Nero bruciato
di Francesca Caponi
21-03-1945 Astroni
Carissimo zio,
casualmente o incontrato un soldato che appena ieri è ritornato da casa sua: «Sto nei dintorni di Empoli» prima di partire è venuto da voi a farsi delle fotografie; mi ha assicurato che stavi bene, mi a fatto moltissimo piacere. Ancora non ho notizie di mamma e Renzo, prego il Signore che siano in buona salute: l’Invocazione che ha vissuto tutte le ansie del cuore durante il tormento di tanta lontananza mi ha illuminato la speranza più forte e più intensa oggi, che mi farà piangere di gioia quando la carezza della mamma si stringerà a me. Quale miraggio più divino può offrirmi la vita se non l’abbraccio della cara mamma? Spero che le sue sofferenze l’abbiano conservata in salute e così il sacrificio e il dolore sarà soffocato col nostro abbraccio che ci farà rinascere alla vita e alla pace. Non so cuando potrò venire in licenza, ma spero presto. Infiniti saluti a voi e famiglia, un fortissimo abbraccio alla mamma e a Renzo.
Vostro nipote
Caponi Renato
E poi succede che torni a casa. Succede che non muori nella Battaglia di Rodi e che non sei morto neanche da prigioniero, davanti a un plotone d’esecuzione. Non muori nemmeno in quel campo di concentramento. Ombra, torni a casa e finito un conflitto ne inizia un altro. Chi sei. Non più il diciannovenne che ha salutato sua madre alla stazione di Empoli quella mattina ghiaccia e dura del 19 gennaio 1942. Non più un bravo vetraio. Non più un atleta. Non più un bravo disegnatore. Il filo del discorso si è interrotto per la prima volta quando hai messo piede su quell’isola dannata e poi altre volte ancora. E adesso succede che mentre sei a desinare passa un aereo e ti ritrovi sotto il tavolo a sbattere la testa contro i piedi di tuo fratello e tua madre, e quando torni a sedere lei ti guarda e vorrebbe strapparsi il cuore e darti il suo, perché è chiaro che il tuo è sbriciolato e sta insieme per grazia di Dio onnipotente, ma non dice niente e sorride, e tutti e tre srotolate qualche risata nervosa, perché così è più facile. Succede che rivedi Galera, quel sudicio, lurido fascista che ti spinse contro il forno mentre soffiavi un fiasco, ma ora il regime è caduto, così lo guardi appena e a voce alta sopra il silenzio di tutti dici: “Ma quello non è Galera? Sì, quello che mi spinse contro il forno e mi bruciò tutte le braccia. Sapete cosa faccio ora? Lo prendo, lo butto dentro al forno e ce lo pigio bene bene con la canna.” E succede che Galera va via e nessuno lo vedrà più. Succede che spesso hai freddo, anche se fa caldo; è il freddo del Campo, è il freddo addosso. Succede che dormi ancora sul pavimento e ogni volta pensi Solo un’altra notte. E di nuovo, Io, voce che ti parla dall’ansa più profonda e sincera della tua identità, Io domando. Chi sei. Non lo sai, non puoi, è troppo presto. Lascia che sia così. Come dici? Ma sì, certo, hai ragione, questo lo sai bene. Vivo. Sono vivo. E allora vivi.
21-03-1946, Firenze
A Firenze la nuova stagione quest’anno è ossigeno salvifico ed è per tutti. Sì, perché l’inverno è stato lungo, è stato duro, è stato malvagio. E ora basta, punto e capo, ma punto e a capo non basta e c’è bisogno di riprendersi quello che questi anni gelidi hanno rubato alla vita delle persone. Anche Renato si sente grato per questa nuova alba e la respira a pieni polmoni. Camminare per le vie di Firenze gli fa bene: a Empoli ancora non sa come fare ad essere ciò che è, non si sente né pesce né ranocchio, a Firenze può essere chi vuole. Cammina tra Renzo e il loro amico Franco, sono in silenzio da un po’: dopo essere scesi dal treno si sono scambiati poche parole sulla strada più corta da fare per raggiungere la sala da ballo e poi hanno camminato in silenzio, con gli occhi avidi di tutto ciò che Firenze ha da offrire. È il primo giorno di primavera e, a Firenze, la primavera arriva e si sente padrona, si impone con prepotenza, è una vecchia matrona che arreda la sua casa con eleganza e maestria: nei colori freschi e accesi che riflettono in Arno, nei fiori che tempestano gli alberi dei giardini, nella paglia dei cappelli delle signore, nella gente che si ritrova a biscondola nelle piazze, negli orti che rinascono e negli sguardi che nascono. La primavera, a Firenze, si ascolta: il fruscio delle stoffe leggere, i cinguettii dai tetti, le risa spensierate, la musica. Musica, nelle sale da ballo.
