Vattinne

di Giorgia Giuliano
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Le chiama perevarenikabachky come se io non le vedessi. Zucchine stracotte. Dice che queste sono speciali. Mi annoda il bavaglino e copre il tubo della flebo; insieme al catetere sono due cavi dello stesso ordigno esplosivo. Quando sono esplosa è caduta in ginocchio, scola i cocci più grandi nell’acqua dolciastra delle verdure. L’ultima immagine di Mariupol è stata un supermercato distrutto e due bambini che litigavano per un pezzo di carne cruda. Ho lanciato il piatto come se il Paese in guerra fosse il mio, lei ha spento subito il televisore. Al telefono ha dato la colpa al telegiornale. Si sistema il maglione pulito, la coperta che riceve chi si salva. Lei è già sopravvissuta. Spegnere il televisore, rompere un piatto: è la stessa cosa. Sullo schermo nero c’èun’altra bambina che non vuole mangiare. Vattinne, la guerra non c’è più. La guerra con Eva è tutti i giorni. Bidna stara zhinka! Questa frase la ripete ogni volta che perde. Ma il mio corpo non vuole più niente, guardarsi neanche. L’unico ancora affamato è il mare. Navi, bombe, persone. Ha mangiato tutto, ha sempre finito il piatto. Adesso è un campo di battaglia che si è cicatrizzato.
La mia non era sempre fame. Sembrava di più, oggi ha un nome. Tutti mi credevano in salute, mi toccavano come se non fossi vera in cerca del mio punto più sano. La gente non aveva più guance, la fronte spenta, il colore del grano arso sotto gli occhi. Dicono che adesso sono io così. Sulle loro facce c’erano le grandi ombre di uno stomaco rimpicciolito, camminavano con le gambe sottili aggrappate ai vestiti. Nessuno si reggeva più in piedi, reggersi in piedi era diventato più pericoloso della guerra. Un barcollare. Un brancolare. Per strada, l’odore delle cozze e della polvere da sparo erano un crocifisso alla parete: sempre lì, fermo e impietoso. I nostri respiri erano suppliche e ronzii, preghiere dette per far arieggiare una stanza, un cuore, la mia coscienza. Avevo scoperto che ogni mese la famiglia di Corso Trieste nascondeva delle scorte di cibo in una fossa tra gli scogli. La sabbia lì era più gonfia e ogni tanto un’onda passava a indicare quel punto. Prima mi regalavano i giochi e i vestiti delle figlie più grandi, poi smisero. Mio padre diceva che era per una tessera che noi non avevamo. All’inizio piangevo, poi capii di potermi scegliere i vestiti. La ricchezza di quella famiglia si era legata a qualcosa di sporco. Ricca ma sempre legata. Raggiungevo il nascondiglio all’ora del tramonto, quando in piazza si faceva il bilancio dei feriti. Io mi curavo da sola. Il cibo era una medicina, mi gonfiava, un cortisone. Scavavo alla svelta, ma non era rubare: era proteggere la vista dal sangue, l’udito dalle bombe. La verdura era più cruda del sangue e tra i denti faceva più rumore di cento fucili. Ingoiavo patate sabbia e zucchero. Farina a manciate. Provavo a impastarla con l’acqua del mare. A volte un granchio mi guardava. In poco tempo diventai come lui, scappavo, cercavo di esistere solo di lato. Quando tornavo a casa sapevo ma non ricordavo. Nell’incoscienza della fame mi comportavo come una sonnambula.
Il corpo di mio padre si era striminzito e poteva ripararsi dietro il mio. Mia madre continuava ad apparecchiare ogni giorno una tavola vuota. Sulla tovaglia c’era l’alone di una vecchia macchia di vino, la certezza che prima non avevamo preoccupazioni. La sera ci passava un dito sopra, la accarezzava, guariva il livido. Un grappolo d’uva durava tre giorni. La buccia si masticava, il chicco si succhiava per non avere sete. La mia pancia era piena rispetto alla loro, ma il suono di una sirena la svuotava. Non potevo più vivere senza il nascondiglio. Non m’interessava il sapore del cibo, solo forma e suono. Divoravo per costruirmi un riparo. In poco tempo, il mio corpo divenne un carro armato, robusto e sicuro, lo chiamavano il miracolo. Nessuno poteva immaginare che ero più distrutta di loro.
