L’impero dei significati
di Danilo Aprigliano
Nella sala grande al centro del palazzo, flussi di codici producevano segni, testi, contesti, tempi fittizi, modelli proiettivi e interpretativi, bussole spazio-temporali, sistemi di pensiero coordinato. Di tanto in tanto, l’imperatore sporgeva dall’ingresso per controllare i processi: tutto – fin nel dettaglio – doveva seguire la geometria del suo progetto. Del suo dominio – lo sappiamo per certo –, aveva tracciato una mappa – prescrittiva e non descrittiva come le altre. Il suo impero doveva rispondere alla geometria delle sue intenzioni e alla coerenza del suo disegno. Ma, da qualche tempo, un tarlo lo assillava e sperava di trovare risposte tra gli schermi e gli scritti di quella sala.
Vagava di continuo, l’imperatore, attraverso sale tappezzate di verde, di rosso, di viola, di nero. Ognuna destinata a una funzione della giornata, ognuna a gruppi di persone diversi che si ritrovavano negli stessi luoghi a combinare nuclei di azioni e di discorsi, di opinioni e di consigli, di intenzioni e di progetti. Tutto – pensieri, parole, immagini, stanze – erano parte dello stesso sistema. Fare visita a queste sale era, per l’imperatore, come sfogliare i libri di una biblioteca: si poteva sempre ripartire da dove ci si era interrotti. Tra le righe di rodate composizioni, scorrevano note di odori conosciuti – tè verde e mela, tabacco e cioccolato alla menta –; di parole e intonazioni già sentite su politica, mondanità, pettegolezzo; di quartetti d’archi che parlavano di cacce e banchetti o di passioni omicide e folli; di letture intorno ad amori risolti nel veleno e di messinscena cervellotiche. I modelli di riferimento, capovolti o rigirati o invertiti, erano pochi e spesso uguali. Che fossero poi i linguaggi a tradurre questi sistemi concettuali in una rete reale, struttura vera del suo regno, gli sembrava un fatto abbastanza ovvio.
Fino a quanto si potevano spingere le influenze strutturanti e, quindi, portare agli estremi il disegno sulla mappa? Poteva davvero, l’impero, diventare una sola cosa col suo pensiero? Il palazzo aveva la forma di un asterisco. Al centro vi erano, al piano di sotto, la sala grande; a quello di sopra, lo studio del re. Passava molte ore seduto all’enorme tavolo in mezzo, sul quale stava posata la mappa. I muri, a forma di cerchio, erano ricoperti da librerie interrotte da finestre costruite negli spazi liberi tra un’ala e l’altra dell’asterisco.
Evidentemente – continuava a riflettere – il modo in cui il corpo era pensato e in cui era pensato relazionarsi col resto dell’esistente diventava modello di discorso sul mondo. Cambiare questa percezione voleva dire vedere l’universo in maniera diversa. Socializzare il tutto e comporre nuove mitologie combinando in maniera diversa i nuclei essenziali a diventare risposta per qualsiasi nuova domanda sull’esistenza. Osservava gli schermi, l’imperatore, e si chiedeva in che modo quegli habitat e quei miti potessero ancora evolvere e seguire il mutare del suo pensiero. Quali discorsi incentivare, quali storie d’amore far sognare tra i semafori delle grandi città e i filobus della circonvallazione. I locali fumosi con le luci blu e i ventilatori d’acciaio potevano ancora produrre significato congruente alle sue intenzioni?
L’intreccio andava riscritto. Parlava chiaro la mappa: ogni unità si definisce solo in relazione alle altre e ogni elemento trova il suo posto solo se anche gli altri lo trovano. Si catapultò sulla sua scrivania e, tra montagne di scartoffie, appunti dattiloscritti, cartoline di angoli esotici del mondo e di quadri con versi stampati sopra, recuperò storie abbozzate come una partitura contrappuntista in grado di comporsi col resto dei segni a testualizzare nuovi schemi da raccontare.
