Lettere dall’assenza #7

Cara D.
i treni sono arrivati in anticipo: ho portato a casa i millenni che mi hai confessato, li ho inseriti in ampolle, me ne prendo cura come fossero ossa. Di nuovo tutto è chiaroscuro, le ombre si alzano poco prima di mezzanotte e fanno il verso delle cornacchie, mi traforano l’orecchio, poi si quietano poco prima del sonno, ma il sonno è un artificio.
Da quanto, D., hai detto all’alba: dormire non è il fondo del veleno. Ho risposto muovendo circolare il il mio bicchiere: non ho risposto.
[Distinguere i vermi dalle buche, lumache come giorni che si fingono colline.]
Ci sono i galli i ruscelli le api i greggi i pollai, ci sono cavalli mandrie le rocce le vallate i temporali, ci sono i corvi i topi molluschi meridiani, e non ci sono io e non ci sei tu: siamo cadute di fronte a cancellate, quando le guardie dicevano entrate o non uscirete, e noi ci siamo accasciate, una scusa per stare sulla soglia.
La soglia è un’incisione provvisoria, ci fende e non rinnova l’aperto all’universo: dichiarare che l’esistenza ha un nuovo nome, la stanza: sanguisuga di assoluti.
Mi annodo le gambe, il mattino che prepara ad ogni possibilità – e quante possibilità ci sono in un giorno, D.? Quanti miliardi di Storia sono racchiusi nelle possibilità di una notte? Anche adesso, mentre ti scrivo: non è forse ogni singola parola l’inizio di una direzione diversa, una possibile diramazione? Cancello, tolgo il non che ci nega e si apre un nuovo mondo, una nuova storia, l’ennesima narrazione.
L’infinito mi angoscia le dita. Tu hai tagliato le tue.
L’hai fatto un mese di maggio e tu credevi fosse inverno. Salita sull’albero più grande. Lo chiamavamo i centorami, un macabro ricordo per le centomani che ti avevano presa. Sei salita, ti ho rincorso – ma due roditori non fanno una persona – e hai preso il taglierino: un’amputazione per poter dire “eccomi”.
Sento ancora la colla cadermi dagli occhi: scendere dai rami, scivolare sul terreno, riattaccare il riattaccabile.
[Dentro l’abbaglio esplodono stellate: il perdono è il germogliare degli appesi.]
La carrozza del ritorno si è fermata tre volte, gli inguini appiattiti sui finestrini, facce deformate dal vetro, premute contro il paesaggio del fuori. Ho guardato anch’io, non ho visto niente. Perché quando arrivano i morti, D.: io non vedo niente. Da cadavere guardo i cadaveri e provo solo un senso di comunanza. Lo stupore dell’altro mi frastorna le giunture, mi sgrana gli occhi: dove le pupille degli altri si dilatano davanti al morto, io divento una pupilla di morte, mi apro e mi faccio stretta come un gatto da buio a luce: e ricomincia la lingua accesa, le mille possibilità di un inciampo, uno sfregamento, una virgola che sposta la lancetta delle vite di secondo in secondo.
Ma io ora non ho più nessuno a cui parlare, D. Sono scesa, chinata sul corpo disteso. Dormiva, nessun arresto cardiaco. Le persone ora muovono e rimuovono avanti e indietro gli arti nei corridoi, i corridoi come uteri che inghiottono parole e le rimbombano: la senti anche tu, tutta questa eco, D.?
[Ci brucano le stanze delle pietre: le mura non hanno una materia]
Posare un corpo sulla banchina, un bianco morso a pezzi per addormentarlo, per addomesticarlo come tu sai fare: addomestichi le scimmie, le vite, le pratiche di uscita, addomestichi i tramonti per poter dire “è tardi, levate le tende, è ora di andare”.
Me ne sono andata prima che potessi farlo. Potrò mai – mi hai chiesto ridendo – costruire una pelle innaffiando le ossa? Le mie risposte non sono le tue: qui non piove, l’acqua sta finendo, le bocche spalancate non hanno più denti per mangiare.
Non rispondermi, non farlo ancora. Se puoi: non ascoltarmi nemmeno.
S.