Ero sicura che le staffette di Bari Vecchia fossero la mia salvezza. Avevo capito da che parte stare. Un pomeriggio mi fermarono per strada, una di loro teneva la gonna stretta tra le gambe facendola sembrare pantaloni. Quando si avvicinarono, sotto le ascelle avevo un pezzo di formaggio e carote, ero troppo piena per mangiarli, provai un forte desiderio di lasciarli cadere.
«Quanti anni hai?»
«Dodici.»
Mi unii a loro per consegnare aiuti ai partigiani. Imparai ad andare in bicicletta, me lo aveva insegnato Gilda. Trasportavo cibo, non pensavo più a mangiarlo, mi dimenticai del nascondiglio. Passai da carro armato a staffetta. Avevo un po’ meno paura, il mio corpo agile combatteva la guerra giusta. Un giorno il mare trascinò a riva pesci già morti che avevano nuotato sotto le bombe. Chiamai le staffette e riempimmo tre secchi, qualcuno lo portai a casa mia, mamma non fece neanche in tempo ad apparecchiare. Era felice.
Il giorno dopo mi tornò la paura. La strada che conduceva al deposito era un viale alberato. La stavo percorrendo da sola, mosca in una stanza, c’era solo il ronzio delle mie ruote. Da lontano vedevo un lungo frutto appeso a un ramo, girava su sé stesso come ancora attaccato al picciolo. Somigliava a una danza. Frutto della mia immaginazione. Quando fui vicina i miei piedi rimasero immobili sui pedali, ma la bicicletta non si fermò. La mia testa passò sotto la suola di quelle scarpe nere ancora lucide, e continuò a pulsarmi come se le avessi sfiorate. Superai una donna impiccata. Ricordo di aver schiacciato i freni solo quando arrivai al deposito. Nel frattempo però i miei freni si erano rotti: iniziai a divorare gelatine e manciate di olive. A scongiurare il carro armato perché tornasse a proteggermi.
A poco a poco diventai più lenta. Consegnavo meno provviste. Gilda mi chiese spiegazioni, lungo il tragitto aveva trovato dei noccioli sputati. Fu Emma a vedermi. Lo disse a Gilda e a tutte, mi sorprese nel deposito con un boccone di sardine. Ne sputai una parte, l’altra la ingoiai. Così fu la mia fuga: da una parte istinto, dall’altra troppo tardi. Due soldati della Wehrmacht mi catturarono quando svoltai l’angolo del Palazzo delle Poste. Uno dei due tentò di chiudere la mano attorno al mio braccio, ma le sue dita erano tarate sui fucili.
