Il calcio in camicia nera: “Mondiali senza gloria” di Giovanni Mari

 

di Daniele Ruini

In genere un cieco amor di patria è affetto incongruente con l’attività storiografica e critica
(G.E. Gadda)

Chissà se gli appassionati di calcio si sono mai chiesti che ci fa una maestosa torre sulla sommità dei distinti dello stadio Dall’Ara di Bologna… E qualcuno avrà mai notato che il Franchi di Firenze, se visto dall’alto, rivela una struttura a forma di D? E ancora, quanti conoscono la figura del fascista bolognese Leandro Arpinati, presidente della FIGC (Federazione italiana giuoco calcio) che ebbe un ruolo non secondario nei primi dei 6 scudetti vinti dalla squadra della sua città tra il ’24 e il ’41?

A illuminare questi aspetti è Giovanni Mari nel suo recente Mondiali senza gloria (edizioni People), un’approfondita panoramica sugli intrecci tra politica e pallone durante il ventennio fascista. L’investimento mussoliniano sulla propaganda coinvolse, infatti, anche lo sport, e il calcio in particolare: le vittorie italiane al Mondiale casalingo del 1934, alle Olimpiadi di Berlino del ’36 e al Mondiale francese del ’38 furono la conseguenza di una precisa pianificazione ordinata dallo stesso Mussolini, nonché di un’evidente pressione da parte del governo italiano sulle istituzioni internazionali dello sport.

Si scopre quindi che il fascismo è stato anticipatore anche su questo aspetto, avendo intuito quanto il calcio poteva tornare utile come spettacolo di distrazione di massa e veicolo di visibilità per lo stesso regime. Si tratta di un aspetto a cui ormai siamo assuefatti e che ha conosciuto uno dei suoi apici con i recenti mondiali in Qatar, definiti da Mari «una grande operazione di sportwashing» (col loro contorno di migliaia di lavoratori stranieri morti durante la costruzione degli stadi, divieti di esibizione di simboli LGBT+, e indagini sulla possibile corruzione di parlamentari europei per favorire un ritorno di immagine in occidente).

Se «il calcio è politica», Mussolini lo capì dunque con largo anticipo e dalla fine degli anni ’20 impiegò molte risorse per fare della nazionale italiana di calcio l’ambasciatrice del regime: ecco allora il saluto romano imposto ai calciatori prima e dopo le partite, la diffusione di Giovinezza prima del fischio d’inizio e l’obbligo di iscrizione al Partito fascista per i giocatori convocati in nazionale. Ma a venire permeato dalla dittatura fu tutto il sistema dello sport, come dimostra l’imposizione di presidenti fascisti alla guida del CONI, o le ingerenze dei vari potentati locali nelle società sportive.

Dopo aver deciso di investire sul pallone, Mussolini fece quindi di tutto per ottenere l’assegnazione della seconda edizione dei Campionati mondiali di calcio, disputati nel 1934. E ci riuscì garantendo alla FIFA rigore assoluto –come solo uno stato dittatoriale poteva fare– in materia di ordine pubblico; oltre a ciò, offrì all’evento una copertura finanziaria straordinaria, promettendo di sostenere le spese per tutte le squadre che avrebbero partecipato al torneo (cosa mai più accaduta in seguito in nessuna competizione internazionale). E una volta occupatosi degli aspetti organizzativi (tra cui rientravano anche la costruzione o il rifacimento degli stadi), il governo si preoccupò di realizzare le condizioni migliori per favorire la vittoria della propria nazionale. Tale strategia prevedeva di pilotare i sorteggi e, soprattutto, di disporre di arbitraggi favorevoli, un aspetto che si rivelò decisivo nel percorso degli azzurri verso la vittoria finale. La doppia sfida ai quarti vinta contro la Spagna, la semifinale contro l’Austria –la vera favorita del torneo– e pure la finale contro la Cecoslovacchia furono infatti macchiate da grossolani favoritismi arbitrali a vantaggio dell’Italia, mentre gli avversari subirono torti colossali (evidenti a tutti eccetto ai giornali italiani). E ci furono episodi ancora più inquietanti, come le minacce denunciate dal fortissimo portiere spagnolo Zamora a cui fu di fatto vietato di scendere in campo nella ripetizione del match dei quarti di finale.

