Nebbia di guerra

di Chiara Cassaghi
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Quella foschia, bassa e fitta, era di quelle che alzavano i fantasmi su dalla terra dei campi.
Come ogni mattina da sei mesi, Rosa aspettava che emergesse dalla nebbia il ricordo di uno dei suoi fratelli. Ne trovava sempre almeno uno, che fosse quando usciva dalla sua cascina in riva al Lambro per girare i campi, o in questo caso, quando prendeva la strada che portava in centro.
Certe volte, camminava Anna al suo fianco in silenzio, raccogliendo fiori che sarebbero spuntati dalla neve a primavera. La sua sorella maggiore, all’alba della guerra, quando venivano affisse lunghe liste dei ragazzi che cadevano in Grecia, era stata sopraffatta da un’infezione ai polmoni.
Di solito il fantasma di Enrico era più loquace. Era quella voce in fondo ai suoi pensieri che le chiedeva cosa diavolo stesse facendo. Dove stai andando? Sei sicura di te? Non vorrai mica finire nel buco insieme a me?Lui non era mai stato un ragazzo prudente, anzi. Chissà se con gli anni sarebbe diventato davvero la voce della ragione. Dalla Russia era tornata una bara vuota.
Quella mattina, tuttavia, Rosa camminava da sola sul sentiero di fango.
Finora non le erano apparsi Tommaso e Giulio. Chissà dov’erano finiti, da settembre nessuno aveva notizie. L’esercito si era sciolto ed entrambi erano spariti nel nulla. Da allora, quando arrivavano notizie di ragazzi presi e ammazzati, Rosa si faceva prestare la bicicletta dalla zia e correva su e giù per le città della pianura. Cercava sembianze dei fratelli nei volti dei fucilati, nei corpi impiccati, nei seviziati che zoppicavano fuori da San Vittore o da Villa Reale.
Quei volti che già non erano più umani. Maschere di cera grigia, disfatte dall’orrore, dagli occhi ancora chiari di una vita troncata. A volte una cornacchia si riposava su un torace nero di sangue, girando la testa alla ricerca di un verme per colazione, inconsapevole dei fatti.
Ogni passo che l’avvicinava alla sede del comune le ricordava che magari la prossima preda sarebbe stata lei. Ogni faccia cupa che incontrava per strada allungava la fila di bestie destinate al macello. Pochi giorni prima, era saltato un carro tedesco diretto a Bergamo, nelle vicinanze del ponte. Qualcuno avrebbe pagato. Forse la signora anziana che andava in chiesa, china sul bastone. Forse quel ragazzo di quattordici anni che portava il latte su per le scale.
Il peso soffocante degli sguardi circostanti non era sbocciato dal nulla a settembre, era più anziano. Però qualcosa nel clima era cambiato. La scomparsa dei fratelli le aveva aperto gli occhi su una realtà solitaria. Sola in casa, nell’impossibilità di ripararsi dietro a due ragazzi più grandi, che di certo sapevano tutto meglio di lei. Sola in città dove una parola di traverso, un rifiuto troppo freddo, una scappata verso angoli isolati, un’associazione insolita, potevano finire con due uniformi che bussavano alla porta di casa. A messa, scambiando auguri e saluti, si stringeva la mano a vicini e delatori, nell’ignoranza totale della differenza fra i due.
Lasciandosi dietro i fantasmi della foschia e i macabri spaventapasseri delle rappresaglie, Rosa fece un passo avanti verso un mondo di tutt’altri mostri. La villa municipale costituiva ormai una delle teste del commando tedesco in città.
Quando incrociava uniformi, Rosa teneva lo sguardo fisso verso il pavimento. Era stata sua madre a dirle che la mente si ricorda dei volti di chi ci guarda negli occhi. In giro, di ragazze come lei ce n’erano tante, dalle guance arrossite dal vento, dai capelli nascosti sotto uno scialle per ripararsi dall’inverno. Di ragazze che venivano chiamate in urgenza dal segretario comunale Beretta… molto meno.