La base militare era vicina al porto, ero isolata in una piccola stanza. Non volevo finire appesa. Sul soffitto non c’erano ganci, il muro era sottile. Fuori l’Adriatico ringhiava, allontanava le guardie, non venne nessuno per due giorni. In alcuni punti l’umidità aveva gonfiato l’intonaco, le bolle mi ricordavano dolcetti di Natale. La fame prese a vedere cibo ovunque, la paura rese la stanza commestibile. Scoppiai una bolla con il dito, l’indice dritto come se l’avessi scelta. Quella. L’intonaco era un’ostia, liscio sulla lingua e farinoso quando presi a masticarlo. Era freddo e sapeva di muffa. Piangevo perché non volevo avere né paura né fame. La bolla diventò un buco. La terza sera penetrò la luce di una torcia, fu uno schiaffo sul viso. Mi tolsero dalle labbra una briciola d’intonaco. La torcia puntò prima a terra e poi sul muro: il buco fluorescente, le ombre a mezzaluna delle bolle che avrei mangiato dopo. Il fascio di luce sferzò il pavimento e tornò violento a illuminarmi, ebbi l’istinto di coprirmi come per non farmi toccare. Non sapevo da chi. Vedevo solo un guanto di pelle che copriva una mano. Per tutta la notte, le labbra mi pulsarono nel punto in cui c’era l’intonaco. La vidi la mattina dopo. La cintura della divisa esaltava il punto vita, punto più stretto di un piccolo imbuto. Il corpo stonava con l’uniforme, il fisico prevaleva. Angelico ai lati, sembrava spiegarsi come due ali. Le braccia fiancheggiavano il busto come i braccioli di un trono. La giacca tra il verdone e il grigio con una fila di bottoni, una tonalità che non ho mai più rivisto, Eva non ha vestiti di quel colore. La visiera del cappello cancellava i connotati di quel viso: il mento era l’unico punto non annerito. Cercai il suo sguardo non appena sentii la sua voce. Per un istante credetti che una donna nemica potesse mettermi al sicuro, ma la sua eleganza era solo un presagio di quanto sarebbe stata crudele. Con Eva sembro io quella cattiva. Schmeckt das gut? La guardia tedesca diede una gomitata al muro e fece cadere un pezzo d’intonaco. Lo pestò sotto la scarpa per farmi capire che c’erano cose più buone.
C’è sempre una guerra in questa casa, la stessa che rimbombava in quella stanza. La mattina dopo mi svegliai per la puzza di marcio, un proiettile che bucava la pancia senza passare dal naso. La guardia tedesca ferma davanti a me con un sacco. Cibo che era stato ricchezza, arrivato da me come miseria. I tedeschi lo avevano manipolato: il pane, la carne e le verdure erano diventati quello che volevano loro. Prima prestigio, poi insignificanza. Pescai una coscia di pollo in parte già spolpata, all’interno la carne era sfilacciata e viola. La guardia mi spinse la testa e per poco un osso non mi finì nell’occhio. Mangiai trattenendo il respiro. Da quel momento mangiare diventò assenza di respiro, una tortura. Pescai un cavolo marcio e una crosta di formaggio, il rigurgito mi risalì dalla gola, caldo, dovetti masticare anche quello. Fui costretta a svuotare un sacco pieno di scarti dei soldati. Il sacco divenni io. Ebbi una vertigine: per loro il cibo era inesauribile. Caddi di peso sul pavimento, stesa con lo sguardo sul soffitto, stomaco inginocchiato al petto. Quella pienezza che sembrava pigrizia. Immobile, mi dissanguavo. Speravo che la guardia non tornasse più. Tornò con un sacco più grande, c’erano cipolle e bucce di patata. Mi dimenai, Das arme Mädchen will nicht essen, Bidna stara zhinka!, due lingue collidono nel mio presente: una non dovrebbe essere qui, l’altra è pagata per restare. Mi porse una cipolla con una gentilezza che faceva terrore. Morsi, piansi, la pancia bruciava come gli occhi. Quando dissi la mia età, l’alito mi rimbalzò indietro. Me ne fece mangiare dodici. Prima di svenire guardai il buco. Quando mi svegliai, avevo l’addome calciato all’infuori. Sette giorni dopo il vestito si strappò su un fianco. La guardia stava facendo di tutto per togliermelo. Gli animali non portavano i vestiti.
Non usavo più le mani, erano legate. Mangiavo come se avessi fame. Potevo usare solo la bocca, così, quando riuscivo a immobilizzare il cibo, cercavo di finirlo al più presto. Un giorno mi scivolò un pomodoro, rotolò sul pavimento, lei lo pestò e me lo fece leccare. Un altro giorno mangiai cinquanta gambi di carciofi con le spine. Il mio corpo era il mio unico alleato, gli chiedevo di resistere e lui obbediente si gonfiava. Io non lo aiutavo: ogni volta che provava a ribellarsi, dovevo ingoiare. Ero una clessidra, il cibo cadeva dentro come sabbia. Mi dicevo che presto sarebbe finito anche quel tempo.
