Il brutto male

di Camilla Pasinetti
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Agnese ha detto alle bambine di non dar retta alla nonna, quando fanno i compiti. La nonna, la stessa che va a prenderle a scuola, prepara loro il pranzo e, quando dormono qui, stende i vestiti sul calorifero per farglieli trovare caldi al mattino. Alla nonna, meglio non chiedere niente quando si parla di scuola, ha la quinta elementare, non sa quello che dice. La voce di Agnese mi ronza nelle orecchie con la raucedine ereditata da suo padre, senza bisogno di tabagismi accessori, quel tono perentorio di chi non ammette conoscenze diverse da quelle mutuate dall’esperienza diretta.
Bisognerebbe ammazzarli tutti da piccoli, i vecchi. Sono stata io, la nonna, a insegnarglielo, prima che la pelle raggrinzisse e iniziasse a colarmi dalle braccia come una specie di inefficace membrana per il volo.
Senza di me, le giannizzere starebbero a scuola fino alle cinque del pomeriggio e sarebbe ancora troppo presto per gli orari di lavoro dei loro genitori. Sarebbero parcheggiate in qualche scuola di nuoto, danza o scherma per tirare l’ora di cena e, finito di mangiare, avrebbero ancora i compiti sul groppone. E toccherebbe a lei preoccuparsi che li facciano. Ma, alla nonna, residuo di un tempo defunto e di un partito morente, meglio non chiedere niente. Bambine, guardatevi dalla politica e guardatevi dai vecchi; mi pare di sentirla. Niente telegiornale a casa, niente politica a tavola, solo resoconti di azioni quotidiane e comunicazioni di servizio. La tossina politica intacca le menti dei bambini come il diabete corrompe l’organismo dei vecchi.
Leggo sul diario di Bianca una nota in cui la maestra spiega le ragioni dei compiti supplementari che le ha assegnato. Prova a convincermi di aver dimenticato le dispense a scuola, e non demorde neanche quando comincio a rovistarle in cartella. Trovo quattro fogli pinzati e occultati nel quaderno di matematica, con date da associare ad eventi e viceversa. Appiovro Rachele, la piccola, impedendole di concludere di corsa l’ennesima orbita tra la porta spalancata del soggiorno e la finestra del bagno, passando per il terrazzo. La faccio sedere al tavolo davanti alla sorella mentre carico la caffettiera. Andrà alle elementari l’anno prossimo, ma voglio che ascolti. Alcuni concetti mettono radici in testa nonostante l’intenzione di conservarla vergine.
«Ti piace il caffè, giannizzera?».
«Quale delle due?» domanda Rachele.
«Quella più grande».
«Non posso mica berlo» risponde Bianca, «la mamma mi ammazza!».
Le assicuro che mamma non lo saprà, a meno che un collaborazionista non glielo vada a riferire. Fulmino la piccola con un’occhiataccia che le infonde un infimo senso di colpa per qualcosa che ancora non ha fatto. Bianca porta timorosamente la tazzina alla bocca, analizza preoccupata il liquido nero all’interno, la reclina quel poco da portarlo a contatto con le labbra e allontanarla disgustata.
«Sa di vita. Fa schifo, ma è solo così che si butta giù. Amara».
Cin-Cin! Cin-Cin, Cin-Ci, ricoprimi di baci, Cin-Cin, Cin-Cin, assaggia e poi mi dici, Cin-Cin-Cin-Cin.
Agguanto il telecomando, schiaccio un bottone a caso e lo lancio sul divano. Le bimbe mi rimproverano.
Mi seggo accanto a Bianca e comincio a spulciare l’esercizio. Serve anche a me, per verificare lo stato delle mie capacità intellettive, misurare il grado di sclerosi. Quattro novembre, l’Armistizio di Villa Giusti. Otto settembre, quell’altro Armistizio.
«Nonna, otto settembre millenovecentoquarantatré?».
«Scrivi, due punti: inizio della guerra civile italiana».
«Non hai capito. Devo tirare una freccia per collegare le date con le cose successe nella colonna di fianco».
«C’è spazio?».
«Sì, ma…»
«Riempilo. Inizio-della-guerra-civile-italiana».
«Devo fare i compiti, non imparare quello che vuoi tu!».
«A fare i compiti è più brava la mamma, io so insegnare solo quello che so».
«Questa la so, venticinque aprile, fine della Seconda guerra mondiale, gli americani liberano Milano».
