Il fabbricatore di parole
di Francesca Serafini
Pare che una volta, commentando un romanzo di Antonio Bresciani che gli era stato consigliato, Manzoni abbia ammesso di non aver superato i primi due periodi, apparsi ai suoi occhi come gendarmi che gli intimassero di non andare avanti. Quello con cui si apre il primo capitolo del romanzo d’esordio di Giorgio Vasta – appena dopo un rapido elenco di cose che ci sono, tra cui significativamente anche “i nomi” – potrebbe provocare lo stesso effetto-barriera per un oltranzista della verosimiglianza linguistica: «Ho undici anni, sto in mezzo a gatti divorati dalla rinotracheite e dalla rogna».
Verosimilmente, infatti, nessun ragazzino di quella età che non sia stato allevato a medichese definirebbe in quei termini lo stato di salute di un gatto randagio; nessuno userebbe il vocabolario sterminato ed esatto del protagonista in tutti i periodi che seguiranno al primo.
I ragazzini, nella realtà brutale, primitiva e violenta della Palermo descritta da Vasta – verissima ed equidistante dall’oleografia e da un certo sociologismo dell’antimafia – hanno corpastri e facce dilaniate dal dialetto (“una lingua esclamativa”, sempre rabbiosa e minatoria); hanno i pidocchi, si muovono in strade popolate da animali feriti, dilaniati, infetti; chiedono soldi e prendono a morsi per rappresaglia se i soldi vengono negati. Per tutto questo, e a dispetto dell’anagrafe, il protagonista non riesce a sentirsi uno di loro. Ha una precisa volontà di linguaggio – “una febbre alla gola” – che sulle prime viene avvertita come una colpa (quel suo modo di aspirare all’infezione per confondersi): la colpa di non essere, come tutti, parte dello schifo.
Poi, quando la maestra lo definisce mitopoietico, “fabbricatore di parole”, si sente riconosciuto e, commosso e grato, può finalmente accettare la sua identità di non-ragazzino che può avere, come subito scoprirà, altri simili (i compagni di scuola Bocca e Scarmiglia). Preadolescenti anomali, cupi e ideologici come lui, che rifiutano la realtà delle cose e vogliono forgiarsene una nuova, diversa da quella in cui sono immersi nelle strade della loro città e diversa da quella di plastica che la televisione travasa per inerzia nella serenità prefabbricata delle loro case, in cui va in scena, ogni giorno con gli stessi tempi e le stesse dinamiche, l’immarcescibile “drammaturgia del tinello” della piccola borghesia italiana.
Siamo nel 1978. La tv, tra un carosello e una canzone di Rita Pavone (il tutto evocato senza alcuna concessione a compiacimenti nostalgici), porta nelle case anche il terrorismo: le sue azioni progressivamente più cruente, la lingua precisa e alternativa dei suoi comunicati apodittici. I non-ragazzini ne subiscono tutto il fascino. Credono di aver trovato il loro punto di riferimento, proiettando in quell’ambizione al cambiamento lo stesso fermento dei loro corpi pre-adolescenziali. Per questo si decidono a creare una propria cellula: forgiano una lingua anche loro (l’alfamuto), si sottopongono a un rigido addestramento. E, a un certo punto, cominciano ad agire. Qualche scritta, un incendio dimostrativo; poi, studiato nei minimi dettagli, il primo sequestro, in un crescendo narrativamente molto teso. Da un certo punto in poi, infatti, il romanzo si legge con la foga di un giallo: avvinti anche loro, i gendarmi fanno largo e uno se li immagina lì, tesi come gli altri a vedere se tutto accadrà per davvero, e fino in fondo. E non è forse questo lo stato d’animo con cui l’Italia, nel ’78, ha assistito per giorni, morbosa e inerme, a tutto ciò che avrebbe finito per scaraventare Aldo Moro nell’auto di via Caetani?
Di Moro seguiamo nel romanzo tutti i passaggi precedenti al ritrovamento del cadavere e il subito dopo. Ma non assistiamo in presa diretta a quel momento, come se l’autore avesse voluto evitare l’icona, riconoscibile da tutti, per crearne una nuova, che sottraesse a Moro il corpo, e quindi l’uomo, consegnandolo alla storia come metafora compiuta dell’Italia che è stata e di cui è figlia, nella sua degenerazione, l’Italia che è.
