Gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia: una lettura di “Ridondanze”
di Giuseppe A. Samonà
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Mentre leggevo Ridondanze (anzi, / ri.don.dànze /, Exòrma, 2022), strampalata – a prima vista – raccolta di storie romane, o meglio testaccine, composte da Paolo Morelli, mi è tornata in mente la mia polverosa insegnante di greco del ginnasio (ahimè, agli antipodi dei rari insegnanti, che poi ci sono stati, capaci di incendiare d’amore i ragazzi per questa splendida lingua), la quale, al chiacchiericcio mormorato ma continuo che opponevamo alla rigida noia che lei cercava di instaurare, esplodeva con il mantra: cosa? cosa? gente che chiacchiera, che mormora, che cincischia…. Ecco, Morelli chiacchiera, anzi, strachiacchiera, stracincischia, e in generale stra-perde-tempo: è un fiume in piena, ma appunto sommesso, come se mormorasse al vento. La letteratura, molto spesso (non sempre) racconta storie e ogni tanto, nel raccontare, divaga, ma in questo libro è la divagazione a regnare sovrana, è il centro della narrazione, e sembra essere la vera direttrice del tutto.
Spesso parlando dei suoi libri (e anche di questo) si è chiamato in causa Manganelli (di cui ricorreva nel 2022 il centenario della nascita, e ancora non si è spento l’eco delle commemorazioni, arte in cui la necrofila critica italiana eccelle) o Celati (morto anche lui, proprio nel 2022, e il delizioso In viaggio con Gianni, Celati, Tic 2021, appunto di P. Morelli, ne è stato una sorta di profetica, anticipatrice – rieccola… – commemorazione), o ancora Malerba. E cominciando il libro si potrebbe anche essere tentati di scomodare il Moravia un po’ bozzettistico dei Racconti romani, o ancora il Benni di Bar sport, che il bozzettismo lo immerge in una surreale comicità; un po’ più avanti nella lettura, e per certi versi all’opposto, si penserà magari a Campanile o a Ionesco, per l’uso devastante che fanno della surrealtà (per altro ben più profondo di quello di Benni).
Questi possibili punti di riferimento però sono come scontati, persino banali: Morelli infatti non li imita, neanche li cerca, anche se certo li conosce, e (almeno i primi sunnominati) li ha senz’altro assunti e digeriti, disciolti nella sua prosa – che non in essi tuttavia trova la chiave della propria originalità. Così, mentre avanzavo nella lettura, è un altro lo scrittore che mi si è delineato all’orizzonte, il più grande di tutti e, mi verrebbe da dire, il Maestro dello straparlare e del divagare: Miguel de Cervantes. Intendiamoci, non è che voglia paragonare Morelli al genio spagnolo (e universale), del resto è probabile che lo stesso Morelli non lo abbia neanche pensato come esplicito punto di riferimento (ma forse sì, mi piacerebbe chiederglielo); voglio semplicemente dire che mentre mi perdevo nelle pagine di / ri.don.dànze /, inizialmente anche esasperandomi per questo filo che perdevo e ritrovavo in continuazione, mi è tornata in mente la lunga, dapprima faticosa, poi appassionante, insostituibile lettura del Qujote. E di più: quando mi è venuta in mente mi sono reso conto che mi si era già affacciata dentro – ma come un’ombra, come quelle associazioni che non riusciamo a compiere sino in fondo, e restano allo stato larvale – leggendo più o meno un anno prima Il cielo per Roma (2021), di Mariano Bàino, sempre edito da Exorma.