«Gli Alleati hanno liberato una eva. Il Piccì ha liberato Milano. Scrivi: millenovecentoquarantacinque, due punti, Milano è liberata dai compagni partigiani delle Brigate Garibaldi, dai socialisti delle Matteotti, non dai Fazzoletti Azzurri di Badoglio, non dai cattolici, non di certo dai monarchici. Gli americani ci volevano tutti sui monti ad aspettare il messia, ma avevamo già patito troppi inverni all’addiaccio, e dovemmo muoverci prima che il gelo facesse cascare anche il dito del grilletto».
«Cosa devo scrivere?!»
«La tua maestra è di quelle che insegnano che ogni morte d’uomo è una disgrazia perché ogni uomo partecipa all’umanità?».
«Eh?».
Accendo una sigaretta e Rachele tossisce, come le hanno insegnato a fare quando un adulto comincia a fumarle accanto.
«Il venticinque aprile non è finito proprio niente. Le persone hanno continuato a morire per settimane».
Bianca sbuffa, Rachele la segue per imitazione, reinterpreta il fastidio per solidarietà, aggiunge un tocco personale e ribalta gli occhi.
Ciao, Sandra, che fai? Lavoro. Ah sì? e dove sono i giornali? Lì, sul divano. Ma perché sul divano, devono star qui, perché sul divano?! A proposito, è passata la cretina. Quale cretina? Quella che ci fai il cretino! E chi è? Non fare il cretino, Raimondo, la nostra vicina. Ah, quella lì?!
«Puoi abbassare la tele?! non li sopporto ‘sti due!» si lamenta Bianca.
Dico all’altra di prendermi il telecomando. Rachele odia che le si chieda qualcosa. Agnese dice che somiglia a me, e la cosa la preoccupa. Mai avrei pensato che una Rachele mi sarebbe stata tanto simpatica. Scanala per sbaglio su una commedia con Walter Chiari e la Cortese.
«Non voglio fare la trombona, perciò vi racconto solo come è finita. Anzi, come non è finito niente. L’inverno del quarantacinque fu inclemente. Per trovare un po’ di formaggio e qualche grammo di sale in più dovevamo rivolgerci alla borsa nera di Brescia, e dovevamo andarci a turno, in bicicletta. Gli americani avanzavano all’impressionante velocità di trecento chilometri l’anno, ma il generale Alexander aveva ordinato a tutti di aspettare a braccia conserte. Avevano il terrore che il Piccì liberasse le città da solo e che, alla fine, le reclamasse come proprie, come stava facendo Tito. Una volta la settimana mi incamminavo sul Monte Orfano, coi cesti preparati da me e le mie sorelle. Avevo dodici anni ma ne conoscevo ogni anfratto, potevo scendere e salire da tutti i versanti. Portavo sigari e sigarette arrotolate durante la settimana con le foglie di tabacco intere, di un verde quasi ignifugo, qualche tocco di formaggio, sale, zucchero, salame, quando capitava, ma non era sempre domenica.
Le domeniche erano quasi estinte. Zio Battista e i miei cugini non si facevano mai vedere. Per un anno, mi venne incontro un uomo con l’accento da montagnino, e non mi disse mai come si chiamava. Poi, sparì e, per qualche mese, venne mio cugino. Feci l’errore di chiamarlo per nome e lui mi diede un manrovescio che mi ribaltò. I nomi erano pericolosi. Per finire al muro bastava portare quello sbagliato. Disse fiero che si chiamava Artù, adesso».
«In che senso, al muro?».
«Fucilati, Bianca».
«Nonna, qua chiede: venticinque aprile 1915 – nove gennaio 1916».
«Gallipoli, credo, ma quello è un problema degli australiani. Dicevo, quando scomparve anche Artù, nell’inverno dal quarantacinque, incontrai Santagata, un amico di mio zio che conoscevo da quando era piccola, vicino a un vecchio pezzo d’artiglieria campale asburgica semi deglutito dal suolo. Faceva il maquis dal trentanove, ricercato per renitenza alla leva.
Non andavo più a scuola da quando le elementari erano state requisite dalle Brigate Nere. Le SS si dividevano il seminario con la Feldgendarmerie, che ora è diventato casa albergo».
«Casa albergo?» chiede Rachele, perplessa.
«Dove gli anziani vengono messi ad aspettare la morte».
«E ci devi andare anche tu?».