“Entri, entri. Chiuda bene la porta.”
Rosa fece appena in tempo a entrare nell’ufficio, prima che un guanto di pelle nera le apparisse davanti agli occhi, bloccando la chiusura della porta.
Puntò subito lo sguardo verso il basso. Vide solo passare tre paia di stivali dal passo marziale.
“Tenente, non l’aspettavo così presto!”
Rosa si riparò nell’angolo della stanza accanto alla libreria, con la speranza di potersi confondere con i mobili. Sarebbe stato più saggio scappare e tornare quando gli ufficiali avrebbero finito il loro intervento, però c’era un ostacolo fra lei e la porta. Due soldati tedeschi. Se si fosse mossa, stavolta non avrebbe salvato il suo anonimato. Meglio rimanere rigida e zitta… e pregare che nessuno dei tre ufficiali avesse l’occhio per le contadine fuori posto.
“Non sono venuto per gli aggiornamenti, Dottore. È arrivata la segnalazione di una riunione clandestina la notte scorsa alla Cascina Del Bosco, il comandante ne richiede l’ubicazione.”
Ed infatti, uno dei due ufficiali abbaiò frettolosamente un ordine in tedesco.
Beretta aggrottò la fronte.
“La Cascina Del Bosco?” ripeté. “Ma, tenente… Mi dispiace, non abbiamo nessuna Cascina Del Bosco nel nostro comune.”
Per un attimo, il tenente della GNR rimase in silenzio. Si girò verso i tedeschi, per tradurre l’informazione con voce cauta. Non era di zona. Chiunque fosse cresciuto andando in giro per i campi là intorno non avrebbe mai fatto quella domanda.
Però, Rosa tenne la bocca ben chiusa.
Lo scambio di sguardi fra gli ufficiali gelò la piccola stanza.
“Dottore.” il tono si fece molto meno formale. “La Cascina Del Bosco. Dove sta?”
Il volto del segretario non si scompose neanche un po’. Beretta era un uomo discreto, che andava d’accordo con i borghesi del centro e gli operai di periferia, con i ragionevoli e gli ubriachi, i bellicosi e i taciturni. Di lui si parlava tanto e si diceva poco. Rosa lo ricordava come una lontana conoscenza di famiglia, classe ’93 come uno dei fratelli di suo padre —uno era stato aldilà della terza elementare, l’altro no, però i loro cammini si erano ricongiunti sulle vette del Carso. Tommaso, se ancora vivo, sarebbe l’unico ad averne memoria di prima persona. Raccontava che a portare la bara dello zio Antonio fuori dalla chiesa nel ‘20, c’era proprio il Beretta.
“Tenente”, il segretario non abbassò lo sguardo. “La Cascina Del Bosco non esiste.”
Rosa si accostò più vicino ancora al muro, cercando di sparire dentro la pietra.
Il tenente non sembrò molto soddisfatto da quella risposta. Lanciò uno sguardo ai tedeschi alle sue spalle, senza tradurre.
Il labbro del comandante si mosse, una smorfia spazientita su una faccia già inflessibile.
In un lampo, la sua mano volò verso la pistola al suo fianco. Rosa fece appena in tempo a sobbalzare e chiudere gli occhi.
Se avesse alzato la testa, senza dubbi avrebbe fissato la canna dell’arma. Sentiva un odore di olio bruciato. Il metallo freddo le colpì la guancia e le arrivò all’orecchio il suono di una lingua che non conosceva.
“Dove sta la Cascina Del Bosco?”, le stava chiedendo qualcuno, senza la premura dovuta al segretario comunale.
Rosa tremò.
Negli ultimi mesi, andando su e giù per vari comuni, a vedere se fra i morti nelle scaramucce locali trovava un fratello, Rosa aveva scoperto cosa succedeva quando una pallottola di piombo incontrava la carne. E pur essendo stata a più funerali che matrimoni, non le era spesso venuto il pensiero della propria morte.
