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Io sottoscritto Parmigiano racconto e rinvengo il mio operato

(oppure I dieci mesi nelle due grotte non per vacanza bensì resistenza)

Foto di Claudio Varsalona

di Alessandro Tesetti

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Le gesta partigiane non possono essere raccontate perché tanti partigiani sono morti e i sopravvissuti non si ricordano di un cazzo.

Cristi polverizzati, Luigi Di Ruscio

Amleto ci ha detto che ci avrebbe portato da mangiare l’arrosto, ma quando è tornato solo le munizioni ci ha portato, nascoste su per l’orifizio alcune, e delle altre non ce lo ha voluto dire, ma in fondo erano poche, anche se non pochissime, e non ci si capiva dove avrebbe potuto nasconderle, lui si vantava dicendo che chi c’ha fantasia c’ha virtù, ma questo non nega che per sopravvivere da queste parti di questi tempi mica possiamo continuare a lanciare sassi, fingerci tronchi o sassi per sorprendere i ciucci e soffocarli col laccio delle scarpe o con gli spigoli dei vetri di lago smerigliati.

Non viene fermato perché invalido di guerra, è tornato a casa mutilo e orbo, ma con un figlio riconosciuto e una donna, che da buon comunista non definisce né concubina né moglie, semplicemente compagna o consorte, perché di sorte comune dice, spedito in Somalia e subito per rifiuto e scarico di coscienza s’è fatto esplodere una bomba poco distante da lui mentre gli altri erano a rastrellare villaggi distratti e ingordi dai corpi vinti. E per questo lo si vede arrivare in bici col manubrio libero, non tenuto tra le mani, e invece di frenare scende direttamente, e cambia battuta ogni volta, si sfotte da solo, meglio orbo che fascista, meglio senza un braccio che tedesco.

L’arrosto non l’ha portato neanche stavolta, le cariche scarseggiano come gli uomini e il cibo, a non mancare mai stranamente sono le armi, ma che ci fai con le armi se non sparano, che un conto è avere pane ma non si hanno i denti, e un conto è avere un Sten che non spara, sarà che dopo l’8 gli sbandati scappando lasciavano parabelli in giro, tornavano in paese e confessavano: “all’incrocio con, sotto al muschio di, ma tanto si vede, c’ho messo un segno che solo il sottoscritto può riconoscere. Sta bene dove sta”.

*

Il 9 settembre noi eravamo già operativi anche se, almeno io, non sapevo bene con chi pigliarmela, sono stati Remo e Bianci a sciogliere i dubbi, perché con l’armistizio è arrivato il bombardamento su Frascati da parte degli americani, e migliaia di morti hanno fatto per colpire uno solo, quindi un po’ di incertezza dei buoni della storia, della parte giusta della storia. I comunisti di Genzano finalmente usciti alla luce del sole sono andati a scavare tra le macerie e soccorrere i feriti. Già la notte dell’8 uno scontro armato a Villa Doria tra nazisti e la divisione italiana che copriva la zona, in supporto dei nazisti c’erano anche fascisti locali che di armistizio non ne volevano sapere, e alcuni di noi invece dalla parte degli italiani, seppure fascisti fino al giorno prima. Insomma, un fratricidio incomprensibile. Sergio detto Porchetta è stato preso, io e Remo siamo riusciti a scappare nella villa pontificia.

*

E quando le prime bande si formavano e partivano su in collina che qui di altipiani non ce ne sono e in pianura non si può mica combattere, si sentono storie delle lotte urbane mosse dai GAP, di quelle anfibie lungo il fiume Po, ma qui né altipiani né fiumi, e la città dista una trentina di chilometri, dove andavamo se non in collina, la prima volta a salire di armi si incontravano quante ne volevi, e per questo qua sopra ci sono più strumenti che umani.

Pur vero che chi ha già combattuto, in esercito istituzionale fascista, raramente si vendica combattendo di nuovo, preferiscono nascondersi in umide cantine, trenta centimetri di muro, senza mai uscire, fingendosi spariti nel nulla. Qualcuno sì, per passione della guerra o per abitudine alla compagnia d’armi, al posto di tornare a casa con la mogliera matriarca che a furia di sentire il duce gli somiglia, che una volta quando si chiedeva di lei, chiedendo cosa facesse durante la giornata, l’interlocutore ti rispondeva “eh, cuce” oppure “eh, munge” oppure “eh, asperge asparagi”. Ecco perché siamo giovani o celibi o comunisti o intellettuali o morti di fame o renitenti o guerrafondai o sfiziosi, o come me per puro caso e curiosità.