Ora questi due libri sono diversissimi, e mai sarei stato probabilmente tentato di confrontarli: il primo (Bàino) è infatti aereo, come fantascientifico, letteralmente intergalattico, in quanto capace di viaggiare attraverso le epoche, e garbatamente ma intensamente dotto; il secondo (Morelli) è terrestre, avvitato al suo spazio, e ancor di più al suo (mitico) tempo, ai suoi riferimenti ristretti, rionali, anche se dottissimo anche lui, pur se in modo molto più nascosto, e ironico. Ma ecco: per poterli seguire veramente, l’uno come l’altro, si deve accettare di perdercisi dentro. Voglio dire: ci sono libri, la maggior parte di quelli che si impongono oggi nel mercato, in cui il filo, l’incastro dei dettagli, quel che vi si racconta, sorprese incluse, sono programmati secondo schemi precisi, il lettore deve solo restare concentrato, per navigare tranquillo (tranquillo anche nelle sorprese), e per carità! evitare di perdere colpi, battute, altrimenti non capirà più nulla: se però giustamente resta attento, il risultato è garantito. Altri libri, appunto come quelli di Bàino e Morelli, richiedono invece pazienza, rilassatezza più che concentrazione, anzi la concentrazione (ansiosa), l’attenzione ossessiva al dettaglio, al filo, l’intreccio, porta il lettore inevitabilmente alla resa. Fanno parte insomma di quella categoria di libri che più che meticolosità logica richiedono abbandono, persino distrazione, e un consapevole, paziente atteggiamento di lasciar venire. (Immagine: andare a vedere un film di Tarantino, aspettandosi Antonioni o Bergman, o anche – il che è forse peggio – viceversa…). Per l’appunto (ed ecco il collegamento): pazienza, abbandono, gusto per la distrazione etc. sono i requisiti indispensabili – nella mia esperienza – per gustare a fondo il capolavoro dello scrittore spagnolo, che a sua volta sviluppa ulteriormente queste disposizioni, insegnando in un certo senso ad esercitarle nella vita, è leggendo il Qujote che mi ci sono per la prima volta consapevolmente confrontato.
Dice (di nuovo la mia professoressa di greco): dice? dice? ma che dice? gente che chiacchiera… (io), etc… È vero, sto straparlando, sto divagando anch’io – ma lo faccio per scelta, nel senso che un po’ di straparlìo divagante è il modo migliore per avvicinarlo, questo libro, prima di dire cosa concretamente racconti. In due parole, si tratta di una dozzina di storie, dodici variazioni (più una premessa e un’appendice), tutte ambientate nel “rione”, cioè il Testaccio, e tutte rocambolesche: tre amici, appunto testaccini, fanno un incidente di macchina sulla strada del ritorno, da cui segue un’improbabile gita sulle montagne della Maiella per vedere in una cappella gli affreschi di un improbabile pittore che rappresentano il Ciclo delle quattro notti (e ogni personaggio, ogni cosa, ogni Notte, entra in una nuova scatola, con un meccanismo alle Mille e una notte, dove le storie sembrano non aver quasi nulla a che fare l’una con l’altra, invece…); uno sconvoltone (la droga…) esce ogni giorno dal rione in bicicletta e passa sempre alla stessa ora di fronte a un antico monumento dove centinaia di turisti scattano sempre la stessa foto e lui ci si ritrova dentro sino a diventare, come il monumento, eterno; due nemici-amici, fortunato l’uno, sfortunato l’altro, vittorioso e sconfitto, riuscito e fallito (dove la riuscita è, alla Cossery, fare un lavoro che permetta di non lavorare, elevando la scioperataggine a virtù civile…), mettono retoricamente le loro vite a confronto; sempre al rione si confrontano i destini paralleli degli artisti e dei topi, che prima erano grassi e pochi (e morti di fame, perché la fame paradossalmente li ingrossa, gli artisti e i topi) adesso molto più numerosi ma rimpiccioliti; il redattore di una rivista di viaggi trova la formula per narrare e difendere dall’assalto delle folle i posti belli ancora da scoprire (il dilemma: solo il silenzio protegge la bellezza, ma