I segni sull’acqua
di Roberto Carvelli
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Notte, enfasi e intimidazione. Reparto correttori di bozze. Discorsi. O meglio: ordini. Siamo il reparto temuto, messaggeri di problemi e perdite di tempo. Su di noi agisce una specie di ansia che mira a una perfezione di velocità. Non dobbiamo creare troppi rallentamenti alla lavorazione. Garantisce l’orologio del proto: un’ideale pressione emotiva che, ai novelli, finisce per imporre una velocità di lettura controproducente. Per questo molti di noi sono anziani: gente navigata al cannoneggiamento di rimproveri e fretta. Il segreto e l’azzardo sono non pensare a quel che è scritto ma correggere come se fossero sagome geometriche di cui relazionare la giustezza. È il nostro lavoro da anni, conosciamo gli inganni dei refusi: le doppie m, le nn… sappiamo le insidie delle gambe e delle braccia in alto o in basso… le l e le i e gli 1. Guardiamo al testo come a una foresta in cui un albero può somigliare a un fiore, due laghi, due pozze. Insomma: siamo in guerra. Con le lettere e con i capi che ci vogliono spediti e superficiali ma perfetti. Da noi vengono pretese, al contempo, rapidità e compiutezza. Siamo il reparto dei rischi e facciamo il lavoro del rischio.
Per fare un lavoro così serve dirittura morale, serenità, fermezza e tanta fortuna. Molti di noi sono religiosi: cercano fuori di sé o in sé – a seconda dei culti – un sostegno per questo impari confronto con la sorte. Preghiamo per la concentrazione, ossequiamo la fortuna affinché la nostra attenzione riesca a scovare, nella foresta di segni, l’errore. Alle volte siamo costretti a sospendere ogni comprensione e guardiamo delle figure in un foglio e cerchiamo le stesse nell’altro. Nell’originale scrutiamo segni sconosciuti e cerchiamo di verificare che i fotocompositori li abbiamo rappresentati nel modo corretto. Ci aiuta pensare alle lettere come a figure di un paesaggio. Ecco una tegola – î – sopra una i. Un gabbiano su una n o su una a: ñ o ã. E ẫ: un gabbiano, su una tegola, su una a. Ecco che piove sulle e, sulle u: ë, ü. Un diapason o una fionda: Џ. Ω, una testa sulle spalle. ß, una donna incinta. Ç, un cigno che guarda indietro. Ø, una testa con l’occhio bendato.
Sono lettere di cui non sappiamo nulla, lingue di un alfabeto sconosciuto. Dobbiamo solo accertare che siano state battute nel modo corretto. Leggiamo piano, come se verificassimo i particolari in una fotografia di paesaggio. Forse sono lingue morte con una grammatica nota a pochi, codici per nicchie colte e segrete. Forse stiamo leggendo imprecazioni o parole d’amore. Non lo sappiamo, ma abbiamo ben chiaro il nostro ruolo: non possiamo equivocare. Dobbiamo ottenere due fogli identici, con in mezzo il passaggio frettoloso e sbrigativo di chi le ha cercate uguali e impunemente le ha tradotte. Noi saremo puniti: troppi errori e
nessuna nocca batterà più alla nostra porta. Nessuno ci dirà nulla. Ci accorgeremo di essere soli nel nostro villaggio e capiremo che una squadra è stata chiamata ma non ne facevamo parte. Gireremo a vuoto per la nostra campagna, per i lunghi viali di ghiaia, senza rumori intorno che non siano lo sgradevole gracchiare delle cornacchie, il tubare delle colombe, il richiamo canzonatorio delle upupe, il tuffarsi fulmineo delle rane spaventate dai nostri passi. Se le nostre mancanze saranno state gravi o ripetute, vivremo giorni di vuoto dirompente perché della lontananza dei colleghi sapremo solo per intuizioni. Una perspicacia applicata alle case altrui. Quindi il dolore si rafforzerà nel tempo e nell’illusione ogni volta sconfessata dal
silenzio e dall’assenza. Un vuoto e un dolore che nessuno di noi vuole immaginare e neppure sperimentare. Per esorcizzarlo lavoriamo senza stanchezza e senza distrazioni come se
dovessimo bucare i fogli con lo sguardo.
