Radio Days: Mirco Salvadori
Le parole dicono molte cose se le sai usare
di
Mirco Salvadori
Sono le parole usate da Mariana Branca che risplendono nel fulgore psicoattivo di ‘SUUNS’, il suo nuovo viaggio letterario che si è aggiudicato il posto d’onore come miglior racconto lungo, nella Dodicesima Edizione del Premio Letterario ZENO,
Vedo già il pensiero di alcuni rivolto al duo americano dei Sunn O))), magari trasformato in SUUNS per volere della scrittrice. A dir il vero, il doom-drone metal poteva anche illustrare alla perfezione il trip di sensazioni che la lettura del testo fa scaturire ma Suuns è il nome di una band canadese che produce suono intriso di varianti rock contaminate di kraut e post, rock ovviamente. Una band che dona il suo nome ad un racconto ispirato agli arcani maggiori dei tarocchi di cui il sole fa parte, capace di affondare le radici in una dimensione emotiva e psicologica complessa, nella quale la scrittura diventa un potente strumento di esplorazione interiore. Un intenso viaggio che sa distinguersi con un approccio narrativo in grado di mescolare elementi di introspezione, surrealismo psicoattivo, viaggio onirico e dura riflessione sociale, in grado di creare un’esperienza di lettura che stordisce, al pari del suo romanzo di esordio: Non nella Enne non nella A ma nella Esse – Wojtek Edizioni, classificatosi terzo nella finale del premio Letterario Italo Calvino del 2021.
Il titolo, “SUUNS”, è un gioco linguistico che rimanda alla pluralità e alla molteplicità di significati che si riflettono nei temi centrali del racconto. La storia si sviluppa attorno alle vite di due fratelli coinvolti in una serie di eventi che, pur nella loro apparente (a)normalità, si rivelano essere il veicolo per affrontare questioni più profonde legate all’identità, alla memoria e al conflitto interiore. Un viaggio che non è solo fisico, ma soprattutto mentale ed emotivo.
Mariana Branca ci ha abituato ad una scrittura complessa ma precisa, capace di estrema analisi e al contempo iper-sensibile e analitica, abile nel sezionare le parole, scegliendo quelle in grado di evocare immagini complesse. Ogni frase sembra calcolata per trasmettere non solo ciò che è scritto, ma anche ciò che rimane sottinteso. La lingua è uno degli aspetti più affascinanti del racconto: al contempo semplice e ricca, in grado di rendere l’intensità emotiva delle situazioni in modo tale che ci ritrova immersi, a contatto diretto con l’inchiostro che ancora fumante, ci cola addosso provocando lacerazioni profonde: “A diciotto anni, per la prima volta Totore alzò lui il braccio e strinse quello del padre, steso levato in aria pronto a scagliare il ciocco di legno, lo strinse nella sua mano destra e lo immobilizzò, vedeva i tendini i muscoli i nervi del collo del padre da vicinissimo, poteva contarli davvero, uno a uno, poteva azzannarli, se avesse voluto, succhiarli, sfilarglieli via dal collo, poteva sentire l’odore acre del sudore del padre, osservare le goccioline sulla fronte, sentire l’odore di aceto che emanava, così vicino e così forte che gli veniva da vomitare, poteva stringere il polso del padre che non aveva mai osato toccare, misurarne la forza, la durezza, scoprire che era pietrificato, duro più duro di tutti i ciocchi di legno che negli anni gli erano stati scaraventati addosso, più duro dei denti che gli si erano spaccati nella bocca, più duro della sua scorza che non era come quella della quercia, non come quella del faggio, la scorza di Totore si era graffiata, lacerata ma non aveva ceduto, aveva resistito perché la sua scorza era più dura. Gli ritorse il polso all’indietro e gli sembrava di poterglielo spaccare, sentiva le ossa piccole nel polso scricchiolare, i tendini sfibrarsi, le fasce muscolari spezzarsi, il braccio intero opporre una resistenza residua, non più sufficiente. Sentiva i denti del padre sfregarsi facendo rumore di pietre strusciate, gli vedeva la pelle diventare rossa, infuocata, bollente, emanare calore. Adesso lo ammazzo, pensò Totore, o almeno di fargli male, parecchio male, di farlo andare via dalla stanza piegato, strisciando, tumefatto, la faccia aggrumata in ematomi rosso scuro, viola che sarebbero diventati blu il giorno dopo, il blu dei lividi sulle ossa, dei vasi sanguigni spezzati nella carne, gli zigomi deformi, sproporzionati dall’assenza di simmetria dei colpi sulla faccia, gli occhi irrorati gonfi maciullati come le cosce delle vacche azzannate da un lupo, le orecchie strappate, e i denti, quel che resta dei denti, la lingua pesta, trita, da sputare.”