A girare la clessidra fu un’altra prigioniera. Aveva la faccia da Maria. Parlava con piccoli mugolii rinunciando spesso a qualche respiro. Il bavaglio le si appiccicava alla bocca come se volesse soffocarla, un triangolo bianco che le scopriva solo gli occhi. L’azzurro che cominciava ad annerirsi. Un corpicino di donna affamata che poteva essere mia madre, ma sembrava il contrario. Quando entrò nella stanza e mi vide così gonfia, mi mise subito una mano sulla pancia. Le dissi di no con la testa. In un occhio le vidi il sollievo, nell’altro la preoccupazione. Non mi sbagliavo quando pensai che Maria potesse essere mia madre. Quel giorno la guardia tedesca arrivò con un altro sacco, Maria all’inizio non capì, poi ringraziò di avere il bavaglio. La sua bocca cieca non guardava la mia, torturata. Nel sacco c’era una melma di verdure, code di pesce e tozzi di pane umidi e appiccicati. Mangiai quelle palle di cannone davanti a Maria che non smise di guardarmi. Sembrava esserci. Assistermi. Aiutarmi a finire gli avanzi. La guardia ce lo lasciò fare. Non ci restava nient’altro. Prima di andare via le annodò più stretto il bavaglio. Vidi i fori delle sue narici, i noccioli di una mela. La melma rimase ferma nella gola: se provavo a spingerla giù, la bocca si riempiva di saliva. Avevo un solo desiderio, ma le mie mani erano legate. La mia prima liberazione fu grazie a Maria. Mi portò in un angolo, mi mise una mano sulla fronte e poi due dita in gola. Ne uscirono giorni e giorni di torture. Il suo gesto aprì in me un passaggio segreto. Non avevamo niente per pulire, lei strappò un pezzo del suo vestito e ce lo mise sopra. Era un bel vestito a fiori.
Il suono delle onde nella stanza fredda mi dava il mal di mare, come una brutta sensazione. A volte però s’intrecciava alle ruote di una bicicletta o al coraggio della folla. Percepivo l’energia di una città ben difesa. L’acqua delle zucchine bollite è una risacca inodore, l’odore degli scarti vomitati era forte. La guardia se ne accorse. La treccia di Maria fu l’ultima cosa che vidi uscire dalla porta, non l’ho più incontrata da nessuna parte.
La pancia tremava di paura, coraggio, crampi. Dentro c’era un esercito di donne e di uomini pronti a combattere per la mia liberazione. La guardia non se ne accorse. Quando tornò, mi slegò i polsi per farmi raccogliere il disastro a mani nude. Placai una fitta con un colpo di reni. Mi ricordo le sue sopracciglia bionde, quasi trasparenti, a mitigare la sua cattiveria. Tirò fuori una pistola e iniziò a condurmi nell’angolo tessuto di fiori. Sentii il click dei fucili. Non perse sangue, ebbe solo uno spasmo. Smise anche di respirare. E adesso vattinne. Veloce presi la sua pistola e scappai con le gambe coperte di feci. Scendevano bollenti dall’interno coscia alle caviglie, colavano ripide, si seccarono sulla pelle come uno strato protettivo. Un soldato mi guardò inorridito al pensiero d’inseguirmi. Gli sparai facendo un favore al nemico, gettai la pistola e corsi più forte. Ero un maiale puzzolente e gonfio, pieno di fango, fuggito da un mattatoio. Poi lo vidi come adesso, sempre più azzurro, calmo, sempre più vicino. L’Adriatico. Corsi veloce e mi tuffai, le sue onde mi abbracciarono. Libertà e pulizia. Le mie feci sparirono nel mare, armi deposte.