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Ma che stai facendo? Lo sai da quanto stai su quella pagina? Ti ho contato, sai? Hai letto tre pagine in venti minuti. Su questa pagina ci stai da dieci minuti. Gli altri hanno già finito la loro mazzetta di fogli. Cos’è, non sai leggere? Vuoi rimanertene a casa la prossima volta? Lo sai quante volte sei andato in bagno? Stai male? Se stai male stai a casa!
Il caporeparto non è il capo del reparto. È un ex-fotocompositore. Un anziano digitatore dalla pelle nera. Dicono un marocchinato. Nessuno sa il suo nome. Lo chiamano Io-io-io per l’attitudine a imbonire raccontando di sé. Ammonisce, biasima, rimprovera e controlla sospettoso. Nella sua vita precedente di semplice operaio, era dedito a intrighi e acutezze da imboscato. Arguzia che smaschera arguzia, inoperosità che coglie l’inoperosità. Così è un caporeparto: una funzione, non un’abilità.
Un caporeparto osserva e smaschera gli altri. Un fustigatore reprensibile. Così il potere sorveglia, amministra, si perpetua. Il mio reparto non ha un suo capo naturale, non lo ha per tra-dizione. I correttori di bozze sono malvisti perché chi corregge è un ostacolo
al lavoro della tipografia. Chi corregge è attento, minuzioso, non può guidare gli altri con il metronomo lento della meticolosità. Chi comanda deve essere rapido e dirimere nodi, non può rallentare per cura. Gli si preferisce un ex-fotocompositore, che ha anche più peso nel governo degli ex-colleghi, più numerosi e quindi più difficile da amministrare. I correttori sono raccolti in loro stessi, introversi, ciechi nel loro sviluppo della vista. Sono come somari della pagina. Occhi sulle lettere e poco sguardo d’assieme. Non sono adatti al comando e alla sua perpetuazione. È un plotone di attenzione, va governato da fuori e con massimalismo. La minuzia non si presta al ruolo del comando.
– Che problemi hai con quella pagina? – interroga severo Io-io-io.
– Nessuno… è…
– Vedi di sbrigarti, allora… se invece non te la senti firma e aspetta fuori. Sai quanta gente smania per essere chiamata?
Lo sai? Sai quanti se ne stanno a casa sperando che uno di voi si infortuni o abbia un malore? C’è gente che prega ché voi crepiate, che vi venga una malattia. Che i pulmini passino e voi non siete in casa.
Riprendo a leggere, cerco di recuperare concentrazione, calma. Non è facile lavorare con questa furia addosso. Non conviene rispondere, non serve opporsi. Riprendo a leggere.
Basterebbe andare più veloci, magari leggere con più facilità, meno cura, ma veniamo costretti a siglare ogni pagina, ogni mazzetta di fogli è registrata al nome di chi di noi l’ha letta. Basterebbe scorrere qualche pagina per togliersi di dosso gli occhi insistenti di Io-io-io che ora mi fissa al di là del vetro. Giro la pagina, anche se mancano dieci righe a completarne la lettura. Giro la pagina e spero si sposti dal vetro per lasciarmi tornare indietro ma nulla. E allora leggo velocemente anche la seguente, cercando di ricordarmi il numero di quella di cui ho saltato le ultime dieci righe. Ventisette: rileggere le ultime righe. Ventotto: riguardarla. Io-io-io è ancora dietro al vetro. Sono a pagina trenta.
– Dài dammi le pagine che hai letto che le riporto ai fotocompositori.
– Veramente… – provo a prendere tempo ma mi strappa i fogli di
mano.
– Che c’è? Vuoi tornartene a casa?
NdR: l’estratto che precede è tratto dal romanzo “I segni sull’acqua” di Roberto Carvelli, pubblicato da D Editore (2022)