Nelle retrovie

di Linda Farata
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Provai gioia il giorno in cui babbo venne a dirci che saremmo potute andare a prendere Elvio con lui. Non seppi cogliere la gravità, l’eccezionalità di quel permesso. Da che eravamo sfollate a Molleone, non facevamo altro che impastare crescia e rammendare la poca biancheria che eravamo riuscite a portarci dietro. Babbo e Peppina una volta avevano provato a tornare nella casa vuota per recuperare la biancheria di mamma, ma si erano ritrovati nel mezzo di un cannoneggiamento. Oh Dio son morto, oh Dio son morto, gridava correndo un partigiano, prima di trovare riparo dietro a un pagliaio – così mi aveva raccontato Peppina, che correva per la cucina con le mani in aria gridando Oh Dio son morto, e io ridevo fino a cadere dalla sedia.
Da quella volta, babbo non ci aveva più lasciate andare. Si aspettava che proseguissimo con gli studi, ma la noia, la tristezza. Leggevamo dei libri, ogni tanto – sempre gli stessi. Lui rientrava impolverato dopo lunghe giornate di transito: dai campi al mercato, dalla caserma al convento. Ci chiedeva se avessimo studiato, e noi rispondevamo di sì. Poi gli servivamo la cena e si chiudeva al piano di sopra, nella stanza che aveva adibito a studio. Parlava poco da quando era stato rilasciato, e preferiva il tabacco al cibo. Non si portava più dietro disertori, partigiani ed ebrei: il regime l’aveva visto e non lo lasciava andare più. Per questo sul Monte Petrano dovemmo andarci a piedi, nonostante fossero quasi tre ore di cammino. Zio Imbriano ci aveva dato appuntamento sul versante sud, all’altezza del fienile dei pastori. Era il quattro di maggio e splendeva il sole: le foglie nuove, il pietrisco bianco, la massa bluastra del Monte Petrano che ci guidava all’orizzonte. Sembrava un’avventura all’inizio, una gita all’aria aperta, ma fu solo quando li incontrammo che iniziai a intuire quel che stava accadendo.
Sulla strada del ritorno parlammo a malapena. Io e Peppina ogni tanto ci guardavamo, poi guardavamo Elvio: camminava a testa bassa, tirando calci ai sassi. Rientrammo al casale di Molleone che era già pomeriggio inoltrato. Babbo si chiuse nello studio, mentre noi andammo in cucina ad accendere il camino. Qualcuno aveva cambiato l’acqua ai fagioli; forse la nonna, anche se dalla notte dell’acquazzone si alzava a malapena dal letto.
«Stasera facciamo pasta e fagioli» disse Peppina, e io sapevo che era un regalo per Elvio – la farina per i maltagliati era razionata, e anche i legumi iniziavano a scarseggiare – ma lui non reagì. Era andato a sedersi al tavolo e si teneva la testa con una mano.
«Così poi ci teniamo caldi a suon di scoregge» provò ancora Peppina, e questa volta lui accennò un sorriso.
«Ora vivete qui?» chiese, guardandosi attorno. La cucina grande e fredda, con le pareti annerite dal fumo.
«Solo finché non finisce la guerra» risposi.
Peppina andò a occuparsi della nonna, mentre io misi l’acqua sul fuoco e presi a riempire la tinozza per Elvio, una pentola per volta. Da che eravamo entrati, si sentiva più forte il suo odore di escrementi e braci, polvere e sudore. Lui non faceva niente, mi guardava e basta. Peppina me l’aveva bisbigliato, sulla strada verso il Monte: ora avremo un altro uomo da accudire. A me aveva fatto effetto quella parola, “uomo”, riferita a lui. Prima di seguire il padre in montagna, Elvio era stato un bambino lagnoso e inquieto, sempre bisognoso di attenzioni. Ricordavo con ribrezzo il modo in cui mi si avvicinava dopo i pasti – quando ancora esistevano le domeniche e ci si riuniva per i pranzi in famiglia – e mi appoggiava la testa sulla spalla, chiedendomi “un bacino”. Io voltavo veloce la testa e gli scoccavo un bacio a labbra strette sulla guancia unta, già puntellata dei primi, rossissimi brufoli.
«Ti lascio solo» dissi, quando la tinozza fu piena abbastanza. Sul pavimento gli avevo sistemato un pettine e un pezzo di sapone. Lui non si mosse, e solo quando fui sulla porta mi chiese di restare. Mi sembrò così piccolo allora: un fagiolo appena uscito dal baccello.
Restai di spalle finché si spogliava, poi trascinai una sedia accanto alla tinozza e mi sedetti dietro di lui. Prendevo l’acqua calda con la brocca e gliela rovesciavo lentamente sulla testa, come aveva fatto mamma con noi.