Un padre che manca, migrato all’America e neanche una lettera spedisce, neanche con la crisi del ‘29 è tornato come molti hanno fatto, una madre rintronata dai figli dispersi o assassini perché arruolati, sopravvissuti ma morti, io senza lavoro a subire la faccia pietosa di lei, senza moglie che tutte rintanate sono, una terra che non frutta, una malinconia dappertutto, e allora meglio salire e cercare di far qualcosa, istruirsi grazie a Remo e Bianci, che loro a differenza mia hanno lasciato famiglia e cattedra.

Poi c’è 22 invalido di mente, un matto vero, non capisce neanche cosa voglia dire uccidere, ci chiede perché quando spara l’altro non respira più, ci chiede pure perché non respirare significa morire, lui che non respira mai “non serve, vedete, io mica lo faccio” dice. Gli si era detto per ischerzo se voleva venire con noi, che ci servivano uomini dal sangue freddo o matti che sappiano sparare, e lui serissimo ha detto “come no, non so sparare ma la coccia mi funziona buona”, strano che il regime non ancora l’aveva deportato, durante le riunioni ride o provoca “cosa serve parlare andiamo a punire” e ride. Passa le giornate con le mani a pettine a togliersi i pidocchi o spulciarsi altro, è un po’ onanista commenta Remo.

*

Una vita a desiderare di uccidere con l’educazione ricevuta, la formazione fascista radicata e contaminata nel sangue, poi certo, rifiutarla e farsi altro, ma sempre allo stesso modo siamo fatti, sempre sbagliati saremo, passati tutti per Cristo e Mussolini, balilla e sabato fascisti, libri di scuola che inneggiano e macchiano il cervello. Nati nel ‘22, generazione disgraziata, la marcia ha generato una procreazione italica infetta, crescendo nell’unica indivisibile unione partitica che ammette unica e indivisibile visione delle cose.

Di questo si ragionava durante la cena a base di puntarelle e nient’altro, tornato mo’ mo’ e mi è preso lo sghiribizzo di scrivere non per potere di testimone, come fa invece Bianci, scrivo perché fin quando esistono i testimoni esiste pure la testimonianza, dice, quando spariscono i testimoni sparisce pure la testimonianza. Io scrivo perché non ho niente da fare, non una donna a cui scrivere, se non mia madre, ma a lei le epistole son corte, non molto da dire, mi strappo a forza un mi mancate tutti, anche se non è vero, non è il tempo della nostalgia, anche quando non c’è nulla da fare, come questi giorni di attesa delle munizioni, dove ce ne restiamo con le mani in mano, vicine alla bocca per scaldarsi soffiandoci su, giorni di minzioni e biscate, a fumare una sigaretta dopo l’altra, sigarette americane o tedesche sia chiaro, che noi soldi allo stato mica glieli diamo, Luciano detto Bianci ce lo ha detto, ma ci avete mai pensato che il tabacco che vi fumate è tassato, e le tasse di chi sono? Dello Stato sono, più fumate e più lo arricchite, e allora abbiamo smesso tutti di fumare, con i crampi allo stomaco, l’ansia da astinenza, la tremarella, e si va a fare colpi solo per rubare sigarette alle carogne, tutti che le nascondono per bene, chi nel tascapane, chi sotto le palle.

Uno schifo le sigarette tedesche, eppure le fumiamo con gusto perché se le fumiamo è perché abbiamo colpito, c’era sempre chi mirava dall’altra parte, una gran foga a sparare in quattro ma nessuno di loro crepava, o mira scarsa, o ciecanza, o desiderio di mancare tutti, quindi quelli scappavano o alzavano bandiera bianca. In tutte le nostre azioni solo due sono morti, uno di crepacuore perché quando siamo andati a vedere non c’era nessun foro di proiettile, e l’altro per errore, un colpo dritto in testa, impossibile che uno di noi abbia preso di mira proprio la testa, pulito e preciso, impossibile.