«Puoi scommetterci… Finita la scuola, con le belle giornate, entrai in confidenza con Alfredino, il ragazzo che abitava nel torrione di fronte a noi al castello. Il nostro rione era l’ultimo agglomerato di catapecchie seicentesche, attorno al quale il resto del paese era cresciuto come un arrossamento intorno a un brufolo. Non c’era nessun castello. Passavamo i pomeriggi nei campi, stesi sull’erba calda, a fissare il cielo in attesa del passaggio di Pippo. Pippo veniva solo di notte, ma, per noi, qualunque apparecchio era Pippo. Ad Alfredino mancavano un paio di venerdì, la madre l’aveva lasciato alla nonna per trasferirsi a Ospitaletto con i figli normali. La mia mamma non voleva che uscissi col figlio di un militare congelato nell’Epiro, ma, quel tempo, non esisteva concessione di replica e non avevo modo di spiegare che in paese mi sentivo più sicura a farmi vedere in giro con lui piuttosto che da sola; la nonna bis aveva il timore di quello che bisbigliava la gente.
I tedeschi mi identificavano come la fidanzata del mentecatto, lasciandomi sfilare tra le autoblindo senza troppo menarmela. Trascorremmo l’estate fissando la pancia dello stesso aeroplano dell’aeronautica della Repubblica Sociale in livrea mimetica, che andava e veniva dall’aeroporto di Ghedi per pattugliare la campagna e smitragliare la tranvia. Credo che Alfredino mi piacesse un po’».
«Ma il nonno!» squittiscono maliziose.
«Ancora di là da venire… Dov’ero, più? Ah, sì… Feci un altro inverno, su e giù dal monte, finché fu di nuovo primavera. Una sera, Alfredino bussò alla nostra porta. Non s’era mai azzardato nemmeno a chiamarmi da giù. Mia madre si inferocì e volarono schiaffi per tutte. Agitava i palmi aperti nell’aria alla frenetica ricerca di una guancia da scaldare. Non esistevano colpe singole, in famiglia, solo collettive. Alfredino non era venuto per me, quando riuscì a mettere tre parole in fila mia sorella Paola aveva il braccio ustionato dalle braci del ferro da stiro. Milano è liberata, balbettava. Il proprietario dell’unico apparecchio radio sopravvissuto alla requisizione aveva bisbigliato la notizia a qualcuno, che l’aveva detta ad un altro, e l’informazione impiegò più di un giorno ad arrivare alla mia porta. Pian pianino, perché i tedeschi non sembravano essere sul punto di andarsene.
Il giorno dopo, mio zio e le altre bande di gappisti scesero dai monti e cominciarono a sparare».
Il logorio della vita moderna minaccia la nostra esistenza, e allora? Allora affidiamoci alle virtù salutari del carciofo, nostro fedele alleato!
«Nonna, sono le quattro e mezza, se andiamo avanti così finiamo dopodomani».
«Spararono tutto il giorno, dall’alba a notte fonda. I tedeschi piazzarono un pezzo d’artiglieria sul sagrato della chiesa e una postazione di mortaio in piazzetta, sotto la mia finestra. Per tutto il giorno, la Guardia nazionale repubblicana girò il paese a bordo di un blindo per diffondere a megafono l’ordine di tenere le imposte chiuse e non uscire di casa. I colpi scuotevano il pavé come un tappeto e facevano vibrare i vetri dietro le persiane. Io, mamma, Paola e Rosa eravamo in camera, in silenzio. Cercavamo di interpretare l’andamento della battaglia dall’elastico avvicinarsi e ritirarsi dei colpi. Le imposte restarono chiuse finché non riconoscemmo le voci che si levavano dalla piazzetta. Da principio, pensammo a un trucco per farci mettere il becco fuori. Paola prese l’iniziativa e aprì le imposte della camera. Mamma la strattonò per i capelli e finirono a terra, ma nessuno sparò. Qualcuno, di sotto, intonava Bandiera Rossa in dialetto. L’anta persiana di Alfredino era saltata e sforacchiata da una corona di proiettili. I tedeschi e i repubblichini erano morti o se n’erano andati. Quel mattino, si riunì un Comitato di Liberazione per votare la sorte dei fascisti catturati e organizzare le perquisizioni delle case dei collaborazionisti. Per due giorni, fino al ventotto, ventinove aprile, i compagni guidarono il paese. Erano anni che non vedevo zio Battista. Era fratello minore di mio padre, ma non erano mai andati d’accordo. Zio ci regalò alcune barrette di cioccolata della Wehrmacht, tonno e prosciutto affumicato in scatola, gallette di riso e altre leccornie. Il pianto della vedova Rugiada lo attirò giù di nuovo. Salì nel torrione della vedova con altri partigiani per portare giù il corpo di Alfredino e caricarlo su un carro».