Forse per questo non le erano apparsi i fantasmi nella foschia. Dio aveva scritto questa giornata di febbraio con già in mente questo finale.
“Non c’è una cascina che si chiama Del Bosco”, riuscì a dire lo stesso
Il morso del metallo si fece più insistente.
Rosa aspettava solo lo sparo.
“Lasci stare quella ragazzina, Comandante”, intervenne Beretta con la stessa calma di prima. “Anzi, mi afferri uno di quei libroni sullo scaffale. Con i documenti del censo, ci sono le mappe catastali, prenda quella più recente.”
La pistola le rimase in faccia, facendo accelerare ancora la mitraglia del suo cuore in petto.
Il tenente, sospettoso, seguì le istruzioni del segretario, prendendo uno dei registri e aprendolo sulla scrivania di fronte a tutti.
Rosa tremava ancora con ogni gesto lento del dito che seguiva la traccia dei sentieri.
Sulla mappa, le cascine dovevano essere ben sette. A sud e a est, le più grosse, la Sant’Orsola e la Gioia. A nord quelle medie, la Teresina, la Vecchia e la Molina. A ovest quella dei bachi da seta, l’Alfieri. E a sudest, la più piccola, dove vivevano poche famiglie, la San Rocco.
Nessuna Del Bosco.
“I campi confinano con tanti altri comuni”, aggiunse il Beretta. “Magari il suo informatore si riferiva ad una cascina che non sta sul nostro territorio, converrebbe chiedere negli altri municipi.”
Informatore. Quella parola dal sapore amaro correva per la pianura da qualche tempo.
La mappa era formale. Se il tenente della GNR avesse aperto tutti gli altri registri, non avrebbe trovato il nome del luogo ricercato. Neanche le torture del carcere di Monza l’avrebbero fatto apparire. Era del tutto inutile proseguire con questa strategia.
Rosa non capì nessuna delle parole scambiate dai tedeschi, ma nello sguardo avevano una tale fredda determinazione che non tirò neanche un sospiro di sollievo quando la pistola le fu levata dalla faccia.
Il sollievo non apparve neanche quando i tre uomini lasciarono l’ufficio, tempestosi come un cielo di malaugurio, senza neanche un saluto. Ordini furono lanciati, udibili anche dietro alla porta richiusa.
La calma del Beretta sparì. L’uomo si teneva ormai davanti a Rosa, pietrificato e sbianchito come se avesse visto il diavolo in persona.
Quel rigido silenzio che avvolse l’ufficio aveva qualcosa di irrequieto. Come l’orizzonte boscoso prima che scoppiassero gli spari dei cacciatori.
Rosa trovò finalmente la forza di staccarsi dal muro.
“Perché mi ha chiamata, signor segretario?”, chiese
“Sì… Giusto… L’ho fatta venire.”
L’aria distratta del Beretta dava brividi.
“Il Chirico, non so se si ricorda di lui, quello che lavora all’ufficio di leva di Monza.”
La resto della frase svanì nel nulla.
Rosa alzò le sopracciglia, aspettando dettagli.
“Monza. Ecco, deve andare a Monza. È entrato in possesso di una lettera con notizie di un suo fratello, però la deve riporre al suo posto entro stasera se vuole evitare guai seri. Gliela può tenere da parte per alcune ore, ci deve andare adesso.”
Rosa si trovò con il cuore in gola. Avrebbe voluto chiedere di quale fratello si aveva notizie, ma che importanza? Era pur sempre una risposta.
Tuttavia, lo sguardo del segretario Beretta era ancora fisso sulla porta. La sua mente era altrove, le questioni che riguardavano Rosa erano diventate secondarie e lei poteva solo provare ad indovinare quale ragionamento lo facesse impallidire a tal punto.