Come si accennava prima, la musica ha un suo ruolo nel raccontare socio-intro-psicoattivamente, le vite di questo gruppetto di ragazzi che avevano come meta il Luna Park Sole, nella zona industriale di una non ben definita realtà per nulla metropolitana, nella quale si immergevano: “sballati e fatti, fumavamo la metanfetamina a casa di Totore, ci mettevamo in macchina in sei e andavamo alla zona industriale. Le giostre mischiavano meglio il sangue alla droga che avevamo in corpo, appena sufficiente. Il sangue, il sangue era appena sufficiente, pensavamo. Faceva freddo, da noi, quasi tutto l’anno. La droga la usavamo per sballarci, per far pompare il cuore, fargli produrre calore. Il Luna Park delle feste di Natale era la scusa buona per uscire, perché le giostre e la droga hanno questo potere, di riscaldare.”
Un’altra capacità dell’autrice, sta nel riuscire a manipolare magicamente il tempo e lo spazio. La narrazione si muove tra il presente, il passato e soprattutto, il: e ora? Dove ci troviamo ora?! Lo fa in modo fluido, come se i ricordi e le esperienze fossero sempre a portata di mano, pronti a riaffiorare in ogni momento. La sensazione di irrealtà e di disorientamento che ne deriva diventa una delle caratteristiche distintive del racconto. L’alternanza tra il “reale” e il “surreale” induce il lettore a mettere in discussione ciò che è davvero vero, creando un’atmosfera sospesa, inquietante, assolutamente affascinante.
SUUNS è anche racconto di “deriva” interiore, che si manifesta non solo nella sua ricerca di senso ma anche nel modo in cui si relaziona con gli altri personaggi. Ogni incontro, ogni scambio, è carico di tensioni non esplicitate, come se il linguaggio stesso fosse incapace di contenere completamente le emozioni e i desideri che animano i personaggi. La solitudine, la difficoltà di comunicare e la ricerca di una connessione autentica sono temi ricorrenti nel racconto, trattati con una delicatezza che porta a livello esplosivo l’impatto emotivo.
Durante questo viaggio si giunge a riflettere anche sul concetto di appartenenza, sulla ricerca di un posto nel mondo che non sempre si trova facilmente. Totore si sforza di capire chi è e dove si colloca in un contesto che spesso sembra ambiguo e indecifrabile. La stessa scelta del titolo, che evoca qualcosa di distante, di misterioso, suggerisce l’idea di un’inquietudine esistenziale, un desiderio di scoprire un significato profondo che però rimane parzialmente, forse volutamente, nascosto. La scrittura della Branca sa afferrare e trasmettere sensazioni, inquietudini, desideri e visioni con una chiarezza e una bellezza che incantano e coinvolgono. Un lavoro letterario che lascia una forte impressione, provocando una riflessione sul significato della ricerca interiore.
Nel disco dei Suuns citato nel racconto, c’è una traccia intitolata Edie’s Dream. Ecco: SUUNS è quel sogno, indotto dalle droghe e dalla suo inquieto vivere, nel quale Edie/Totore, ma anche suo fratello Hölderlin e tutti i personaggi del racconto, compreso il cane Syd (nome lisergico per antonomasia), sono beatamente e dolorosamente immersi, un sogno dal quale è impossibile uscire, accecati dalla troppa luminosità di un sole attorno al quale girano vite impazzite che non possono rinunciare alla migliore e più potente droga mai esistita: l’Immaginazione.
SUUNS è stato pubblicato nella raccolta Cloris: storie per i tarocchi – Volume 2, curata da Lorenzo Vargas per Pidgin Edizioni.
Per coloro che non rinunciano mai all’ascolto: https://suuns.bandcamp.com/album/images-du-futur-2