Il vestito aggrappato alla pelle era la testimonianza di cosa mi avevano fatto. Urlava Guardate. Qualcuno mi sentì e mi venne incontro, un’altra onda: gente sfollata che mi accolse. Arrivava ogni giorno qualcuno, non era necessario sapere chi, raccomandati tutti dalla stessa guerra. Tra di loro ero l’unica robusta, mi diedero due travi di legno su cui dormire e un po’ di lana da mettere nel vestito, era l’imbottitura di una poltrona che avevano distrutto per strada. Non raccontai a nessuno cosa mi era successo, mi vergognavo, ero confusa. Il nostro rifugio era uno scantinato, noi una catena di montaggio, uscivamo a piccoli gruppi, saremmo usciti tutti insieme per annientare i tedeschi. Un giorno uno sfollato portò buone notizie. Pensammo tutti ai partigiani, invece tirò fuori dalla giacca pane nero e cereali. Gli altri iniziarono a toccarlo, gli accarezzavano testa e spalle. Il benedetto. Io maledetta feci un passo indietro, restando fuori da quel cerchio. La sera prepararono una zuppa, io tremavo a guardarla. Ognuno la raccoglieva dalla pentola usando un pezzo di pane come cucchiaio. Loro felici, io turbata. Il mio stomaco era ancora in quella stanza. Dicevo mangiatela voi, che il mio corpo resiste. Trovavo tante scuse. Quando iniziai a rimpicciolirmi, loro si preoccuparono. A volte insistevano.
«Non ho fame.»
«No Daria, tu non sai dire grazie.»
Ho lanciato una minestra di pomodoro, verze bollite, una sera anche un pesce arrostito. Per tutti ero l’ingrata. Aggressiva con il cibo. Avevo finalmente capito che tipo di rapporto tenere con lui. Persi gonfiore e carne sulle braccia, ho le cosce tutt’ora divise. Ero diventata la più minuta, ma ho saputo ugualmente combattere. Un’onda di insorti contro i tedeschi, gente di mare in tempesta fino a che non ci siamo liberati.
Dopo la guerra, sui fianchi ho visto risalire qualche smagliatura. Nuova vita che metteva radici. Alberto le ha percorse tutte con il suo ditino. Sembrava riattaccarmi la pelle. Ogni volta che l’ho preso in braccio è caduto dritto in una rientranza, gli dicevo che era un nascondiglio segreto creato solo per lui. Questo corpo è una facciata bombardata a cui mancherà per sempre un pezzo, se mi alzo dalla carrozzina crollerà del tutto.
Molti anni dopo, la guerra mi ha riportata in una stanza. C’era una finestra sigillata e odore di garze pulite. Ogni tanto i vetri riflettevano una luce blu che lampeggiava. Sono rimasta a letto molti mesi, l’infermiere mi chiamava la guerriera. Arrivava con un vassoio che mi tagliava il corpo in due. Appena si distraeva nascondevo il cibo sotto il cuscino e bevevo tanta acqua prima di salire sulla bilancia. I numeri che scendevano mi facevano pensare a quanta gente avevo visto cadere. Un giorno Alberto mi ha riportata a casa, dentro c’era un’altra donna. Si fida di lei perché Eva ha un grande corpo, è lei che non si fida di me. Sa sempre che lo rifarò. Ma se non ho fame, non posso neanche arrendermi. La carrozzina tende a destra, il mio corpo dalla parte opposta, il più vicino possibile alla finestra. Eva pensa al suo Paese, combatte, non vuole arrendersi neanche lei. Il pensiero è la sua resistenza. Alberto mi guarda, le lunghe ciglia infuocate dal sole, il dito che per me è quel ditino. Mi mette tra le labbra una capsula di megestrol. Vorrei dirgli che la bocca è l’ultima cosa da cui partire. Quando mi passa il bicchiere d’acqua io ho già sputato la pasticca. Questa città si è liberata da sola.
Giorgia Giuliano, 1994, vive a Milano. Collabora da freelance con alcune testate, ha lavorato come copywriter in pubblicità. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da Nazione Indiana, Micorrize, Altri Animali, Rivista Blam e Neutopia.
Racconto profondo