Fortuna che poi è arrivato 22, spara a casaccio con una posa sgraziata, ne riesce a colpire almeno la metà, e quando scappano li lascia scappare, Remo e Bianci non commentano quindi neanch’io commento. Quelli che si fingono morti li prendiamo per scambi o utilizzarli nei lavori che pochi ce ne sono, perché a cucinare non sanno cucinare, a scavare non c’è nulla da scavare, le staffette mica le possono fare e allora chiedono stesso loro di fare qualcosa, ci chiedono di essere più esigenti e padroni, ma noi siamo diventati comunisti proprio perché non vogliamo più nessun esigente e padrone, allora si annoiano e fanno i matti, a scappare non possono scappare perché li leghiamo, provano ad uccidersi coi rami, coi mestoli, con le carte da gioco si tagliano la gola. Capita che diventiamo amici per noia comune, li prendiamo e li portiamo qua bendati in attesa di uno scambio, ma i nostri non si vedono in giro, non fanno attacchi per paura di rappresaglie, quindi di scambi non ce ne sono e quando ci stanchiamo di loro o li vediamo sfranti li lasciamo andare, bendati.

Quando poi gli anglo-americani hanno iniziato a paracadutare giù cose siamo arrivati ad un accordo coi badogliani e coi monarchici: noi niente vogliamo da loro, solo sigarette, neanche i viveri ci interessano, solo sigarette. Prima volevano fucilarci perché comunisti, oltre che comunisti pure non dichiarati, cioè non comunicata la nostra presenza lì, pensando che non c’era da comunicare proprio niente, uno sale quando desidera salire cercando di far qualcosa per la causa e il bene comune, mica per prestigio o gloria. Poi abbiamo giocato a calcio, loro arrivavano a dieci, noi a cinque compreso il tedesco, ma abbiamo vinto lo stesso, col tedesco legato all’albero ad uso di porta, quindi fermo, e gli avversari lo colpivano non si capiva se volendo (senza fare gol) o propri scarsi che solo lì tiravano e lo colpivano e non facendo gol. Amleto e Clorinda quel giorno non c’erano e sono loro a fare su e giù per le colline ogni quindici giorni circa per rifornirci di Lucky strike.

Abbiamo discusso su questa rete d’informazione che vogliono loro, di coordinazione e azioni comunicate in anticipo, ma non hanno capito che noi non operiamo così, anche avendo i mezzi, noi non operiamo così. E allora mai vincerete questa guerra, ci accusavano irati con le dita sui grilletti, noi da buon comunisti, lucidi e vigili, abbiamo capito che era inutile stare lì a battibeccare, accusarci a vicenda, ce ne siamo andati sapendo che noi non volevamo vincere nessuna guerra, ci stavamo solo esercitando alla rivoluzione futura, e di bande come noi in tutta Italia ne esistevano molteplici, senza essere conosciute perché senza desiderio di riconoscimento, al momento della rossa primavera convergeremo tutti assieme, coordinati e compatti.

*

Bombardano ogni mese, sempre loro, gli americani. Più che incursioni facciamo soccorsi mischiandoci tra gli sfollati, solo una pistola nascosta nel calzino, mossa per niente astuta anzi pericolosissima perché nessuno porta calzini con la miseria che c’è ma i tedeschi quando fanno perquisie si fermano ai fianchi e non gli salta in mente che una pistola possa entrare in un calzino. Possiamo dire che vinceremo questa guerra per la loro ignoranza. Bombardano le reti ferroviarie, le stazioni, ponti, strade, ma avendo questi obiettivi finiscono per colpire anche il resto del paese, buttando giù case e municipi e chiese, che sono fonte di ricchezza futura per lo stato proletariato, commenta Remo, quindi gli americani per darci il presente ci tolgono un po’ di futuro, ma son certo già che quando il futuro arriverà con la scusa che ci hanno liberato chissà cosa vorranno da noi, nessuno fa le cose tanto per, gratuitamente, o spirito missionario, anzi diffidare proprio da questi. Per questo dovremmo liberarci da soli, ma scapestrati come siamo, come facciamo come facciamo.