“Ora andranno a rastrellare per tutte le cascine”, capì. “E alla fine, qualcuno che ci tiene un po’ di più alla vita gli dirà che la cascina del bosco è la San Rocco.”
Lo sguardo di Beretta le cadde finalmente addosso, con prudenza.
“E suppongo che se qualcuno non corre subito alla San Rocco, domani si parlerà di una strage.”
In sei mesi, nel comune non era ancora stato ammazzato nessuno. Arresti di famiglie di sbandati, di sospettati dissidenti, di operai rumorosi, tanti. Ma morti ancora nessuno.
Lei era sempre spettatrice. Arrivava sul posto quando i fatti erano già accaduti. Cosa ci fosse alla San Rocco, Rosa non se lo immaginava, però ci vivevano alcuni dei suoi coetanei, conoscenti… Come si abita nei teatri di tragedia?
“Signor segretario, tutti i corridoi fino al piazzale sono pieni zeppi di militari”, insistette. “Se appena interrogato vedono un funzionario comunale svignarsela verso i campi ad infangarsi le scarpe, faranno i calcoli.”
Mentre lei, dai campi era venuta e ci doveva pur tornare.
“Rosa, lei deve andare a Monza. Ha solo poche ore.”
“Questo lo sappiamo solo io e lei. Tanto mi serve la bicicletta se voglio arrivarci, è solo una piccola deviazione.”
Dopo un altro secondo di incertezza, i tratti del segretario si addolcirono.
“Sia prudente.”
Nessuno arrivava mai alla cascina San Rocco per puro caso. Chi non era cresciuto in zona o non ci aveva lavorato per tanti anni, spesso non ne veniva neanche a conoscenza. Sarebbe stato un luogo mitico se la realtà non fosse molto più scialba.
Per prima cosa, stava a casa di Dio. Per raggiungerla, bisognava attraversare per il lungo i campi di proprietà molto più estese, quasi fino ai confini del comune. Era un’odissea nel cuore di un mondo contadino che inquietava anche chi andava in giro con il mitra.
L’unico sentiero che ci portava seguiva un fosso di irrigazione. In apparenza era solo diretto verso un bosco selvatico. Quella era terra di cacciatori. Però, attraverso la corona di roveri, uno sguardo attento poteva scorgere l’angolo di un tetto di tegole rosse.
Le famiglie che ci lavoravano erano poche, però la prossimità delle loro terre con quelle della cascina Gioia, dove Rosa era cresciuta, aveva creato opportunità di incontri e familiarità in passato. Ed infatti, prima di arrivare all’altezza del sentiero del bosco, Rosa doveva passare davanti a casa sua.
Senza andare troppo di fretta. Un movimento fuori dall’ordinario destava sospetti. Rallentare il passo era necessario per arrivare a destinazione.
La prima cosa che le apparve sbucando fuori dall’angolo della sua cascina, fu la scia di fango lasciata dai furgoni tedeschi. Erano parcheggiati davanti al portone, circondati da un trambusto di contadini.
Rosa si fece piccola dietro al muro di pietra.
Se stavano rastrellando, fra poco avrebbero portato via gente. A caso, magari. Se qualcuno puntava il dito sulle famiglie che avevano figli sbandati, allora i suoi genitori sarebbero stati fra i primi presi di mira. Forse, prima di andare alla San Rocco, doveva passare ad avvisarli del pericolo.
Suo padre, quel taciturno dallo sguardo cupo, veterano di un’altra guerra che gli aveva concesso di tornare col corpo tutto d’un pezzo, ma con la mente infranta. Sua madre, che spegneva fuochi con le carezze e cuciva gli strappi come una pelle nuova. Immaginarli in quelle celle di tortura di cui si parlava a sottovoce da settembre, le apriva un vuoto nel petto, un abisso vertiginoso.
I minuti erano contati.
