga parentesi temporale, ci siamo ritrovati ormai sbalzati nel secolo nuovo, lui nel frattempo trasferitosi in una defilata valle del Canavese, letteralmente circondato dai boschi. La sua radicale scelta di vita risale, infatti, ai tardi Novanta.

Erano molti anni che non ci incontravamo, ma senza un motivo preciso, come capita talvolta fra le persone che si perdono di vista. Sapevo comunque, per vie traverse, che fra le varie attività da lui portate avanti vi era la sound therapy effettuata tramite i didgeridoo, procuratisi durante una lunga permanenza in Australia, e con i bastoni della pioggia, che realizza con le sue stesse mani.

Decido quindi di rompere il silenzio, rivolgendomi a Luca per un trattamento: vorrei sottopormi a un massaggio sonoro, nella speranza di sciogliere, grazie alle potenti vibrazioni emesse dai lunghi legni cavi di eucalipto, una sorta di indolenzimento esistenziale.

Sono quasi certa che, in un qualche modo del tutto inspiegabile razionalmente, gli ancestrali suoni emessi dai didgeridoo contribuiranno a smuovere i miei chakra, appesantiti da spesse stratificazioni di ansie e pensieri molesti, smangiucchiati dai tarli di sterili ossessioni che mi scavano dentro quasi quotidianamente, sempre le stesse, da anni, tarli malefici che tento di ammaestrare e tenere a bada come posso, con il valido ausilio della pratica di yoga e meditazione e di lunghe camminate. Ma essendo ben lungi dall’aver raggiunto un livello decente di saggezza e di pacificazione interiore, il più delle volte mi sento letteralmente divorata dai suddetti tarli, i chakra sempre più bucherellati e incrostati, la convinzione che la mia vita obbedisca a un mantra del tipo: prima il dovere, poi il dovere, con l’eventuale penosa variante: prima il dovere, poi lo spiacere.

Giungere alla meta si rivela una piccola impresa poiché la segnaletica del Canavese, eccezion fatta per l’esplicita cartellonistica di McDonald’s, non brilla per chiarezza e coerenza e io, per giunta, sono sprovvista sia di navigatore (per scelta) sia di carta stradale (per caso). Così sbaglio strada numerose volte e perdo il senso dell’orientamento, costringendomi puntualmente ad abbassare il finestrino per chiedere indicazioni a passanti e ciclisti.

“Eh, ma non ha il navigatore, lei?”, mi si rivolge con divertito stupore un uomo attempato, mentre il suo amico sorride sornione, “eh no, non ho il navigatore, ma ben contenta così: se l’avessi avuto non ci saremmo mai rivolti la parola, lei ed io, un peccato, non trova?”. Sorrisi, umanità. Le persone, quando interrogate, riflettono quasi sempre alzando gli occhi verso il cielo, ma di sbieco, serrando le labbra in un’espressione che svela una sottile fatica mentale, per poi prorompere con tono deciso: allora sì – facendo compiere al dito indice ingiallito dalla nicotina fantasiosi arabeschi nell’aria – lei vada dritta verso Ivrea, poi segue per Baldissero e poi c’è una rotonda, e una galleria, anzi due, e… Grazie! Buona giornata! Altrettanto!

Mi rendo conto che sbagliare strada comporta un maggiore dispendio di tempo per arrivare dove si deve arrivare, ma… fa incontrare le persone, persone quasi sempre ben disposte le une verso le altre, gentili e sorridenti. L’assenza del navigatore agevola l’interazione tra sconosciuti in un clima che si fa da subito cordiale, similmente, immagino io, a quanto poteva accadere ai viandanti di un tempo, viaggiatori lenti che ogni tanto si concedevano una sosta e una chiacchiera con la gente del posto. Umanità! Umanità! Tutta da difendere! Il solito pensiero un po’ invasato prende forma, anche questa volta, anche questa volta strappandomi un sorriso.

Lasciata l’auto in un ampio parcheggio su cui si affacciano alcune villette moderne e all’apparenza disabitate, mi incammino lungo una strada sterrata, ma ancora carrozzabile, che poi si restringe sempre di più fino a farsi sentiero – questo lo ricordavo – infine, procedo in discesa, addentrandomi nel bosco, fitto e variegato, popolato di castagni, frassini, aceri e tigli, ontani e qualche betulla e intravvedendo un corso d’acqua in lontananza, il torrente Chiusella. Oltre alla voce del fiume si sente, a tratti, il rumore di una motosega, qualcuno fa la legna; dopo neanche un quarto d’ora riconosco la casa di Luca e vedo lui che sta giocando con un cane.