Non capisco bene a cosa si riferisce, cosa c’entrano le chiese, ad una certa rivoluzione non ben approfondita, capita che la complicità di Remo e Bianci mi dia sui nervi, sanno già tutto e si compiacciono di fare i riferimenti che l’altro sa, nel momento che c’è da insegnare a me e a 22 si fanno schivi e mezzi schifati, se chiedo mi indicano un libro o devo aspettare il momento di assemblea ma si parla d’altro o non si parla affatto, le solite definizioni, le solite parole che dicono il contrario della norma o del pensiero comune, che lì per lì resto a bocca aperta poi nell’intima riflessione o non ricordo niente o le trascrivo qui o non capisco cosa vogliono dire. Ho il sospetto che nutrirsi di queste parole non ci si nutrisca affatto, che almeno la retorica del duce è comprensibile ed è facile da imparare perché va toccare qualcosa che tutti sanno, ce l’abbiamo nel sangue, scorre fra le genti, non cambia le coscienze ma le calma, non agita ma rassicura. Che forse il problema dell’educazione comunista è la sua ambizione, deve saper ribaltare o ricostruire le coscienze, e non bastano assemblee, il partigianato. Serve… non so cosa serve.

*

Clorinda per passare i posti di blocco non indossa mai calzature, le vesti lacerate mostrano tre quattro strati di pelle generati dalla sporcizia, non si lava da quando è iniziata la guerra per mostrarsi zozza e nullatenente, pure per non farsi prendere dal tenente di turno, è chiaro, che questi se ne approfittano prima a smancerie e poi a mercanzie e poi a violenze carnali. Lei invece rischia il congelamento ma evita guai più grossi, quante maternità inedite e senza mariti si sentono per i Castelli! E mica perché c’è un delirio generale di libido, è perché questi arrivano e si sfamano, come un comune banchetto si servono imbavagliando, stendendo sul tavolo della cucina il pasto più caldo della giornata.

Io ora non voglio idealizzare Clorinda, essendo l’unica donna che vedo da mesi, rischiando di divenire l’eroina che ci salva tutti i giorni, a noi che siamo nelle sue incrostate e gelide mani, di divenire modello di tutti gli ideali dei partecipanti al tipo di attività che stiamo facendo, di lotta armata e resistenza. Clorinda la ciclista, Clorinda la staffetta, Clorinda la due polmoni grossi così, Clorinda la zozza, Clorinda la dea, Clorinda la trotzkista, Clorinda madre di tutte le donne, Clorinda il cui nome nessuno conosce, Clorinda la convertita, Clorinda la guerriera. In quanto Clorinda tutto questo, in quanto Clorinda più astratta che reale, che quando le chiediamo di fermarsi raramente si ferma, Clorinda rischia di spersonalizzarsi e diventare bandiera o ideale. Clorinda selvaggia che per queste colline pare essere più viva nel mondo vegetale che in quello cittadino ma poi quando apre bocca si sente tutta la sua preparazione politica: portatrice di tutte le speranze delle donne, autonome e riscattatrici, lavoratrici e istruite, votanti e cittadine.

Clorinda che gira con una Luger nella seconda giarrettiera, la prima un po’ più bassa per mostrare quello che c’è da mostrare, e la seconda più riparata per nascondere la pistola, e qui viene dimostrata tutta l’ignoranza ariana, altro che razza superiore, e la servitù maschile alla donna, che vedono una coscia scoperta e dimentico il proprio ruolo e nemmeno si chiedono com’è possibile che una contadina così lercia possa però indossare una giarrettiera nera in pizzo. Noi ce lo chiediamo perché intellettuali che studiano, tagliuzzano e pongono quesiti.

Clorinda che coi soldi risparmiati da sudori in fabbrica s’è comprata una bici e due giarrettiere, acquistate da una meretrice al bordello, rosse gliele voleva vendere, ma Clorinda l’ha volute nere, ragionando lì per lì se anche la libido ragioni per colori politici, s’è data due risposte e poi s’è detta meglio non rischiare, dammele nere. Una fortuna per due giarrettiere così, l’unica donna che s’è vista entrare in un bordello, i fascisti l’hanno presa per una di loro e già stavano con la patta aperta, lei è diventata comunista anche per trovare in futuro, dopo la guerra, l’uomo coi valori di comunista, non frequentatore di bordelli, non con la faccia inebetita, non con la patta abbassata quando vedono una donna.