Ma non è tutto. Manca un personaggio – la bambina creola – l’oggetto del desiderio di Nimbo (il nome di battaglia che il non-ragazzino-narratore si sceglierà nella cellula), l’idealizzazione della bellezza, il contraltare perfetto dello schifo. E però anche del linguaggio, perché muta. Winbow – come la chiamerà Nimbo – sta al Tempo materiale e al suo protagonista, come Fulvia a Una questione privata e a Milton. È Winbow la questione privata di Nimbo, colei che lo costringerà a mettere in discussione tutte le sue convinzioni, l’unica che può minare le ragioni della lotta (che sia quella armata e dissennata del terrorismo, o quella liberatrice e salvifica della Resistenza Italiana di Fenoglio). Così come Fulvia è irraggiungibile e irreale, viva soltanto nella proiezione di Milton, la bambina creola, nell’universo concreto della lingua di Vasta, diventa invece evanescente e immateriale come il soffio del vento (Wind) e i colori dell’arcobaleno (Rainbow) fusi nel suo nome. Finché la missione affidata a Nimbo dalla sua cellula – l’ultima e la più difficile – non gliela farà ritrovare tra le braccia in tutta la sua carnale materialità.
Sarà il punto di non ritorno, quello in cui, di là dalle idealizzazioni e dalle ideologie, il tempo materiale diventa quello delle scelte. Anche quello in cui un autore può scegliere l’azzardo. Il desiderio di stringere, fin dal primo periodo, un patto col lettore che gli faccia accettare, poi condividere – e dunque amare – un romanzo in cui, al netto del dialetto, della plastica televisiva e del politically correct, la lingua letteraria, profondamente consapevole, si mostri ancora vivida e creatrice di universi.
(Giorgio Vasta, Il tempo materiale, minimum fax, pagg. 311, 13 euro)
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Ho appena iniziato a leggerlo e il mio primo commento dopo poche pagine è stato: “minchia!”
(era un commento stringato e ammirato.)
Giorgio Vasta è un grande scrittore e “Il tempo materiale” è un libro meraviglioso, di una originalità e potenza espressiva che lasciano ammirati.
Se è di forte impatto, mi piacerà sicuramente.
dimenticavo: complimenti a francesca serafini, che ha scritto un’ottima recensione.
mi accodo ai commenti – è un libro da leggere. Francesca in questa bella recensione coglie subito il punto di smarrimento per il lettore, ma anche la forza singolare del libro – l’estrema consapevolezza linguistica che non solo non è comune ad un undicenne, ma nemmeno ad un adulto medio. Tutta la storia è anche un viaggio nelle parole, (a partire dai familiari che sono “nomi” e poi la nuova lingua di gesti che creano i ragazzi…) usate quasi come strumenti chirurgici in un contesto di materia esplosa, malata. Non c’è niente che fiorisce tranne appunto ciò che si lega a Wimbow (in uno strano modo…) Indimenticabile per me il gatto randagio, “lo storpio naturale”, simbolo di tutto ciò che è inerme, che mostra il fine esatto di ogni esistenza e come spesso soltanto la constatazione del dolore sembra utile ad indagarla.
E’ arrivato oggi, ho iniziato a leggerlo e, come Gianni, ho mentalmente esclamato la stessa cosa… Non mi aspettavo una furia linguistica tale, da Giorgio, pensavo a un romanzo molto differente… Mi pare un libro IMPORTANTE!
L’ho acquistato oggi.
Merito dei commenti in questo post.
Lavoro in una grande liberia e, per me, è una sofferenza attraversare il reparto narrativa. Quella marea sterminata di pile di libri, uno uguale all’altro.
ùNon mi fermerei a guardarli nemmeno se mi costringessero con una pistola puntata alla nuca.
Da una decina d’anni ho deciso di leggere una bandella soltanto se sento un commento che, in una scala 1 a 10, esprime entusiasmo 10.
E non solo.
Il mio compito, in libreria, è preparare, col materiale fornito dagli editori,
le schede dei libri che usciranno dopo due o tre mesi.
Avevo fatto anche la scheda del “Tempo materiale” [mi ricordo benissimo la copertina] ma non avevo scorto niente di particolare. Tutte le schede editoriali si rassomigliano come foglie di un albero.
Oggi acquistato “Il tempo materiale” di Giorgio Vasta..
Sono arrivato solo a pagina 20, ma l’impressione è che questo sia un capolavoro.
