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Overbooking: Gaia Manzini

Sorènnel

di

effeffe

solènne agg. [dal lat. sollemnis (anche solemnis e solennis), prob. comp. di sollus «tutto» e annus «anno» (quindi propriam. «che avviene, che si ripete tutti gli anni»)]. (…) encomio s., rimprovero s.

Sappiamo fin troppo bene perché le amicizie si guastano; una frase di troppo, un’eterna gelosia, un colpo basso, un gesto meschino; ognuno conosce perfettamente il perché, al punto da ricordare la data di quella rottura, con la stessa precisione di uno Zeno Cosini alle prese con l’ultima sigaretta. E ognuno sa che niente e nessuno potrà ricucire quello strappo. Ma rimane un dolore di quella ferita, non il semplice prurito di una cicatrice. Conosco quel dolore e so che non sarà mai paragonabile, nemmeno per un attimo, a quello che accade a una donna, tra donne sole, amiche, sorelle d’adozione.

Ecco perché la lettura del romanzo di Gaia Manzini, La via delle sorelle, ha significato molto per me. Per esempio, rovesciando l’adagio solitamente rivolto agli uomini “dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna,” con quello ben più vero: “dietro a una donna, piccola o grande che sia, c’è sempre un’altra donna”.

Pochi hanno avuto la fortuna di avere grandi amiche femministe ed è di noi pochi il compito di condividere con altri “paradigmi fondanti” trasmessi in virtù di quella fortuna e appresi come si fa, generalmente, in certi riti iniziatici e segreti. Livia, per esempio, quando un giorno, discutendo a proposito di quell’enorme progetto di pensiero che fu “i quaderni di Diotima”, e a proposito di una frase per certi versi toccante, sfuggita di bocca da un nostro amico, anch’egli rifugiato politico a Parigi, “Noi abbiamo perso!“, voltandosi verso di me mi aveva sussurrato : “ecco, una donna non direbbe mai noi”. Per aggiungere poco dopo ” e perdere o vincere non sono cose che ci riguardano”.

Ho ritrovato questa aneddotica e semplice verità in un passaggio del romanzo, forse tra i più belli in cui la narratrice si lascia attraversare dalla storia di Pippa Bacca e della sua amica Silvia Moro.

“Pippa Bacca, giovane artista milanese, nel 2008 aveva deciso di partire per un viaggio speciale attraverso quei paesi dove la guerra era ancora una realtà o un ricordo molto prossimo: voleva arrivare a Gerusalemme in autostop passando per i Balcani, la Bulgaria, la Turchia, la Siria, la Giordania, il Libano. Lo avrebbe fatto vestita da sposa. Quell’abito simbolo di purezza, che di solito si indossa solo per un giorno, sarebbe diventato la mappa di un’intera esperienza: si sarebbe sporcato di vita.”

Questo lo sapevamo. Quello che non sappiamo e che per lo più si ignora è che la giovane performer era partita con un’amica, Silvia Moro anche lei armata di abito da sposa.

“Si tende a ricordare solo Pippa, ma le artiste erano due; o meglio una, insieme al suo doppio. Due ragazze che fanno l’autostop in abito nuziale sembrano due donne in maschera; una sola ragazza che fa l’autostop in abito nuziale, invece, è proprio una sposa. Perché aveva voluto l’amica con sé?”

Sono andato a cercare notizie sulla seconda sposa, Silvia Moro, trovando nella sua arte militante del ricamo una prima risposta agli interrogativi che Gaia Manzini non smette mai di porsi, condividendoli con il lettore. Cosa succede quando il corpo doppio delle amiche si rompe? – E non è un caso che la migliore amica, l’amica geniale della protagonista si faccia chiamare Frida come Frida Kahlo. Bene, accade che si possa tentare di trovare un senso al dolore proprio ritracciando una cartografia delle esistenze e degli affetti, dando un nome a quelle ferite invisibili, individuandone il solco, ricamarci sopra come del resto le due performer chiedevano di fare alle donne da cui venivano accolte durante il loro viaggio in paesi recisi da un tempo di guerra.

Torniamo al tema dell’identità, noi vs io di cui dicevamo prima e che secondo me è il punto a croce dell’ordito immaginato dalla scrittrice, a cominciare dalla magnifica citazione di Antonia Pozzi che fa da esergo al romanzo.

“Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?”