Afferrando una cesta di biancheria come copertura, come se fosse occupata da una semplice consegna, sgattaiolò verso i campi. Importava solo tenere la testa bassa, non incontrare sguardi, ignorare il rumore dei soldati che gridavano, litigando con contadini scontenti di essere interrotti nel loro lavoro. Tenere il passo rapido, ma discreto.
Ormai Rosa aveva fango fino alle ginocchia.
Ma dopo un po’, il portone arrugginito della San Rocco le apparve davanti.
A prima occhiata, i tedeschi non erano ancora passati. Uomini, donne, ragazzi lavoravano come al solito nel cortile fra stalle, granai e case. La scena era così tipica che, per un momento, Rosa si chiese se il segretario Beretta non si fosse sbagliato.
In tanti si fermarono, fissando l’intrusa alle loro porte.
“Stanno arrivando”, disse, sfiatata
Un particolare spiccava fuori dall’ordinario. I vestiti dei ragazzi. La camicia da contadino e la giacca da cacciatore, con le scarpe e i pantaloni da soldato.
Seduto sui gradini della cappella di San Rocco, ce n’era uno che rimontava pezzi di metallo nero. No. Pezzi di un fucile. Quel viso tondo, da bambino, aveva perso l’aria dispettosa con cui era partito al fronte. Quegli occhi, incrociando quelli di Rosa, divennero uno specchio del suo stesso stupore.
Non fece in tempo a correre ad abbracciare Giulio – da quando era in zona senza farsi vedere a casa? – che le apparve una figura. Lo chiamavano Turin. Il figlio dell’amministratore della San Rocco si era fatto un nome quando, a soli diciassette anni, era finito a San Vittore per attività di propaganda sovversiva fra la Falck e la Breda. Si diceva che dalla sua liberazione ad agosto tenesse un profilo basso.
“Chi sta arrivando?”, chiese, con voce calma e decisa.
“Tedeschi. Qualcuno ha denunciato una riunione ieri sera. Beretta li ha dispersi, stanno facendo il giro per trovare qualcuno che parli.”
Il Turin si girò verso una donna, sua sorella Elena, che Rosa conosceva perché avevano fatto la comunione lo stesso giorno. In quello scambio di sguardi passò una quantità di informazioni e intese. Qualcuno aveva un delatore da scovare.
I gesti seguenti del Turin contennero la stessa carica, silenziosi e diretti. Ragazzi, anche gente che non avrebbe dato nell’occhio, si dispersero per il cortile. Alcuni scattarono verso i granai, dove di sicuro erano nascosti altri.
Giulio si alzò dai gradini della cappella e si precipitò ad afferrare Rosa per mano, trascinandola nella sua corsa verso l’orlo del bosco.
“Ma da quando sei qui?”, gli urlò dietro Rosa
La fuga si fermò al vecchio pozzo. Giulio ne sollevò il coperchio di ferro, provando la solidità della corda.
“E tu? Da quando stai in mezzo alle cose del Beretta?”, ribatté con lo sguardo severo. “Se qualcuno mi prende, sono guai per mamma e papà. Se ti ci metti anche tu, chi rimane a proteggerli? Chi porta soldi in casa? Non ti puoi buttare nella mischia ad occhi chiusi, non si gioca con questa gente sanguinaria.”
Rosa strinse i pugni. Giulio la guardava dall’alto dei suoi soli due anni in più, nato al tramonto di una guerra che ormai pareva una fiaba.
“Ti ricordi lo zio Togn? Quand’ha fatto sciopero, hai mai sentito papà dire e adesso chi darà da mangiare ai figli? No, ha detto quei bastardi hanno ammazzato mio fratello”, disse. “Mi è caduta tra le mani l’opportunità di evitare un altro massacro. Come avrei guardato mamma negli occhi se sapesse che ho lasciato morire i figli di qualcuno? La guerra fa tragedie, non eroi.”
“Furgoni sul sentiero!” gridò qualcuno
Giulio afferrò la corda del pozzo, passando una gamba sopra il muretto. Prese per mano la sorella, un bagliore convinto negli occhi.
