Bianciardi. Una vita in rivolta
di Franco Ferrarotti
Il libro che Sandro Montalto dedica a Luciano Bianciardi è originale e penetrante. Per questa ragione va letto e meditato. Montalto vede in Bianciardi una vita in rivolta. Ma non è l’“homme révolté” di Albert Camus. E non è neppure il tipico intellettuale italiano, che tutti conoscono. Certamente, poiché Bianciardi fa un uso professionale del proprio intelletto, Bianciardi è un intellettuale. Ma è anche un giornalista, attento alla quotidianità della gente comune.
Non ho avuto la fortuna di diventare un suo amico, non ne abbiamo avuto il tempo. Ma l’ho incontrato di persona, a Ivrea, quando si trattava di metterci d’accordo per un suo articolo sui minatori della Maremma e la tragedia di Gavorrano per la rivista di Adriano Olivetti «Comunità». Ci fu tra noi un’immediata, profonda consonanza. Bianciardi capì subito, a differenza di Geno Pampaloni e Renzo Zorzi, che ero l’unico collaboratore stretto di Olivetti, ma senza per questo essere un dirigente della Ditta, e quindi non diviso dalla duplice lealtà, verso le idee di Adriano, ma anche verso gli interessi dei familiari azionisti dell’impresa industriale.
Da parte mia, non tardai a rendermi conto che Bianciardi era, in fondo come me, un «battitore libero», talvolta un radicale anarchicheggiante, impegnato. Ma il suo impegno non aveva nulla di dogmaticamente stabilito e definito, come all’epoca si insegnava nelle scuole di partito. Da questo punto di vista, Bianciardi era semplicemente un intellettuale scomodo, fuori dal coro, in qualche misura imprevedibile. «Servi sublimi»: così Cesare Garboli ha definito gli intellettuali italiani. Nessun dubbio sull’origine aulica e curiale della loro cultura ma, per una volta, l’acutissimo Garboli sbaglia. Non sono «servi sublimi», ma piuttosto servi di due padroni, magari per giocarli, all’occorrenza, l’uno contro l’altro, tenendosi a portata di mano, come livre de chevet, la «dissimulazione onesta» di Torquato Accetto.
Un merito particolare di questo libro va infine riconosciuto: oltre a discutere (cosa non frequente) non “solo” il Bianciardi traduttore, redattore e sceneggiatore ma anche il Bianciardi soldato e bibliotecario, momenti della sua esistenza spiegati nel loro essere in realtà fibra importante di ciò che lo scrittore diventerà pochi anni dopo, Montalto decide di basare la sua analisi non prioritariamente, come solitamente si fa, sui romanzi (peraltro ampiamente radiografati) bensì sull’amplissima e in gran parte pochissimo conosciuta produzione giornalistica. Bianciardi non è il tipo di giornalista che aspetta l’imbeccata dal direttore e scrive a rimorchio dell’attualità: è un giornalista che non dimentica mai di esser uno scrittore. Di fronte al problema della censura, soprattutto a proposito della sessualità, non ha dubbi; è libero fino a sfiorare la spregiudicatezza, con accenti, talvolta, di ironia fustigante e anche di auto-ironia. Montalto colloca Bianciardi fra i veri inventori, in Italia, del “giornalismo investigativo” che forse, da noi, solo in qualche pagina di Giorgio Bocca e di Corrado Stjano ha trovato espressione.
In sintesi, il libro di Montalto su Bianciardi è un contributo prezioso. Non è solo la riesumazione di un autore troppo presto dimenticato, ma indica una via positiva per l’avvenire, e anche l’esigenza della creazione di nuovi linguaggi, un’attenzione alla vita della gente comune, che fanno di Luciano Bianciardi una figura esemplare.