«Sai, su in montagna dormivo in un pagliaio» mi disse. «Scavavamo un buco nella paglia e io mi c’infilavo dentro.»
Gli passavo il pettine tra i capelli annodati, e lui non si lamentava.
«Una volta ho anche sparato.»
«A chi, sentiamo.»
«Ai tedeschi!»
Feci una faccia come se mi stesse raccontando balle, ma non poté vederla.
Zio Imbriano l’aveva portato in montagna con sé quando era riuscito a evadere dalla caserma dei militi. Elvio al tempo aveva solo undici anni, ma non c’era una madre a cui lasciarlo. Dicevano che Imbriano, per evadere, avesse scavalcato un muro altissimo, e che avesse chiesto la bici a un passante per pedalare veloce lontano da lì. Peppina lo diceva, e diceva anche che la bicicletta forse non l’aveva chiesta, ma rubata. Imbriano era sempre stato impetuoso, esuberante, il più divertente degli zii. Per questo mi aveva fatto così effetto vederlo sul Monte quel mattino: con le guance incavate, il tremolio alla mano destra. Il modo in cui provava a ridere per poi spezzarsi sotto i colpi della tosse. Quando alla fine si era chinato per salutare Elvio, babbo ci aveva fatto segno di seguirlo nel fienile, per lasciare loro un po’ di spazio. Dentro il fienile il buio era denso, e un mucchietto di feci rinsecchite attraeva mosche in un angolo. Da fuori arrivava il ronzio della voce di Imbriano, interrotto solo dai singhiozzi di Elvio. Lo zio ci aveva chiamato un’ultima volta, quando già scendevamo lungo il fianco della montagna. Urlava di avere fiducia, che presto il nemico sarebbe caduto. Ci voltammo a guardarlo: le mani sui fianchi, il piede appoggiato a un masso. Sembrava crederci davvero, e per un po’ quella fiducia ci rimase attaccata addosso.
«Ma con il moschetto, non con la mitragliatrice come babbo» precisò Elvio.
Peppina entrò in cucina in quel momento e ci guardò strano. Elvio non era più un bambino, e io ero quasi una donna finita. Dissi che andavo a prendere altra legna e lasciai Elvio a mollo. Fuori il blu del crepuscolo si stendeva su ogni cosa, l’aria era fresca e come fatta di polvere. Mi fermai in mezzo al cortile e chiusi gli occhi per un attimo. Provavo a immaginarmi il ragazzino che avevo appena aiutato a lavarsi mentre sparava ai tedeschi. Ma non riuscivo a immaginare uno scontro a fuoco, né i soldati, né sapevo cosa fosse effettivamente un ‘moschetto’. Nelle retrovie non vedevamo altro che farina e fagioli, e degli uomini che si ammazzavano sul fronte non ci restava che l’assenza.
Quando rientrai in cucina, Elvio era avvolto in un asciugamano e si scaldava accanto al camino. Peppina, seduta al tavolo, tritava la cipolla. «Portalo di sopra» mi disse, «vedi se gli trovi una gonnella pulita.»
Andammo nella stanza dove dormiva papà, Elvio si sedette sul letto mentre io cercavo nella cassettiera qualcosa che potesse stargli.
«Hai freddo?» gli chiesi, quando vidi che tremava.
Lui alzò le spalle, e allora anche io.
«Non ci hai creduto alla storia dei tedeschi, vero?»
Gli passai un paio di mutande pulite.
«Guarda che è vero!»
«Sì, sì, ti credo» risposi, mentre s’infilava i pantaloni. «Hai avuto paura?» gli chiesi poi.
Lui di nuovo alzò le spalle. I pantaloni gli ricaddero fino alle ginocchia, così andai a cercare qualcosa con cui tenerli su. Il resto della casa era silenzioso: solo dalla cucina arrivava lo sbattere aritmico del tagliere contro il tavolo, quando Peppina voltava l’impasto per schiacciarlo. Quando rientrai in stanza, Elvio era tornato a sedersi sul letto. Il torace era violaceo e ossuto, quasi incavato in mezzo al petto. Gli allungai un pezzo di corda che avevo trovato in ingresso.
«Torniamo giù» gli dissi, quando si fu infilato anche una vecchia camicia ingrigita, con le macchie ruvide di filo dove io o Peppina avevamo cercato di nascondere un buco. Sembrava un albero con le lenzuola stese ad asciugare sui rami.