“Non restare qui. Se ti trovano, prenderanno anche te.”
Rosa strinse la cesta di biancheria contro il petto. Aveva altre domande, ma tempi crudeli lasciavano poca scelta. Abbracciò rapidamente il fratello e fuggì verso gli alberi.
Il cuore le martellava in gola. I rami le frustavano il viso. Non era mai entrata nel bosco, le dicevano sempre che non poteva, era il posto dei cacciatori. Non conosceva il cammino, seguiva solo la luce del cielo bianco che sovrastava i campi.
Sobbalzò quando sentì una mano afferrare la sua.
Era Elena, la sorella del Turin.
“Giù”, disse, tirando Rosa verso un cespuglio
Nascoste, immobili, con la bocca tappata, tesero l’orecchio verso il suono di motori in avvicinamento.
Voci si alzarono, alcune calme, altre più secche. Rosa sentì un brivido, anticipando uno sparo che non venne mai. Il tempo sembrava dileguarsi, con il solo ritmo del fiato che controllava.
Un cane abbaiò, troppo vicino.
A volte, Rosa si chiedeva se i mastini al guinzaglio dei tenenti della GNR riuscivano a capire il cane spelacchiato che faceva da guardia al pollaio.
Se Dio non aveva scritto una giornata in cui finiva con piombo in testa sul pavimento del comune, magari aveva in mente piuttosto di farla sbranare da un pastore tedesco.
Lanciò un’occhiata a Elena. Nessun timore si leggeva nei suoi occhi neri, solo una grinta di acciaio. Chissà come aveva vissuto gli ultimi sei mesi, che a Rosa erano parsi un continuo strangolamento.
Uno stridio di freni ruppe la quiete.
Elena le tirò il braccio.
“Vieni.”
Scattarono, ma nella direzione opposta alla San Rocco, verso la distesa ghiacciata dei campi.
Sul sentiero, la colonna tedesca tornava indietro, portandosi via chi era stato preso per gli interrogatori. Fra di loro, si riconosceva il Turin.
Il furgoncino si allontanava verso nord e Rosa avrebbe voluto corrergli dietro.
Le sue scarpe sprofondavano nel fango con ogni passo. Presto, la colonna sparì dietro una curva, ingoiata dalla nebbia.
Di certo li stavano portando alla Villa Reale.
Monza… Il Chirico. L’ufficio di leva, la lettera. Il sole era basso, Rosa doveva sbrigarsi se voleva arrivare prima del buio.
Elena però stava già camminando decisa verso il sentiero che portava alla Cascina Gioia. Voltava le spalle al destino di suo fratello o lo rimetteva in mani di fiducia? Giusto, c’era un informatore da stanare. Cosa fosse, nel silenzio, l’indizio che indicava a Rosa che questa missione era pure la sua, ancora non lo sapeva esprimere.
Magari l’unico indizio era la decisione che sentiva in fondo allo stomaco.
La Gioia fremeva ancora dopo la partenza della pattuglia di rastrellamento. Tuttora non era ricaduta la polvere sollevata dalle gomme nemiche.
Quella era casa sua, la sua comunità. C’era qualcosa di devastato, che non era mai apparso così chiaro, che risaliva lontano nel tempo. Rosa lo percepiva finalmente attraverso l’aria torbida.
La GNR e i tedeschi se n’erano andati, ma rimanevano gli sguardi attenti, che scrutavano ogni vicino come se fosse un sospetto. Di chi ci si poteva fidare? Di quello che teneva la zappa stretta in mano, come se fosse un’arma? Di chi spariva appena arrivava qualcuno in uniforme? Del prete che durante la messa chiamava per nome gli adulteri che si erano confessati in segreto?