Quale poteva essere la struttura di una nuova narrazione? Bisognava intervenire sul materiale esistente, manomettere le parole, dare loro il significato che voleva, convertire i significanti a un nuovo significato, scegliere i segni di un mondo nuovo. Perché è solo il racconto del mondo che conta, non il mondo stesso. Manipolando ogni strato con interventi mirati, avrebbe potuto ricomporre l’impero secondo la mappa che stava ridisegnando. La concepì come una cipolla: un insieme di veli. O un insieme di fogli lucidi sovrapposti su una lavagna luminosa.
Passò notti, giorni, ancora notti, ancora giorni a lavorare finché non riscrisse ogni storia, ogni emozione, ogni ricordo, ogni visione, racconto, progetto, edificio, strada, quartiere.
Fu tra i sedimenti di uno scavo archeologico che trovai questi appunti e questi disegni. Erano contenuti in un prezioso astuccio di pelle nera. Tra le varie cose, vi erano anche gli abbozzi di colonnati e portici, piazze in cui gli uomini potevano discutere tra loro senza vedersi. Del palazzo non rimanevano che pochi resti, ma bastanti a immaginare come fosse strutturato il resto.
Evidentemente l’imperatore non era a conoscenza di quanto il suo impero fosse uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione era troppo incancrenita perché il suo disegno potesse rimetterlo in sesto e condurlo verso un nuovo avvenire. Forze di cui non era a conoscenza lo stavano consumando, come dei tarli, da dentro. Nuovi nuclei tumorali si stavano espandendo e mancava poco ormai perché giungessero al centro e lo facessero implodere.
Dai resti posso facilmente accorgermi di quanto ogni suddito dell’impero fosse collegato agli altri da fili che si intersecavano tra loro come una fittissima rete da pesca. Insensibili impulsi elettronici scorrevano attraverso questi fili veicolando nuclei significanti: informazioni, pettegolezzo, frustrazioni, desiderio, pensiero. Rapporti, funzioni e interazioni potevano essere di svariata natura: ufficiali, ufficiosi, istituzionali e non, politici, gerarchici, giuridici, economici, finanziari, sindacali, religiosi, fisici, sessuali, di forza, affettivi, sociali, culturali, commerciali, di impresa, mediatici, logistici, comportamentali, antropologici, intuitivi, poetici, sentimentali, accidentali, espliciti o impliciti, … e ancora, variamente combinati e interagenti nel tempo e nello spazio (storia e geografia), a scala nazionale o internazionale. La struttura era fatta di Elemento e Opposizione, ma non coincideva necessariamente né con l’uno né con l’altra, poteva identificarsi, sovrapporsi, essere sinergico, neutrale o antagonista. Tra le maglie, spesso, dei bachi intervenivano a ingurgitare impulsi o pezzi di reti e vomitarne di nuovi, digeriti, scomposti e ricomposti sotto nuova forma. L’intera rete, con i suoi impulsi, non era altro che l’enorme racconto in divenire di un impero e dei suoi popoli, la struttura di una visione del mondo progressiva.
Non è facile stabilire da dove partì la distruzione. Se fosse stato uno di quei bachi a impazzire oppure se una lucidità improvvisa abbia portato contemporaneamente ogni suddito a stracciare la rete. Ma una cosa è certa: non partì da un unico luogo. I nuclei del disastro erano sparsi per tutto l’impero. Ma forse sparsi non è la parola giusta: composti insieme, questi nuclei formavano un disegno coerente. È probabile che fosse una sua sottostruttura a impazzire, a ribellarsi, a incancrenirsi e sfracellare, con sé, il resto.
Eppure, la rete stessa possedeva il suo essere e le sue possibili forme, tutto ciò che avrebbe potuto essere e non era, ciò che poteva diventare e ciò che effettivamente diventava. Poteva, a suo piacimento, diventare ciò che non era.
“Perché è solo il racconto del mondo che conta, non il mondo stesso”, molto affascinante, qualcosa, non so per quali associazioni fuggevoli, mi fa pensare a Calvino, grazie Giorgio.