Già che c’era ha rubato la pistola mentre il soldato pallido e biondo sbatacchiava e borbottava, è entrata nella stanza, giubba e calzoni gettati sulla sedia, la pistola ben in vista nella fondina, presa e infilata insieme a munizioni nella giarrettiera, la meretrice se n’è accorta e per solidarietà ha lasciato fare, forse per espiazione al suo andare coi tedeschi, che quando Clorinda ha chiesto di unirsi, o di far qualcosa, rubare altre munizioni, passargli malattie veneree, quella non ne ha voluto sapere, e poi io le veneree mica le ho come dici tu. Hai già un nome di battaglia, le diceva Clorinda, macché nome di battaglia e battaglia, di tolleranza, era quel dolce e irrevocabile tempo quando a scuola studiai le poesie di quel conte marchigiano. Clorinda non ribatté e se ne tornò a casa.

Comunque quella volta del furto ci fu qualche complicanza, il tedesco non poteva crederci di averla perduta la pistola, però strano che gli fosse stata rubata, giurava di averla con sé prima di recarsi al bordello, convinto di questo perché poco prima l’arma gli era servita per minacciare il contadino e proprio dai suoi dinieghi s’era recato al bordello, avrebbe potuto ucciderlo e combinare lo stesso quello che aveva intenzione di fare ma s’è recato da Aspasia che quando si presentava col colpo in canna neanche i soldi gli servivano per procedere, quindi non trovava la pistola e ha rivoltato la stanza e minacciava Aspasia strozzandola dicendole che le aveva rubato la pistola, ma come ho fatto io a rubarti la pistola se eri dentro di me, le ha detto lei, e lui non ci credeva e stringeva con la mano più forte, e allora è stato qualcun altro, qualcun altro chi? che non è entrato nessuno lo sai che la porta si chiude a chiave per non avere guardoni, e lui non ci credeva ancora ma le ha tolto la mano dalla gola e s’è sistemato i calzoni che ancora nudo stava. Non poteva mica passare per fesso, quello che s’è fatto rubare una pistola da una puttana. Perciò non ha detto niente a nessuno, anche perché in simili casi, quando viene rubata un’arma, si passa al rastrellamento, e non potevano mica rastrellare la casa di tolleranza, come facevano poi?

 *

Il 19 febbraio avviene un fatto simile in contrada Patrolungo assai distante da dove siamo noi, residenti un po’ nelle grotte di Barco Colonna e un po’ in quelle di Palazzolo, per depistare il fiuto. Grotte che ci salvano dai continui bombardamenti, attendiamo il momento senza nessuna notizia o ingaggio, neanche di radio disponiamo, il giornale pieno di fesserie arriva ogni quindici giorni, Amleto è diventato padre un’altra volta, Clorinda è sempre più magra e negra. Più difficile pure fare i soccorsi perché tutti si ricoverano nella villa pontificia, considerata immune e in paese non resta più nessuno. Difficile arrivare a Velletri o Lariano o Latina o Genzano o Lanuvio, paesi lontani da dove siamo noi, muovendoci a piedi per sentieri disastrati con le continue bombe che piovono giù e nessun riparo.

Neanche gli altri fanno niente, hanno rapporti costanti con gli americani, dicono di aspettare che presto arrivano, di non fare nulla, che andrebbero a complicare anche il loro movimento, che continuano a lanciare viveri e beni non solo per le bande ma per gli sfollati tutti. Prendiamo un po’ di speranza quando sentiamo dalle labbra di Clorinda che gli americani si preoccupano delle nostre azioni, significa che un impatto ce l’hanno. Pur vero che loro attaccano per tagliare collegamenti e rifornimenti, quindi isolarli, e noi per mietere e diminuirli di numero e scoraggiarli un po’. Sempre quel che riesce a fare il solo 22, noi più che altro a fare numero. Remo e Bianci entrano in discussione ogni giorno, rimuginano su cosa è giusto o non giusto fare, non è un fatto cristiano ma etico, io non uccido perché ripudio la violenza ma si dà il caso che in caso eccezionale come può esserlo questo la violenza è necessaria ed io dovrei uccidere… Quando Remo si convince di questo Bianci lo recrimina, quando si convince Bianci è Remo a farlo. Tutte puttanate dice 22, io invece non so che dire e non dico.

