Proust Céline, la mente e l’odio
di Mauro Baldrati
Possiamo definirlo un pamphlet questo libro di 137 pagine di Valerio Magrelli, accademico francesista, uscito per Einaudi Stile libero (Proust e Céline, 15 €), nella collana VS, ovvero “contro” . Leggiamo la definizione di pamphlet: “Opuscolo, libretto, scritto di carattere polemico o satirico, libello”. Poiché l’argomento è “Céline Vs Marcel Proust”, la sola sezione su Céline, che corre come un metrò lanciato a folle velocità nel sottosuolo, costituisce l’ossatura, con sopra i muscoli e gli organi interni, del libretto di carattere polemico o satirico. E’ proprio lui, l’autore del romanzo più rivoluzionario della letteratura moderna, Morte a credito, come l’ha definito Gilles Deleuze, a rappresentare un pamphlet vivente. Sia Céline sia Proust sono autori, e uomini, fusi coi loro scritti a tal punto che potrebbero affermare, come Kafka: Io sono letteratura. Magrelli li segue, cerca gli indizi di questa fusion, dove la vita, e la realtà, si fondono col racconto e l’immaginazione. Infatti il testo non è composto solo da due autori di enorme spessore letterario e umano, ma anche da un narratore abbastanza neutrale (perché nessuno lo è veramente) che cerca di agire da dietro le quinte, mimetizzato tra la boscaglia come uno sniper. Ma qua e là esce allo scoperto, si diverte un mondo mentre attinge dalla sgargiante tavolozza letteraria i colori per la sua pala votiva: l’elegia dell’odio, oggetto della prima sezione del libro, intitolata Odi et odi.
Qui il nostro misologo (secondo la mitologia platonica colui che ha avversione per le discussioni e i ragionamenti astratti), Valerio Magrelli, si avventura nella fitta ragnatela dell’odio, in tutte le sue forme artistiche: attraverso i frequenti richiami a opere di altri autori che si sono addentrati in questa foresta intricata, come Jan Miernowski, che si propone di studiare “l’odio come nozione estetica, valore artistico, motore stesso dell’opera letteraria”. Oppure le varie sfaccettature dell’odio verso la poesia, come Antonin Artaud, che nel 1944 scrive Rivolta contro la poesia; o Georges Bataille, che, tre anni più tardi, intitola un suo libro L’odio della poesia. Ma non solo la poesia è oggetto di odio, anche le altre attività artistiche. Lo stesso Magrelli nel 2014 pubblica Odio la musica? E Manlio Sgalambro nel 1994: Contro la musica. E come non notare i riferimenti a Kleist, Dumas, Kundera, Musil, Bernhard, tutti avversari della musica, compreso Tolstoj, che scorge nella musica un fenomeno terribile, nefasto. Poi, finalmente, arrivano le querelle, gli insulti tra autori, che fanno sorridere il mimetico Magrelli: “A me interessavano gli scontri diretti fra scrittori. Insomma, volevo il sangue”. Ecco allora che Jules Renanrd definisce George Sand “La vacca bretone della letteratura”. Leon Bloy su Maupassant: “La sua perfetta stupidità trapela dagli occhi, gli stessi di un cane che piscia”. O Vigny su Sainte Beuve: “Pare un rospo che avvelena le acque”.
Il viaggio nel mare agitato dell’odio, man mano che la navigazione procede, punta sempre più chiaramente verso un obiettivo: l’odio può essere un sentimento nobile e creativo, e dietro la genesi di un’opera d’arte si nasconde spesso un contrario. Forse l’amore stesso ha come lato B l’odio. Marcel Proust in persona riflette sui lati B: “Se al fondo di quasi tutti gli ebrei c’è un antisemita, al fondo di ogni omosessuale c’è un anti-omosessuale”.