«Di mamma non avete saputo nulla, vero?» chiese allora lui. Io mi arrestai sull’uscio – era come se un sasso mi fosse rotolato dall’esofago allo stomaco. Sua madre era sparita. Tre, quattro mesi prima, senza lasciare niente di scritto. Ha abbandonato la famiglia, dicevano di lei, senza preoccuparsi di nascondere il disgusto. Io me la ricordavo piccola, zia Rosa, muta e remissiva. L’avevo notata appena, prima che se ne andasse. Io e Peppina mettevamo insieme le memorie: la volta che piangeva in cucina, e quel livido sul polso che cercava di coprire con la manica dell’abito. Ma erano solo congetture, e dovevamo farle sottovoce, perché nonna e babbo non volevano sentirne.
«No» gli dissi, «non abbiamo sentito niente».
Lui annuì velocemente.
Provai a mettergli un braccio sulla spalla, ma sembrava un peso morto, un arto non mio.
«Com’è non avere una mamma?» mi chiese allora, voltandosi a guardarmi.
Io restai in silenzio per un po’, poi scossi la testa. Non riuscivo a dire niente.
«Adesso la nonna potrebbe farci da mamma, no?»
«È più di là che di qua» risposi.
Lui si arrotolava le maniche della camicia sui polsi, cercando di far spuntare le mani.
«Allora Peppina?»
Scoppiai a ridere.
La cena fu allegra, con Peppina che diceva le sue scemenze ed Elvio che si abbuffava. Persino babbo sembrava più leggero del solito. I maltagliati si erano un po’ appiccicati tra loro, sulla lingua si sentiva la ruvidezza della farina, rimasta cruda tra gli strati che non si erano cotti del tutto. La nonna scuoteva la testa ma non diceva niente, anche lei aveva capito che quella sera era importante star sereni.
Poi sentii qualcosa, nel cuore della notte, quando dormivano tutti già da un pezzo. Un ticchettio alla finestra, come se un uccello infreddolito ci stesse chiedendo di entrare. Mi tirai su a sedere. Peppina, accanto a me, parlava nel sonno – sì, chiudilo, non sul tavolo, chiudilo su! La stanza era buia, ma si vedeva il bagliore di una luce accesa oltre gli stipiti della porta. Raggiunsi il corridoio a tentoni, e vidi che la luce veniva dallo studio di papà. Mi mossi piano, cercando di non far rumore. La porta dello studio era accostata, una candela bruciava sul tavolo. Babbo non mi vide: era piegato in avanti e si teneva il volto tra le mani. Lui poi avrebbe detto che mi ero sognata tutto, che non c’era modo che sapesse, o anche solo sospettasse. Ma io sono certa di averlo visto piangere. Anche se era appena successo, a otto chilometri da lì, e il messaggero che sarebbe venuto a informarci era ancora preso dal suo stesso sconvolgimento, in una notte d’orrore speculare alla nostra. Io so che anche babbo aveva sentito la beccata dell’uccellaccio alla finestra, e che, come me, anche lui aveva capito.
Ci avrebbero raccontato che avevano pianificato un attacco alla caserma dei militi di Cagli, la stessa che l’aveva preso prigioniero tre mesi prima. Ci avrebbero detto che erano in quattro, e che il piano era quello di far saltare la porta della caserma per rubare delle munizioni. Che per far saltare la porta avevano utilizzato il plastico – un esplosivo di cui gli americani avevano cominciato a rifornire i partigiani sulle montagne, insieme ai viveri che facevano cadere dagli aerei in volo. Ci avrebbero confessato che i partigiani non avevano dimestichezza con questo nuovo esplosivo, e che per errore ne avevano piazzato troppo. Così non era saltata solo la porta, ma l’intera facciata della caserma. Che i carabinieri all’interno si erano messi a sparare alla cieca sui quattro partigiani. E che Imbriano, colpito alla testa, era morto sul colpo. E ci avrebbero detto, guardando Elvio che si aggrappava al mio braccio, che probabilmente Imbriano aveva avuto un presentimento. Che aveva sospettato che le cose potessero mettersi male per lui quella sera, e che per questo aveva mandato a chiamare il fratello, per assicurarsi di mettere il figlio in salvo.
Tornata in stanza, m’infilai nel letto di Elvio. Lui mosse appena una gamba, ma il respiro gli restò regolare. C’era ancora un sentore di braci nei suoi capelli, oltre quello acidulo del sapone. Mi avvicinai al suo corpo magro, sudato, e lo strinsi a me come se fosse un bambino. Come se fosse il mio, di bambino.
Linda Farata è nata a Milano nel 1994. Suoi racconti, articoli e traduzioni letterarie sono stati pubblicati su diverse riviste e antologie. Nel 2022 è uscito Ero una Fanzine per i tipi di Agenzia X, libro scritto e curato insieme al Collettivo Mastica’zine. Il suo primo romanzo uscirà a settembre 2025 per Bompiani.