la bellezza scoperta dà voglia di parlare, soprattutto al Testaccio, dove nessuno viaggia ma sono tutti gran chiacchieroni – appunto… Ma è ancora possibile viaggiare? Esistono ancora i posti belli? Ecco, sto divagando…) – e segue il suo racconto… etc. O forse si dovrebbe meglio dire: non storie testaccine, ma variazioni dello stesso Testaccio, sinfonia della sua essenza. Di tempo e appunto di musica più che di spazio: di fatto chi cercasse nel libro di Morelli (ed ecco un altro punto di contatto con quello, pur diversissimo, di Bàino) tracce concrete del Testaccio, e di Roma, vie, piazze, monumenti, descrizioni, rimarrebbe molto deluso. Il Testaccio di Morelli è un’utopia, è un luogo che non esiste, o se vogliamo una realtà derealizzata, fatta di sogni, di ricordi, di speranze, di pura immaginazione anche, di suoni – come la lingua che si avvita in alcune ruggenti cadenze romanesche, verosimili più che vere, opera di fina letteratura più che di riproduzione vernacolare (viene ovviamente da pensare al romanesco di Gadda), o ancor più semplicemente come i nomi dei personaggi, Pocaluce, Volume, Battiscopa, Merdara Rognoso, Ritorti, Sarchioni, Ruggero Maglione… Non sarà inutile, in tal senso, notare che il libro di Morelli come quello di Bàino non solo sono editi dalla stessa casa editrice, ma anche appartengono alla stessa collana: quisiscrivemale (questo è il suo nome!), che antifrasticamente evoca una letteratura libera dai generi omologati e lisci – quelli che dominano il mercato, insomma, anche grazie alla loro facile fruibilità – ma ossessivamente attenta alle parole, allo stile.
Dice (di nuovo lei, l’insegnante, che avrebbe probabilmente fulminato Morelli): gente che parla, gente che ripete. Ma senza ripetizione (e diciamolo, ossessività) non c’è arte. Così, la chiacchiera, il ritornare sugli stessi incatenamenti variandoli all’infinito – e in questo senso straparlano i personaggi non meno del loro autore – dirige il libro e lo fa rigurgitare di parole, come un fiume in piena, un delirio febbricitante, come quando qualcuno ti attacca un implacabile bottone che non la finisce più – ma a un certo punto (lo dicevo, occorre pazienza), ci si accorge che quella febbre ha un senso, e il fiume in piena comincia a scorrere maestoso, persino educato, calmo. Le storie si sciolgono l’una nell’altra, alcuni personaggi (la ripetizione) riaffiorano qua e là, forse è un romanzo? no, piuttosto un ipnotizzante esercizio zen – per questo occorre non cercare di afferrarsi a un ramo, a un dettaglio, ma semplicemente lasciarsi trasportare – che finalmente, come se di colpo si alzasse la nebbia, fa emergere nitidi i contorni, il senso di tanto raccontare. Sì, c’è un mondo, fatto di cose, di gesta, di emozioni, ma noi in realtà non lo vediamo, ne vediamo solo la crosta, la sua vera vita si dispiega al di là di quella: il (rac)contatore ci permette appunto di coglierla.
Gli antichi Greci esaltavano, in alternativa alla logica della visione/immagine, quella dell’audizione/parola, che dava accesso al misterioso universo del mondo-tempo: non a caso il cantore che trasportava il pubblico era antonomasticamente cieco – le orecchie vedono, non gli occhi. Ecco, è in questo senso profondo che Morelli mescola l’Oriente lontano con l’antica tradizione epica Occidentale, in cui l’immaginazione e il raccontare sono più importanti dei fatti raccontati, anzi questi fatti, ora glorie e trionfi ora disgrazie, sono distribuiti dagli dèi agli uomini affiché altri uomini futuri possano svelarle nel canto, e solo in questo canto, o racconto, acquistano finalmente senso. Insomma (se esiste, è questa la morale del libro) raccontare è tutto, raccontare e divagare (perché non si può raccontare senza divagare), a resuscitare tramite la parola mondi, gratuitamente, dando fondo all’immaginazione, ridendo e danzando, appunto, ridon-dan(zan)do: per diventare liberi. Cioè per conquistare pienamente la propria umanità.