In un saggio sull’identità di Clément Rosset che consiglio a tutti di leggere e studiare per capire più a fondo cosa accada veramente all’animo umano quando da infinito divenire si richiude sul “cosa si è diventati”, c’è un passaggio illuminante a proposito dell’io, non noi, dove si riprende la felice intuizione di Jacques Lacan sull’identità.

 

Lacan décrit cette
dépendance lorsqu’il dit que la formule par
laquelle l’homme s’assure de son identité
n’est pas Je suis ton mari mais Tu es ma
femme. René Girard signale un cas particulier
de cette identité par procuration, qu’il
classe comme variante de ce qu’il appelle la  “médiation réciproque” et concerne la coquetterie. Lacan descrive questa dipendenza (dell’io con il tu ndt) quando dice che la formula con cui l’uomo si assicura della propria identità non è Io sono tuo marito ma Tu sei mia moglie. René Girard segnala un caso particolare di questa identità per procura, e che classifica come variante di quella che definisce “mediazione reciproca” e riguarda la “civetteria”.

 

 

Parafrasando il passaggio in questione, possiamo dire con l’autrice, Non sono io la tua amica ma tu la mia, per ritrovare, forse, quanto avevamo appena descritto ovvero “il segreto” dell’amicizia tra donne. Del resto quando una donna rimprovera qualcosa alla confidente è più facile che dica : ma come, tu sei amica mia! che non il contrario. E allora ho cercato di capire perché Silvia e Pippa si fossero divise a un certo punto. La risposta l’ho trovata in un’intervista toccante alla seconda sposa pubblicata sul Corriere.

Perché vi siete separate?
«Per futili motivi, causati dalla stanchezza. E c’era, di base, una divergenza sul concetto di prudenza». Un leitmotiv, il non detto che nutre le storie di questo romanzo in cui si alternano grandi storie d’amicizia fra donne del mondo letterario, culturale, come quella tra Sylvia Plath e Anne Sexton, Lalla Romano e Nella Marchesini, Virginia Woolf e Katherine Mansfield, e altrettanto grandi storie d’amicizia che l’io-tu narrante ci descrive, regalandoci momenti di rara e gaudente coquetterie, come la scena delle scarpe in macchina e che lasceremo scoprire al lettore.

A proposito di Virginia Woolf mi ha colpito un passaggio riportato dall’autrice dove scrive: “In un racconto del 1925, La presentazione, Virginia Woolf fa riflettere la sua protagonista su cosa voglia dire essere una donna. Una donna è qualcuno che recita la parte di una donna.”  Un’altra donna, aggiungerei a questo punto. Ad accomunare tutte le storie ed esperienze che compongono un quadro mobile delle esistenze di ciascuna, è proprio questa dimensione mimetica a costituire l’essenza, il profumo dell’amicizia tra donne. Senza la mia amica – il mio alter ego – non esisterebbe nemmeno l’ego da cui si vorrebbe partire. Ecco perché, a un certo punto, la figlia della protagonista, mentre vanno in bicicletta, le chiede di stare davanti perché possa vederla, vedere come si fa, aggiungo io.

Copiez,
et si en copiant vous restez vous-même, c’est
que vous avez quelque chose à dire, tel est le
conseil qu’aurait donné Ravel à ses rares élèves.
La formule semble pouvoir être prise
dans un sens élargi et appliqué à la psychologie
en général : copiez, et si en copiant vous
restez vous-même, c’est que vous avez réussi
à vous forger une personnalité, quelque chose
comme l’étoffe (au moins apparente) d’un
moi. (Clément Rosset, Loin de moi) Copiate, e se dopo aver copiato rimarrete voi stessi, significa che avete qualcosa da dire, così Ravel consigliava di fare ai suoi rari allievi. La formula sembra poter funzionare in senso lato applicandola alla psicologia in generale: copiate e se copiando rimanete voi stessi, vorrà dire che siete riusciti a forgiarvi una personalità, qualcosa di simile alla stoffa (almeno in apparenza) di un “io”. 

Un libro, una storia forse è proprio una stoffa su cui ciondolano ricuciture, strappi, rattoppi, semplici ricami, a ricordarci che le persone, le amiche che ci passano addosso non scivolano via senza lasciarci dentro l’eredità di un ricordo, una nota a piè pagina, una traccia d’esistenza indispensabile per provare a sé stessi che per vivere si deve morire ogni volta e ogni volta rinascere come accade nel finale di una storia scritta da donna per donne, ma non sole. Per gli uomini succede lo stesso, talvolta.

 

 

 

 

 

 

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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