Balli e ripensi a questa mattina, hai messo ad abbrustolire due fette di pane e quando te ne sei ricordato erano tutte annerite da una parte; allora hai preso un coltello e ti sei messo a grattare via il bruciato. Hai grattato via il bruciato, perché sotto al nero, il pane è sempre buono. È quello che fai ora, gratti via il nero, via tutto quanto. Balla e gratta. Scrr scrr. Lo sto facendo. Scrr Scrr.
Fuori dalla sala da ballo Renato vorrebbe tornare alla stazione a corsa e se fosse stato solo, forse, lo avrebbe fatto. È con Renzo e Franco quindi cerca di contenersi, ma detta il passo, veloce e dinamico, ogni tanto balza e sorvola qualche buca, oppure salta in alto per battere il cinque a un ramo. Canta le sue canzoni preferite Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità e gli altri due lo assecondano e lo seguono. Da dietro un angolo spunta un terzetto di giovani donne appena fiorite e le loro gonne sono petali al vento. Renato le osserva senza smettere di camminare e cambia canzone alzando leggermente la voce Come sei bella, più bella stasera, Mariù splende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu. Chissà, forse domani troverà anche lui una Mariù, non una di passaggio, una tutta per sé, o forse già stasera, laggiù, alla fine della strada. La vita ha di nuovo il sapore delle possibilità e l’odore che hanno gli imprevisti belli. Il ritorno in treno trascorre così, tra un verso di una canzone e l’altra, commenti sulle giovani con cui avevano ballato – quella col vestito azzurro, poi sì, anche quella con i capelli biondi, ma era tanto bella anche quella che ha ballato con te, con i capelli raccolti e gli occhi nocciola – e su Firenze. Renato ripete una cosa che aveva detto con ironia una volta a un soldato fiorentino Firenze è il giardino del mondo, Empoli è il giardino di Firenze. Ed eccola Empoli, il treno rallenta. Renato cerca con lo sguardo il campanile, sa che non c’è più, non scorderà mai il giorno in cui, dopo quattro anni di assenza, è tornato a casa e ha cercato il campanile nel cielo senza trovarlo. Lo sa, ma non lo accetta.
Le porte del treno si aprono su entrambi i lati, quello sul marciapiede e quello sul binario oltre il quale si trova l’altro marciapiede. Renzo sta già scendendo dalle scalette e Franco, dietro di lui, sta per fare altrettanto. Renato indugia. La distanza da saltare non sarebbe eccessiva, ripensa agli allenamenti da militare sulla sabbia, anche con la rincorsa più corta degli altri i suoi salti erano sempre e comunque i più lunghi. È vivo, è forte, è giovane, invece di scendere dal marciapiede e fare il giro dal sottopasso per raggiungere Piazza della Stazione, può saltare il binario e atterrare direttamente dall’altra parte. Certo che può, è Renato, è tornato dalla guerra, è sopravvissuto alla fame, alla prigionia, alla fucilazione. Io salto. E non ascolta quello che Renzo e Franco gli dicono, lui vuole saltare. Due passi indietro e via, sta già prendendo la rincorsa.
Fermati.
Renato si ferma mezzo istante prima di staccare il salto. Non ha il tempo di chiedersi perché poi si sia fermato: l’altra metà di quello stesso istante è il rombo terrificante di un treno che passa a tutta velocità proprio sul binario che avrebbe dovuto attraversare in volo.
Sei tornato dall’inferno per morire così? No. No, infatti. Renzo e Franco ti chiamano, li hai spaventati. Muoviti, voltati, scendi le scale e vai a casa con loro. Scrr scrr, tu continua, scrr scrr. Via tutto il nero, via il bruciato e vedrai, altri primi giorni di primavera ti troveranno.