Comunque, in contrada Patrolungo un tedesco voleva abusare la moglie di un contadino ma lui ha preso la baionetta e l’ha sgozzato, alcuni raccontano la falce, altri il martello, ma noi lontani da agiografie riportiamo il fatto e non il mito, dice Remo, e poi basta con questi martiri, neanche vittime perché vittimistico, sono morti ammazzati, e poi fa tutto un discorso sul peso sulle parole, l’importanza delle parole, specie presso i posteri, ed i posteri sono importanti, per non far risuccedere quello che ci è successo a noi. Quando hanno trovato il tedesco morto hanno preso ventidue persone, legate, disposte al bordo di un fosso, e poi sparato uno per far precipitare tutti, all’interno del fosso hanno buttato un paio di bombe, sparato ancora. Neanche fare dei fatti un fatto macabro, neanche dare della carneficina una romantica e agonizzante descrizione (Remo).

*

Marzo e aprile passano tranquilli, gli americani sono a Cassino, si concentrano su quella linea, detta Gustav, e non pensano più ai Castelli. Altri sono ad Anzio, e pensano a convergere entro l’estate a Roma. Ci sentiamo finalmente protagonisti della lotta, con i nostri sabotaggi delle linee telefoniche, trivellamento di macchine tedesche abbandonate, omicidi dei portaordini da parte del sicario 22, una volta una mina lungo la via che porta ad Anzio ma inesplosa, gridato in giro per il paese che il paese era stato liberato dai partigiani anche se non era vero. Si è appena aggiunto un sedicenne, sceglie il nome di Mostarda, porta una ventata d’aria fresca, un po’ estatico e agitato, vuol fare vuol fare ma non sappiamo ancora cosa cazzo fare, lo teniamo a bada, rischia di farsi ammazzare.

A maggio riprendono i bombardamenti, noi nelle stesse due grotte, cambiarle ogni settimana è di nuovo l’unico motivo di stiracchiamento, Mostarda si annoia e ci insulta dandoci dei pigri pavidi, sceglie la lotta partigiana solitaria, non abbiamo fatto niente per non lasciarlo andar via e più nulla sapremo di lui. Quando sono i tedeschi a far saltare i primi ponti come quello di Ariccia famoso per i suicidi, di tutti i ranghi e tutti i colori, che io pure una volta stavo lì con un piede sospeso, capiamo che gli americani sono ormai arrivati. Non siamo poi così felici, possiamo tornare a casa e ma negli sguardi di Remo e Bianci c’è rassegnazione e timore, cosa vorranno da noi, sarà diverso ma sarà lo stesso.

La preoccupazione mia è che di tutta questa esperienza non resterà niente, di tutta questa formazione partigiana un cumulo di polvere, non perché uno dimentica, ma perché la sedimentazione dello studio è cosa altra, lo studio deve mettere radici e le radici vanno idratate, io mi sento già secco e senza nuovi risorgimenti, e non ci saranno più Remo o Bianci a dirmi cosa dire, che pensare.

Dovrò andargli a bussare al portone di casa, ogni volta chiedendo istruzioni per l’uso, se il tempo della rossa primavera è venuto, chi votare alle prossime elezioni, se votare soprattutto, se posso o meno recarmi al bordello, se posso cercare Clorinda e prenderla che una certa voglia m’è rimasta, o la moglie di Amleto perché somala e quindi vogliosa, che neanche sposati sono, che cosa sono i valori professati se l’istinto comanda o il “discorso dominante” che non so cosa sia, che cos’è l’istinto e perché entra in conflitto col pensiero politico, che fine avete fatto voi, presenti solo nell’emergenza, se era giusto starsene lì, che siamo stati peggio dei fascisti, che la nostra presenza in grotta è stata vana perché sintomo di vanità, che mi vien voglia certe volte di riprendere lo Sten e andare ad ammazzare le bande blu che dalla partita a calcio ho il sangue amaro.

Mi pare che del mio formarmi, istruirmi, politicizzarmi come dicevano loro, non sia rimasto niente e di tante parole che adesso rileggo nemmeno so il significato ma le ricordo così come loro le pronunciavano. Non è che queste pagine le hanno scritte loro, Remo e Bianci?

Alessandro Tesetti è nato nel 2000 a Cassino, vive a Roma dove ultima il percorso di Filologia Moderna. Ha pubblicato su Nazione Indiana, Pastrengo, Il primo amore, STC; per quest’ultima è editor. Nel 2024 ha vinto il Premio Spazio Letterario.

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