La promessa di un fucile era eloquente. Chi diceva unisciti a noi sennò… non parlava mica di unione. E quella divisione che corrodeva la Gioia, la zona, il mondo era sinonimo di morte. Era il terreno fertile per il pensiero di chi si lasciava sfuggire il ruolo che ragazze come Rosa e Elena potevano rivestire. Quella divisione era il pericolo più grande. Però, chi di spada ferisce…
Sarebbe stato presuntuoso pensare che il sistema che le sottovalutava le proteggeva completamente dall’essere scoperte. Anzi, se Rosa decidesse di affiancare Elena, il rischio sarebbe di andare veramente incontro al finale tragico.
C’era cibo da portare in tavola. Le mani di una madre da stringere, le parole di un padre da ascoltare. Rosa non aveva mai pensato che si potesse essere confinati in un vocabolario. Ad una come lei, la parola libertànon si insegnava mica.
Sembrava una scelta radicale, quella di credere che nel buio potesse sorgere un solo gesto di concordia, di pura solidarietà, per sconfiggere un veleno che divide.
“Certi giorni saranno incubi, ci saranno scelte difficili da fare, e alla fine magari né tu né io vedremo il frutto di tutti questi sforzi”, disse finalmente Elena. “Dovremo avere pazienza e misura. Come hai detto, qui non si fanno eroi.”
Occhi puntati verso una meta incerta. Era una fede cieca, quella che infuocava tutto il corpo.
Il sole stava tramontando dietro il cielo bianco quando Rosa accostò finalmente la bicicletta all’ufficio di leva di Monza, trovandolo chiuso. Come se l’aspettava. C’erano tante battaglie all’orizzonte, quella doveva accettare di averla persa.
Peccato. C’era da sperare che la notizia riguardasse solo Giulio.
Spinse i pedali, riprendendo il cammino verso casa.
“Signorina Rosa! Signorina!”
Aveva raggiunto un incrocio. Un uomo frenò davanti a lei, porgendole un biglietto.
Aveva sui trent’anni e una costituzione gracile, pallida, di quelle che portano ad una vita in uffici piuttosto che campi, fabbriche o fronti bellici. Ormai non si vedeva spesso nella sua natia Cascina Gioia, il Gaspare Chirico.
“Ho dovuto riporre la lettera, ma le ho copiato l’indirizzo.”
Strappandosi dalla sorpresa, Rosa afferrò il biglietto.
Il nome del posto era in tedesco, una fabbrica magari. Un campo di lavoro.
Allora Tommaso era probabilmente stato arrestato al fronte. Aveva scritto chissà quante volte negli ultimi sei mesi per dire alla famiglia che era vivo, magari chiedendo scarpe nuove per l’inverno, ma nessuna lettera era mai arrivata a casa.
“Venivano intercettate dalla censura militare, continuava a chiedere notizie di suo fratello, che per l’esercito risulta ricercato. Se gli scrivete, non accennate a questo.”
Non era fede cieca. Era un ideale.
“Mi dispiace aver trovato notizie solo di uno dei suoi fratelli.”
Rosa sorrise. “È un inizio.”
La mattina dopo, la foschia era così spessa da cancellare l’orizzonte. Rosa, però, sarebbe diventata brava a fissare gli occhi su quello che ancora non si poteva vedere.
Nota
Ispirato liberamente alle testimonianze del Comune di Brugherio: https://www.comune.brugherio.mb.it/citta/storia-e-tradizione/1943-1945-la-resistenza/
Chiara Cassaghi è nata in Francia nel 1998 da un padre italiano e una madre portoghese. Dopo aver conseguito una laurea in sceneggiatura nel 2018, lavora nel cinema e la televisione come assistente allo sviluppo e alla produzione di documentari. Ultimamente, si è dedicata alla regia con Homenagem, un documentario sullo spopolamento della frontiera più antica d’Europa. È spesso co-sceneggiatrice dei film di suo fratello, la collaborazione più recente essendo Healing Hope (2025).
Brava Chiara,
sono Mauro, un compagno (di scuola) di tuo papà.