Passiamo così alla sezione centrale. Se, per puro divertimento, paragonassimo questo pamphlet alla Commedia, scenderemmo all’Inferno: è proprio lui, Louis Ferdinand Céline, il centro non solo nevralgico, ma nevrastenico: “Bisogna infilarsi nel sistema nervoso, nell’emozione e restarci fino capolinea” (da una lettera a Milton Hindus del 15 maggio 1947). E, sempre per il nostro disimpegnato divertimento, il Virgilio che ci guida sarebbe proprio Magrelli, che affronta Céline da varie angolazioni: una breve biografia, che si apre con la nota di singolari coincidenze, che forse rappresentano indizi psicanalitici della sua ossessione per Marcel Proust: Céline ha trascorso la sua infanzia, figlio di piccoli commercianti di merletti, nel Passage Choiseul, “sorta di squallido acquario Urbano nel cuore di Parigi”, dove, nel 1892, il ventunenne Proust frequentava la libreria Rouquette, al n. 71. E suo padre, tra il 1884 e il 1885, fu compagno di scuola di Proust al liceo Condorcet. Forse proprio da qui, come una piccola sorgente che diventa un fiume poderoso, nasce l’odio, bilanciato da un’attrazione irresistibile per l’autore della Recherche?
In Céline è lo stile ci addentriamo nella tematica della lingua in Céline, la sua ossessione per un francese originario, “puro”, elegante, di Villon, di Rabelais, imbarbarito e impoverito dalla sua involuzione modernista e scolastica. E anche la sua avversione per le traduzioni, che finiscono per annientarlo, prosciugandolo dalla “musichetta” che lo veicola, frantumandone la melodia. Reagisce al degrado imperante con la sfida alle convenzioni, elaborando una forma superiore di bruttezza: “Egli mira a una bruttezza ancora più brutta, sublimamente brutta, a un abietto ancora più abietto, a un odio ancora più odioso”. Lo stile, per Céline, è tutto. E lo stile, secondo una famosa metafora, viaggia, anzi, corre follemente come il metrò, sulle rotaie rappresentate dai furiosi tre puntini di sospensione, ritmato dai martellanti punti esclamativi.
E poi l’odio, la materia prima, sempre e comunque. Ha osservato George Steiner: “Come in Jonathan Swift, in Céline la sorgente dell’immaginazione e dell’eloquenza sfrenata è l’odio (…) In un gruppo ristretto di maestri – Giovenale, Swift, Céline – una misantropia furiosa, una nausea contro il mondo, danno luogo a progetti di notevoli proporzioni. La monotonia del disgusto diventa sinfonica.” L’odio è totalizzante, a 360 gradi: odio verso gli ebrei, i comunisti, gli omosessuali, i letterati, i professori, i ricchi, gli aristocratici (che, secondo lui, costituiscono il “popolo” di Marcel Proust). Odio aggressivo verso Gallimard, che inonda di insulti perché ha inserito Proust nella Pléiade, mentre lui no, nonostante le pressanti richieste. E qui, nel cuore pulsante della “sezione Céline” Magrelli non fa sconti. Il suo ritratto non ha reticenze, come invece si è tratteggiato negli anni, forse per una forma di pudore verso quel nazista antisemita esaltato che è stato. Non fu un collaborazionista per caso, ma attivo, militante, sostenitore dell’arianesimo tout court. “Io sono razzista e hitleriano, e voi non lo ignorate” scrive nel 1939 a Robert Brasillach, un altro scrittore filo nazista, giustiziato dopo la liberazione. Ma non solo. Come un implacabile PM Magrelli richiama gli studi del linguista e filologo Antonin Duroffour e del filosofo/sociologo Pierre-André Taguiieff i quali hanno dimostrato che Céline ha addirittura denunciato sei o sette persone per appartenenza alla religione ebraica e due al partito comunista. “Vivo ancora più di odio che di pasta asciutta” (da Un castello all’altro).
In Caino e Abele passiamo alla contrapposizione tra i due opposti, Céline e Proust, autori di opere assolutamente antitetiche. L’ha notato un proustologo esperto come Alessandro Piperno: “Se Proust complica la sintassi fin quasi alla saturazione, Céline la spacca in mille pezzi; se Proust lavora sulle nuance, le pieghe dell’interiorità, l’inattendibilità dei sensi, Céline elegge il grido, il sarcasmo, la bava alla bocca a strumenti di conoscenza; se il Narratore della Recherche è un rampollo della buona borghesia parigina nevrotico, classista e stanziale, l’eroe del Voyage è un miserabile, un globetrotter in balia della Storia; se il milieu proustiano è composto da milionari, esteti e cocotte dalla sessualità controversa, l’umanità di Céline è indigente e delirante”.