Ci abbracciamo a lungo, restando nell’abbraccio stretto e silenzioso. Avverto un senso di inattesa genuina felicità, tutto avviene come se ci fossimo sempre visti, fino al giorno prima, ma è anche, stranamente, come ritrovarsi dopo un viaggio interstellare, e questa è, per me, una sensazione ricorrente, considerando i mutamenti, a dir poco incredibili, del mondo e di noi che lo abitiamo, avvenuti negli ultimi lustri (o forse sono i miei occhi che prima, da giovane, non vedevano tutto quello che il mio sguardo, ora, riesce a catturare?).

È un racconto a due voci a rompere il lungo silenzio, e tratta dei nostri rispettivi ultimi anni, le vicende famigliari più significative, i figli, i genitori, conflitti, strappi, lutti, lontananze, gioie e dolori, insomma: la vita, per chi è più vicino ai sessanta che ai cinquanta. Nel frattempo ci avviamo in direzione della iurta, non-mongola, tiene a precisare Luca, ma accogliente, penso io, e, grazie alla stufa da lui accesa in previsione della mia venuta, piacevolmente riscaldata.

Seguitiamo a chiacchierare, sorseggiando un paio di bicchieri di acqua fresca, finché, senza che occorra annunciarlo, arriva il momento: mi sdraio sulla postazione, il letto sonoro, come lo chiama lui, una lunga cassa vuota dotata di alcuni ampi fori che gli consentono di infilare al suo interno la sommità del didgeridoo cosicché, nel suonarlo, le vibrazioni vengano amplificate al di sotto del corpo. Avevo provato anni fa i bagni di gong, ma questo tipo di trattamento è decisamente un’altra esperienza, del tutto particolare. Il suono è avvolgente e carezzevole, e sì, mi fa pensare a un rito tribale, a luoghi e tempi lontani, così lontani dalla Valchiusella e dal 2023 da sentirmi inghiottita in una realtà parallela, in salutare distacco temporaneo da me stessa e dai miei affanni. Sparisce tutto, sto nel respiro, galleggio sulle onde sonore. Sento, soprattutto, di volermi bene, per una volta.

Tutto così semplice, sarebbe tutto così semplice, se solo riuscissi a sospendere il giudizio, a provare compassione, a perdonare, ad accettare: a partire da me stessa. Questo è il primo pensiero compiuto che mi germoglia dentro, mentre a occhi chiusi mi par quasi di scivolare in uno stato di ipnosi. In chiusura di trattamento Luca utilizza i bastoni della pioggia, che emettono un suono gentile, onde di un mare calmo vanno a infrangersi su una battigia di ghiaia: la scopa d’acqua, dice lui, porta via quello che non serve.

Dopo il massaggio sonoro condividiamo una lunga pausa di silenzio meditativo. Io sdraiata, lui seduto su una seggiola bassa alla mia destra. Riapro infine gli occhi e vedo la cima della iurta che, essendo scoperta, consente di scorgere un pezzettino di cielo. Non piove più, lucenti nuvole bianche scivolano rapide e scoprono l’azzurro del cielo. Si sta rasserenando: questa immagine, incorniciata dall’ottagono sommitale della iurta, mi commuove. Due lacrime corrono giù, simmetriche e sincrone: una dall’occhio destro l’altra dal sinistro, attraversano le tempie a disperdersi tra i capelli. Luca, alzandosi per uscire, mi invita a restare lì, dove e come sono, prendendomi il mio tempo, sussurra: tutto il tempo necessario. Nella iurta non-mongola si sciolgono, come per incanto, tutti i lacci identitari, quelli che troppo spesso mi allontanano da me stessa: la donna, la madre, la figlia, la sorella, la lavoratrice, la collega, l’amica, l’amante, l’ex moglie, la paziente, la cliente… Dalla iurta non-mongola esco alleggerita, ma senza gridare al miracolo.

Raggiungo Luca davanti a casa, ci mettiamo a sedere sulla panca accanto al pero in fiore ben più alto dei tre piani del vecchio rustico e che ne ingentilisce la facciata. Anche il suono delle campane tubolari appese qua e là, dando voce carezzevole ai refoli di vento, dona grazia al quadro dentro al quale mi pare di trovarmi: mi accorgo che il mio stato d’animo sorprendentemente, ma nemmeno poi tanto, si è rasserenato, come il cielo sopra di noi.