«Ma perché l’hanno ammazzato?»: Rachele conosce lo sconcerto.
«Non c’è limite all’orrore di cui è capace un uomo che sente tremare la terra sotto i piedi. Di fatto, perché si era affacciato alla finestra. Accompagnammo i morti al cimitero e lì feci i nomi dei collaborazionisti che avevano fatto affari coi tedeschi. Il marito della signora della merceria, il padrone del bottonificio, il notaio Digilio e altri, che comprava generi alimentari dai nazisti per poi rivenderli alla povera gente a prezzi da strozzino, e segnalare chi gli stava antipatico alle SS. Non voglio mentirvi: qualcuno è morto quel giorno e non ci ho mai perso un minuto di sonno.
Il governo del CLN durò un paio di giorni. Poi, segnalarono un’imponente colonna partita da Cremona per scortare il gerarca Farinacci al sicuro in Svizzera. L’Antigrammatico si staccò dal convoglio con la sua guardia personale prima di Bergamo per puntare alla Valtellina, ma ebbe la bella pensata di fermarsi a mangiare un boccone con un’amica contessa dalle parti di Monza, e lo fucilarono. La banda del Mont’Orfano e gli altri gruppi della zona si riunirono con gli uomini di un comandante garibaldino della Val Taleggio, un certo Tarzan, per fermare la tradotta dalle parti di Orzinuovi. In serata, andammo incontro ai compagni per soccorrere i feriti. Mio zio fu tra quelli che non tornarono. C’era però Santagata e quel Tarzan di cui tanto si parlava, un marcantonio, ma forse erano i miei occhi troppo piccoli per inglobare figure umane così imponenti, tanto gonfie di paura e coraggio da lievitare il doppio di un corpo normale. Aveva i capelli lunghi, il fazzoletto rosso, il pizzetto curato alla Errol Flynn, nonostante desse l’idea di aver dimenticato l’odore del sapone. Sgusciai tra i compagni e raggiunsi Santagata per sapere dei miei cugini. Tarzan gli rubò il tempo e mi disse senza orpelli che mio zio era morto e che dei figli non sapeva niente. Mi domandò in bergamasco dove fosse mio padre.
“Mio padre non c’è”, dissi. “Ti ho chiesto dov’è”, replicò lui, la voce dura come pietra. “È morto”, feci io. “Non coglionarmi, sc-chetina. Lo so io dov’è”. Poco dopo, ordinò di raccogliere il possibile prima di abbandonare il paese.
Così, mi pare il trenta, una fresca orda di tedeschi e italiani ci occupò di nuovo. La colonna attraversava tutto il paese, dall’imboccatura, all’altezza della stazione, per stendere le sue vertebre metalliche lungo la strada per Cologne, da un lato, e di quella per Brescia, dall’altro. Il Comitato di Liberazione si era espresso male: due repubblichini e alcuni loro compari, graziati dalla votazione, erano ancora rinchiusi nella scuola elementare. Fui una delle prime che vennero a prendere. Io e la vedova Rugiada, che ora non piangeva più, e un’altra signora, moglie e madre di qualcuno.
La signora Rugiada e quell’altra donna vennero uccise lì, in piazzetta castello. Spararono molti più colpi di quanti ne servissero. Restai a guardare le spirali di fumo grigiastro risalire dai fori nel tessuto bruciacchiato e avvitarsi in spirali combinate. Fanno effetto le cose che si ricordano.
Il prigioniero della GNR mi indicò come una parente dei banditi. Dopo una mezz’ora portarono tre partigiani feriti sulle lettighe e li posarono a terra, ai nostri piedi. Riconobbi Artù e lui riconobbe me e le mie sorelle, bastò un attimo per distogliere gli occhi e non guardarci più. Altri soldati arrivarono con due piccozze e iniziarono a picconare fino a sentire l’impatto del selciato contro il becco metallico».
«Tu ci stai prendendo in giro». Rachele accenna un sorriso solo per rinfoderarlo.