Eppure, se non come sempre, almeno molto spesso, i due opposti finiscono per attirarsi. Entrambi vengono considerati gli inventori della autofiction. Usano l’autobiografia, ma per metterla al servizio dell’autonomia del testo. Il periodo lungo proustiano, asmatico, circolare, col quale dà vita al suo acquario tropicale, popolato da pesci palla, coloratissimi mostri stupendi quanto inutili, sembra attirare come un ragno la frase secca dell’allucinato conduttore del metrò letterario. Il quale, secondo una tesi che serpeggia nel testo di Magrelli, attestata, o quanto meno suggerita, da varie teorie (anche se qualcuna pecca per eccesso), reagisce alla diabolica fascinazione del sussurro proustiano che gli incendia il cervello, con pareri sprezzanti: “Proust è un bavoso (…) Spiega troppo per il mio gusto: trecento pagine per farti sapere che Tizio incula Tizio, è troppo.” Il suo francese giudeizzato, modellato, orientale, liscio, scivoloso come la merda gli fa schifo, come i suoi cicisbei morti o moribondi che popolano quel mondo della borghesia intellettuale e “preziosa” che tanto detesta.
E veniamo a Proust, mente, odio. Qualcuno di quei furiosi cercatori di difetti che bruciano vivi sul web con lo scopo di stroncare qualunque testo scritto da chiunque, forse ne troverebbe alcuni buoni per metter al muro Magrelli, ma non potrebbero mai insinuare che non possieda il dono della sintesi. In una manciata di pagine riesce a condensare decenni di studi critici, biografia, esegesi dell’autore delle Recherche. Soprattutto la mente, che a differenza di Céline, il quale produsse diversi romanzi, Proust visse per un unico, immenso testo, con un’architettura complessa, meticolosa fino a un’ossessione di stampo medievale: “Sette volumi che raccontano in che modo il protagonista, incerto sulla propria vocazione di narratore, solo verso le ultime righe si decida a scrivere il romanzo che noi abbiamo appena finito di leggere… Soltanto al termine del lungo percorso iniziatico, superando le proprie debolezze e l’atroce incalzare del Tempo, Marcel deciderà di scrivere, e scriverà ciò che il lettore ha appena terminato di scoprire. Una storia che inizia dove finisce, e finisce dove inizia.”
Ma c’è odio in Proust? Secondo Daria Galateria e Marisa Verna questo sentimento gli era estraneo, tuttavia si tenta di individuarne tracce nel sentimento verso la Germania, che dopo la disfatta di Cedan scatenò l’Affaire Dreyfuss, per il quale Proust si schierò apertamente con gli innocentisti. E le pagine spietate in cui descrive il voltafaccia dei salon nei confronti dell’amato Swann, reo di essere ebreo e dreyfussiano, insultandolo crudelmente alle spalle, ne sono una testimonianza. Oppure l’odio per l’essere amato che ci tradisce, sempre; l’oggetto della passione che sfugge, che non ci permette di possederlo né di capirlo. E’ una delle grandi discese agli inferi della Recherce, di cui risulta vittima uno dei grandi personaggi del romanzo, in Un amore di Swann.
Comunque sia Proust è un oggetto, un obiettivo di Céline, essendo morto da dieci anni quando fu pubblicato il Voyage. Non ha mai conosciuto il suo acerrimo nemico, né letto i suoi strali, né ha potuto sfidarlo a duello, come forse avrebbe fatto di fronte ai suoi sprezzanti giudizi antisemiti e omofobi. Tuttavia Magrelli dà spazio anche a quei coraggiosi studiosi che hanno creduto di rilevare, dietro l’odio di Céline, una forma di morbosa ammirazione, che l’avrebbe portato addirittura a riscrivere la Recherche, col suo stile contrapposto, con le sue frasi spezzate, ardenti e contundenti.
L’Odio come copertura, come forma rovesciata di Amore, Rifiuto come il lato oscuro del Desiderio; Céline hater compulsivo di Proust, in realtà perdutamente innamorato, proprio come Swann con Odette.
NdR: sullo stesso saggio di Valerio Magrelli “Proust e Céline”, Nazione Indiana ha già ospitato il 3 aprile una recensione di Pasquale Vitagliano