*
Poi se ne resta desolata ad avvampare, semisvenuta sulla sua poltrona, gli arti lontano da tronco, dicendo qualcosa sugli ossiuri, sulle turbe endocrine, in compagnia dei suoi spasmi personali. Lo Spago è allergica a se stessa, al suo respiro. Al fatto di essere al mondo. Di vivere con me, con la Pietra e col Cotone. La malattia che a forza di difendersene mi ha tramesso.
…lui si torce rettile…
*
Nessun raffronto [lo faranno i critici] solo una lunga citazione:
“In quest’atmosfera *entre-nous*, allora vecchio mio confidente, prima di unirci agli altri, a quelli che si trovano dovunque, compresi, sicuro, i fanatici di mezz’età che insistono a scaraventarci sulla luna, i Vagabondi del Dharma, i fabbricanti di sigarette con filtro per intellettuali, il Beat e lo Sciattone e il Petulante, i fedeli di culti scelti, tutti gli eccelsi esperti che sanno così ben consigliarci sull’uso dei nostri poveri, piccoli organi sessuali, tutti i giovani barbuti, orgogliosi, illetterati, cultori del Fok-song che non sanno suonare la chitarra, sicari dello Zen, esteti dell’Anonima Teddy-boys che torcendo il loro non lluminato naso gurdano dall’alto in basso questo splendido pianeta dove (vi prego di non interrompermi) dimorarono Kilroy, Gesù Cristo e Shakespeare – prima di unirci tutti costoro, ti chiedo in privato, mio vecchio amico (scusa, ma lo chiedo proprio a te), di accettare questo semplice bouquet di parentesi appena sbocciate: (((()))).
SALINGER.
Una grande scrittura. Ostico all’inizio, ma ti afferra per i polsi con questa scrittura capillare, di precisione, ritmica. Mi accodo ai giudizi lusinghieri per Vasta.
Più avanzo nella lettura e più mi sembra un testo decisivo. Conferma di una stagione assai felice per quella che non so più nemmeno se è prosa italiana – qui in Vasta c’è un lavorìo metrico che mi impressiona, si sta slittando verso la poesia, credo che sia in atto una riconfigurazione linguistica di portata non secondaria.
In tempo reale:
sono pienamente d’accordo con Genna,
più vado avanti, più sono convinto
che si tratta, per l’Italia, di qualcosa di epocale.
Peccato che qualcosa di epocale lo ha già fatto qualcun altro.
chi? Baricco?
“[…] l’enfasi è l’unico modo per accedere alla visione, alla profezia della storia.
Certo si diventa ridicoli, ma non ci sono alternative: tra l’ironia e il ridicolo scelgo il ridicolo.”
GIORGIO VASTA, Il tempo materiale. Romanzo.
Il libro di Giorgio Vasta è un libro molto atteso e davvero potente.
In ogni parola c’è un’idea forte di letteratura, una forza espressiva che non scende a compromessi con la lingua “addomesticata” di certa letteratura.
Mi sono incuriosito leggendo i commenti. Lo inserisco nella mia wish list per un prossimo acquisto. Grazie a Francesca Serafini
L’ho finito.
Ho finito di leggere “Il tempo materiale” di Girgio Vasta.
Ci ho pensato. E ripensato.
E ho dovuto correggere l’impostazione di ciò che avrei voltuto dire.
Non conosco Girgio Vasta e si può dire che sappia soltanto l’età: 38 anni.
Ha dovuto scegliere.
Ha dovuto scegliere tra “opera” e “romanzo”.
Meglio: ha scritto un’opera a metà – perfetta – l’Organizzazione e un romanzo a metà – perfetto – il Sequestro.
Io leggo pochissimo romanzi italiani – anche stranieri, in verità – ma non penso che ci siano molte pagine così stranulanti come quelle in cui viene descritto l’assassinio di Morana. Un carnevale di orrore amicale.
La prima parte: l’opera, richiederà molto tempo, per lo meno a me, prima di riuscire a mettere a fuoco un discorso sensato.
L’impostazione che avrei voluto dare al discorso di fine lettura è questa:
finalmente, col 2008, si chiude una stagione e se ne apre un’altra – e non certo per merito di Wu Ming -, ma lo scorrere del nuovo dovrà tenere conto di Scilla e Cariddi. Da una parte: Franz Krauspenhaar col suo ” Era mio padre”, dall’altra: Giorgio Vasta col suo “Tempo materiale”.
E’ vero che non cambia molto, ma bisogna comunque dirlo.
Cariddi non si mostra come una porzione di costa che erge unitaria, ma come due enormi faraglioni che riproducono, ancora, al loro interno l’andare. Il cercare.