«L’SS che faceva da interprete tra il personale locale e i suoi camerati ci colpiva con un buffetto ogni volta che distoglievamo lo sguardo. C’erano anche il proprietario del bottonificio e il marito della merciaia, con loro. L’ufficiale SS scambiò qualche impressione col sottoposto, interpellò un altro soldato e, dopo qualche minuto di conciliabolo, l’interprete mi domandò dove fosse mio padre. Dissi ancora che era morto. Il repubblichino abbaiò offeso che stavo mentendo, e rispose per me. Raccontò che era scappato in Argentina per non finire in galera, e ci aveva abbandonati, poi si piegò in avanti su di me così che sentissi l’alito vinoso e mi domandò se sapessi che mi zio era morto quel giorno. E io, come la stupida bambina che ero, annuii. Il ripubblichino sogghignò. Avevo confermato quello che già sapevano. Papà non era morto per un incidente in acciaieria, ma la vergogna non permise mai a mia madre di ammettere la verità. Neanche dopo.
I corpi furono prelevati dalla piazzetta e scaricati all’interno del cinema della parrocchia di Rovato. Visto che ero la più piccola, il repubblichino ubriacone chiese a mia madre di scegliere quale figlia avrebbe pagato e lei spintonò Paola verso l’ufficiale. Non aveva mai avuto troppa passione per la mezzana. Non saprei dire cosa abbia intravisto l’SS in quel gesto, mosse qualche passo verso di noi, fece una carezza a Paola e la invitò a indietreggiare con la mano guantata mentre ordinava a me di avvicinarmi. Parlò in tedesco, guardandomi negli occhi, lasciando all’interprete il tempo di tradurre. Sai cosa fanno i comunisti alle donne? In giro si diceva che mangiassero i bambini, ma, per fame, chi non l’avrebbe fatto? Scossi la testa. Allora chiese una sedia.
Il repubblichino diede un ultimo sorso da un fiasco di vino e lo frantumò per terra. La gamba destra teneva il tempo frenetico di una canzone di terrore che non riusciva a zittire, stringeva i pugni per reprimere gli spasmi alle mani. Al contrario di me, sapeva cosa sarebbe successo – e si pisciava sotto. I muscoli delle guance pulsavano per lo sforzo di tenere serrate le fauci. Una piccola macchia rossa emergeva dal giro di garza che gli incorniciava la faccia, all’altezza dell’orecchio. La scherzo della finta esecuzione gli aveva sfondato il timpano, imprigionando un potente impulso elettrico nel suo sistema nervoso, impossibile da scaricare a terra. Si accovacciò e raccolse i cocci di vetro, pinzandoli uno ad uno con le dita incerte, li carezzò col polpastrello per sentire il filo e scartare quelli spuntati. Selezionò un triangolo scaleno, una specie di piccola squadretta verde, e si portò dietro di me.
Appena si mise al lavoro, l’universo fu prosciugato di ogni suono. Non uno schiarirsi di voce, un colpo di tosse. Solo il raschiare del vetro. Il suono di una liscia mano di bambino che raspava una guancia barbuta. La guerra era finita, lo sapevano anche loro.
Il giorno dopo, tre grosse formazioni garibaldine assediarono il paese supportate dal contingente polacco. Nella notte, la colonna si rimise in moto, i polacchi attesero che si allontanasse e la attaccarono in campagna. Io, però, non avevo più occhi per vedere.
Il sangue mi colava in faccia, Paola tamponava la fronte seguendo il profilo degli squarci e cercando di schivarli. Piangeva come se lo stessero facendo a lei.
Tarzan volle sapere perché non mi avessero accoppato. Paola cercò di spingerlo via e lo colpì allo stinco con una scarpata che lo fece sorridere. Mi portò in braccio alla scuola elementare e mi stese su due banchi uniti, svolse il canovaccio che mi faceva da turbante strappando il tessuto dalla carne viva. Un medico da campo polacco lo fermò. Tarzan rispondeva in dialetto a quello che gli veniva detto in polacco, ma tutti sembravano capirsi senza problemi. Il paese era in tripudio.
Un polacco mi ficcò un pettine tra i denti e schioccò le mascelle per farmi segno di mordere forte. Mani annerite manipolavano il mio corpo irrigidito per tenerlo aderente al tavolo operatorio. Mi punsero la coscia e spremettero all’interno un quarto di tubetto di morfina. La prima colata di acquavite e trementina mi incendiò la testa. Il pettine mi scappò di bocca e urlai tanto da sentire il sangue in bocca. E più piangevo e strillavo e battevo i piedi, più loro si infiammavano l’ugola per spingere il trionfo un tono sopra il mio dolore.