Parliamo di costellazioni famigliari, di ferite che non si rimarginano e vanno accettate come potenziali risorse, ci confrontiamo e scambiamo punti di vista, avendo una visione del mondo profondamente condivisa. Mi sento a casa, discorrendo con Luca. Sensazione rara. Luca mi presenta una parola speciale: ho’oponopono che significa “mettere a posto le cose”, a partire da noi stessi, e sulla quale si basa un’antica pratica hawaiana di armonizzazione e riconciliazione. Fondamentale, sempre, partire da noi stessi, sradicando la malsana convinzione che siano gli altri a dover cambiare. Ognuno segua il suo sentiero e sistemi, ammesso che ci riesca, le cose proprie. Ripartiamo sempre e solo da noi stessi.

Noi, inurbati così spesso infelici perché prigionieri di un paesaggio fatto di muri, sagome rigide, strutture artificiali, la durezza e l’immutabilità di cemento e mattoni, l’angusto e ossessivo reticolato stradale di asfalto, la sporcizia e il degrado, il tanfo dell’aria, la latente claustrofobia causata dalla permanenza nostra all’interno di scatole, che sono le camere, gli uffici, i negozi, le automobili: dunque scatole e persone dentro alle scatole… noi inurbati, dicevo, spesso ci sentiamo talmente smarriti (forse perché di notte non riusciamo più a vedere le costellazioni?) che quando andiamo a trovare qualcuno che vive fuori dalle alte mura, in mezzo al verde, ma non tanto per dire, proprio attorniato da alberi come fossero una folla di parenti buoni, accanto ad animali mansueti, con l’orto, il frutteto, il fiume che scorre, la meraviglia, appunto, delle stelle di notte, i profumi delle stagioni, ecco, noi proviamo un nostalgico afflato che racchiude in sé un mélange di benevola invidia e di ammirazione. Noi siamo tentati, inoltre, di ritenere che là fuori, al di là delle mura fortificate, sia più facile assolvere e assolversi, che là fuori sia meglio, la vita più vera.

Gli inurbati infelici vorrebbero, prima di fare ritorno in città, quasi implorare a chi vive altrove, una qualche formuletta, anche solo sussurrata fugacemente in un orecchio, che consentisse loro di sperare in una possibile redenzione, l’antidoto al progressivo imbruttimento che sono costretti a subire quotidianamente, ingabbiati nel pesante apparato impiegatizio o abbandonati nella terra di nessuno del precariato, incolonnati nei loro monotoni percorsi casa-ufficio-casa, casa-market-casa, con le eventuali varianti: palestra, bar, ristorante ecc. oppressi da scricchiolanti ingranaggi consumistici che nei territori metropolitani giungono al parossismo in una deleteria coazione a ripetere transgenerazionale.

Forse è proprio così: noi che viviamo in città, per non impazzire, per scongiurare una visione alienata dell’esistenza e non sentirci disadattati, dovremmo poter disporre di spazi verdi e/o blu (così li definisce, la letteratura scientifica: green spacee blue space, adducendo a un loro deficit, il cosiddetto nature deficit disorder, svariati problemi di salute psicofisica) quindi: alberi, prati, un fiume, il lago, qualcosa insomma che ci riporti in asse, ci riconduca a madre natura, ribadendo che siamo figli suoi, qualcosa che ci aiuti a ricordare, ogni giorno, come tutto cambia in continuazione, come tutto passa. Anche noi.

Quello che mi porto a casa, lasciandomi alle spalle una sottile fetta di Alpi Graie, è qualcosa di ineffabile, se non fosse per una metafora che dice quasi tutto di me e del mio stato d’animo di mesta e grigia torinese. Vivere in città mi pesa, ma è un disagio che al momento non posso risolvere, troppi elementi non di poco conto mi trattengono ancora all’ombra della Mole. Tuttavia, come suggerisce l’amico ritrovato, potrei iniziare a coltivare un nuovo modo di pensare a me stessa, considerandomi un fiore di loto: che affonda le radici nella melma e però poi fiorisce, ergendosi verso il cielo, su, in alto, in progressivo allontanamento dal fango. In progressivo allontanamento.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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