Naturalmente Mussolini s’intestò la vittoria, celebrandola come il trionfo del fascismo e il riscatto del popolo italiano. Va anche detto che tale successo fu favorito dall’assenza di Inghilterra e Uruguay (all’epoca le compagini più forti) e dalla circostanza per cui l’Argentina aveva inviato al torneo una squadra fatta di riserve. Quest’ultima decisione era stata presa per evitare un’ulteriore deriva di quel fenomeno che aveva visto molti calciatori sudamericani “comprati” dai club di serie A e trasformati in italiani da poter convocare in nazionale. Bastava infatti rinvenire una –anche molto lontana– origine italiana e proporre loro grossi ingaggi per convincerli a vestire la maglia azzurra. L’Italia vincente del ’34 poté così contare in formazione diversi oriundi, nonostante in molti casi ciò rappresentasse una violazione delle regole stabilite dalla FIFA (che imponeva ai calciatori l’obbligo di residenza per almeno 3 anni nella nuova nazione come condizione per poterne vestire la maglia).

Dopo che la nazionale era riuscita ad imporsi anche al torneo di calcio delle Olimpiadi tedesche del 1936, due anni dopo fu la volta dei Mondiali di calcio assegnati alla Francia, gli ultimi ad essere disputati prima della lunga pausa imposta dalla Seconda guerra mondiale. In realtà già su questa edizione si allungarono le ombre dell’aggressiva politica estera nazista: in seguito all’annessione dell’Austria da parte dello stato tedesco, la compagine austriaca dovette infatti rinunciare alla partecipazione. Anche la Spagna, lacerata dalla violenta guerra civile del ’36-’39, non poté prendervi parte. Come già ai Mondiali precedenti, inoltre, anche in questo caso mancavano Inghilterra e Uruguay, a cui si aggiunse la defezione dell’Argentina, offesa con la FIFA per non aver assegnato il torneo ad una nazione sudamericana.

Facilitata da queste assenze, e potendo contare su una squadra molto forte, la nazionale italiana –ancora sotto la direzione del commissario tecnico Vittorio Pozzo (un ex alpino che aveva partecipato alla Grande Guerra e che era considerato un sostenitore del regime)– riuscì a confermarsi campione del mondo; e Mussolini, che organizzò un fastoso ricevimento a Palazzo Venezia per celebrare la nazionale, «costruì su quel bis una gigantesca e capillare opera di comunicazione». Se questa volta non fu necessario ricorrere alla corruzione degli arbitri, gli azzurri dovettero invece fare i conti con le contestazioni di migliaia di antifascisti in esilio in Francia: di fronte ai fischi che arrivavano dagli spalti, gli azzurri vennero invitati a non abbassare i loro bracci tesi e si presentarono ai quarti contro i padroni di casa indossando addirittura una casacca nera (per la prima e ultima volta in una gara ufficiale).

Come controstoria di questi trionfi ottenuti in maniera tutt’altro che onesta, Mari non dimentica poi i nomi di alcuni calciatori antifascisti le cui carriere vennero apertamente ostacolate: come il sindacalista Vittorio Staccione, consegnato ai nazisti e ucciso a Mauthausen; o Ferdinando Valletti, calciatore-operaio che per la sua opposizione alla Repubblica di Salò venne deportato al campo di Gusen; o ancora il comunista Bruno Scher, obbligato a lasciare la serie A per non aver accettato di italianizzare il proprio cognome. E molti furono gli allenatori ungheresi di religione ebraica costretti, in seguito alle leggi razziali del 1938, a lasciare i loro posti alla guida di squadre italiane e a scappare dal paese; tra di essi il più noto è Arpád Weisz, vincitore di 3 scudetti e che, ai tempi dell’Inter, aveva lanciato in prima squadra un giovane Giuseppe Meazza. Proprio mentre quest’ultimo, con la fascia di capitano al braccio ed esibendo il saluto romano, alzava la coppa del mondo, Weisz era obbligato a fuggire in Olanda, dove alcuni anni dopo sarà catturato dai nazisti: spedito ad Auschwitz, vi troverà la morte insieme a tutta la famiglia.

In conclusione, dal libro di Giovanni Mari (ora diventato anche un podcast) s’impara come Mussolini sia stato un abile precursore della strumentalizzazione politica dello sport; d’altra parte proprio la storia recente dei Campionati mondiali di calcio dimostra come i paesi ospitanti continuino a cercare di sfruttare al massimo tale evento a fini propagandistici (vedi l’edizione russa del 2018), talvolta non facendosi scrupoli ad impiegare mezzi illeciti per favorire apertamente la squadra di casa (come accadde nel 2002, quando la Corea del Sud riuscì ad arrivare in semifinale grazie agli evidenti aiuti arbitrali nella sfida degli ottavi contro l’Italia). E abbiamo ancora davanti agli occhi la surreale scena di Lionel Messi a cui l’emiro del Qatar fa indossare il bisht arabo durante la cerimonia di premiazione degli ultimi Mondiali; nelle foto del capitano dell’Argentina che suggella una carriera straordinaria festeggiando una vittoria a lungo rincorsa rimarrà così impresso il marchio del paese qatariota: poteva forse esserci una conclusione migliore per una monarchia assoluta in cerca di visibilità internazionale?

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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