A morte la Casa Savoia, lavata da un’onda di sangue, si sveglia il popol che langue! O ladri del nostro sudore, nel mondo siam tutti fratelli, noi siamo le schiere ribelli, sorgiamo che giunta è la fin! A morte il Re e il principin, a morte il Re e il principin!
Finito di ricucirmi, mi fasciarono il cranio con delle bende militari.
Festeggiarono tutta la notte e tornarono a cantare Bandiera Rossa, in italiano, perché quei garibaldini erano padovani della Pierobon e vicentini dell’Ortigara, ravennati della Ventottesima, bresciani della Settima Matteotti e della Quarta Garibaldi e bergamaschi di Tarzan. Ognuno parlava, biascicava e bestemmiava nel suo idioma. I polacchi si portavano appresso quintali di pentolame in ghisa e alluminio, posate in acciaio, cioccolato, pancetta affumicata, e iniziarono ad elargire doni alle donne in cambio di tre pasti al giorno per i mesi successivi.
Al mattino, ancora si intonavano stornelli. Col parabello in spalla caricato a palla sempre ben armato, paura non ho, quando avrò vinto, ritornerò! E a colpi disperati, mezzi massacrati dalle bombe scippe, i fascisti sparivan, gridando “Ribelli, abbiate pietà!”».
*
Il telefono spezza il momento, frantuma la bolla e mi strappa il ricordo dalle mani. Alzo la cornetta, chiudo e la lascio penzolare.
«Il citofono, nonna!» mi redarguisce Bianca, esasperata.
Qualcuno preme sul citofono per la terza volta. Sono le cinque passate, e Bianca ancora non ha finito il primo foglio di domande. Agnese non sarà contenta.
«Ma cosa ti hanno fatto col vetro?» vuole sapere la piccola.
«Fatevelo raccontare dalla mamma, ma non oggi. Vestitevi che è qua sotto».
«Alla fine almeno avete vinto» arguisce Rachele. Bianca inserisce i fogli tra le pagine del quaderno e lo richiude esasperata.
«Lo pensavamo tutti. Ma basta guardare la televisione, è ancora zeppa di repubblichini. Walter Chiari, la Cortese, Vianello, Fo, Albertazzi, il segretario dei repubblicani e pure il tipo baffuto della pubblicità del Cynar. Hanno vinto loro, e sono stati così bravi che non ce ne siamo accorti».
«Ma chi sono?» chiede, sempre Rachele. «E perché non li hanno messi in prigione con i tedeschi?».
«Perché avremmo avuto galere piene e strade deserte. Abbiamo deciso di perdonare, di turarci il naso, una pacca sulla spalla, un colpo di spugna, un cero e non ci abbiamo pensato più. Il primo Natale dopo la guerra, eressero un monumento ai caduti. La notte dell’inaugurazione, i fascisti lo fecero saltare la dinamite. Il nonno, una decina d’anni dopo, lo fece erigere di nuovo a spese sue».
«Ma sei sorda, non senti questo rumore!? Zzzzzzzzz, zzzzzzzzzz?!» Bianca non ne può più.
«Sloggiate giannizzere».
«Ma perché ci chiami sempre così?».
«Perché dove passate voi non cresce più l’erba. E poi, è come quelli del monte chiamavano me. Vi vanno bene le scaloppine al vermut per domani?».
*
Prima di andare a dormire, adagio la parrucca sulla testa senza volto di polistirolo e sfrego la peluria sudata sul cranio con paglietta umida. I capelli sintetici mi fanno prudere la testa, mi obbligano a grattarmi il cheloide dove la mancanza di sensibilità trasforma la sensazione più appagante del mondo in qualcosa di repellente. I capelli non sono più ricresciuti. In paese, si dice ancora che abbia un brutto male.
Camilla Pasinetti è nata a Novara nel maggio del 1994. Ha svolto una moltitudine di impieghi, nessuno dei quali pertinente a suoi studi. Fino alla scoperta della necessità di lavorare, riempire di timbri il passaporto è stata la sua sola ambizione. Ad oggi, vanta con orgoglio di averne già consumato uno. Da adolescente, si diletta a recitare in alcuni teatri di quartiere, ma il divertimento non basta a compensare la vergogna di trovarsi sul palco, e si convince presto a smettere. Il teatro non l’ha mai pianta. Suoi racconti sono apparsi su Atomi (Oblique – retabloid) e Poetarum Silva.