Gibellina. La materia poteva non esserci
di Jamila Mascat
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio di 55 anni fa, la valle del Belice, raccolta tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo, fu travolta da un infausto terremoto che rase al suolo Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago e si propagò in una ventina di paesi limitrofi, causando trecento morti, un migliaio di feriti e centomila sfollati. Per quasi quarant’anni le baracche con i tetti di legno e di eternit, che Sciascia paragonò “ai più abbietti campi di concentramento”, rimasero come una ferita aperta sul corpo del disastro, finché nel 2006 le ultime duecentocinquanta vennero definitivamente rimosse. Nell’epicentro della catastrofe restano cumuli sparsi di macerie, come quelli tra cui si aggirava a piedi Joseph Beuys nel Natale del 1981, ritratto nelle foto di Mimmo Jodice; e come quelli ancora ben visibili lungo la Strada provinciale 5, tra cui i Ruderi di Salaparuta, restaurati e visitabili. E resta l’enorme Cretto di Alberto Burri (1984-89) che congela la devastazione di Gibellina nel cemento di una cicatrice bianca a cielo aperto, ruvida e muta.
Sotto il Cretto, di Alberto Burri.
C’è chi, come me, Gibellina la conosceva solo così, per via di Burri e di Pietro Consagra, l’artefice, entre autres, della stella d’acciaio inox che sovrasta la Statale 188 e accoglie chi arriva a Gibellina Nuova.
La Stella del Belice, di Pietro Consagra.
Di Gibellina conoscevo solo la promessa di resurrezione, il piano visionario del sindaco Ludovico Corrao che voleva farla rinascere sotto forma d’opera d’arte, l’utopia concreta caldeggiata da Sciascia, Guttuso e Carlo Levi. Furono in tanti negli anni Settanta e Ottanta, oltre Burri e Consagra, a rispondere all’appello di Corrao a reinventare e ricostruire la città ideale.
Il Sistema delle Piazze, di Franco Purini e Laura Thermes.
Alla nuova Gibellina, che nacque a valle, e a diversi chilometri di distanza dalla vecchia, ciascuno rese omaggio a modo suo, privato e dissonante. La città fu dotata di un municipio (Vittorio Gregotti, Giuseppe e Alberto Samonà, 1972), di una Chiesa Madre (Ludovico Quaroni 1972-2002), di un Sistema della Piazze (Franco Purini e Laura Thermes 1982-90), di un Teatro (Pietro Consagra, 1984), di una Torre civica (Alessandro Mendini, 1987), di un Meeting-bar (ancora Consagra, 1976), di una Fontana (Andrea Cascella, 1986), di un Aratro (Arnaldo Pomodoro, 1986) e un centinaio d’installazioni en plein air.
La Città di Tebe, di Pietro Consagra.
Il Teatro, di Pietro Consagra.
Il Teatro e il Meeting, di Pietro Consagra.
La staffetta creativa è continuata negli anni Novanta e Duemila, dalla Montagna di sale di Mimmo Paladino (1990) alla pittura murale di Sten Lex (2016), all’insegna della stessa filosofia: da ciascuno secondo le sue possibilità. Se invece la città fatta ad arte sia stata edificata anche secondo i bisogni di ciascuno, è tutt’altra questione che, a distanza di tempo, torna ad essere spesso sollevata. Il verdetto di Mario La Ferla in Te la do io Brasilia (2004) è senz’appello: Gibellina è un sogno abortito, una tragedia che l’arte non ha saputo riscattare e di cui ha finito per prendersi gioco. Dopo aver visto Gibellina dal vivo, assolata e vuota in un mattino di dicembre, è difficile dargli torto. Ci si rammarica del silenzio di una città afona e deserta, e forse disertata dai suoi abitanti (ufficialmente poco più di 4500). Ci si rammarica dell’idea che non ha preso corpo, della resurrezione sconfitta.
Ancora il Teatro di Consagra.
Ancora il Meeting, di Consagra.
Peccato per le rovine d’autore della città nuova: per il campanile arrugginito della Chiesa Madre, per il corpo alieno e sfinito del teatro incompiuto in cemento armato, per la corazza perforata e fatiscente del Meeting-bar, per le due piazze che mancano al Sistema delle cinque piazze, per tutto quel che a Gibellina è di troppo, ma non è abbastanza. La materia poteva non esserci, si direbbe con Consagra.
La Piazza Joseph Beuys, a Gibellina (ma non ne sono certa).