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Les nouveaux réalistes: Marco Peluso

Il ratto

di

Marco Peluso

 

Quei suoi occhi di un nero viscido spalancati su di me durante le lezioni, carichi di un’ottusa benevolenza: avrei voluto cavarglieli! Strappargli dalla faccia esangue quel ghigno da ritardato, una screziatura bianca in mezzo a una folta barba che gli conferiva l’aria di un vecchio rachitico, non un ventenne piantato nei banchi in prima fila, sempre solerte ad anticipare ogni mia domanda, nauseandomi con il suo odioso sigmatismo. Sembrava lo squittio di un topo.

«Pvofessciove, la declinascione dei sciosciantivi russci avviene scecondo il genere della frasce.»

Ero certo lo facesse di proposito, giusto per infastidirmi con quella sua parlantina ispida. Eppure in facoltà si aggirava nei corridoi ridotto a un’ombra, una creatura informe che ancheggiava il suo sedere a poppa ostentando quel sorriso simile a una paresi capace di renderlo imperscrutabile. Persino i pasti li trascorreva da solo seduto in qualche aula, pronto alla prossima lezione.

Nell’istante preciso in cui mettevo piede in classe incontravo quel suo dannato sorriso. Sembrava non solo mi aspettasse, ma che fosse lì per sfidarmi.

Appena rincasavo, a due passi da quella stessa università dove un tempo insegnava mio padre, come prima cosa mettevo su un pezzo di Bach sul giradischi, desideroso di scacciare via quella vocina stridula.

«I sciosciantivi neutri e mascili scingolari al dativo pvendono scempre il sciuono u.»

Ma per quanto la musica soverchiasse la sua voce repellente, tra i tomi ingialliti nelle librerie, nel mezzo delle porcellane sulle mensole o da dietro le tende vedevo emergere i suoi occhi a palla, due bolle che affioravano dalla penombra e mi seguivano ovunque andassi.

Seduto alla scrivania, ingollavo un bicchiere di vino dopo l’altro nella speranza di cancellare quell’immagine, ma vedevo il suo ghigno formarsi persino dal fumo di sigaretta che esalavo dalla bocca.

«Pvofessciove, sciono andato bene all’esciame?»

*

Davide Astolfi, quel nome era un ascesso che mi affliggeva, ero pronto a fargli passare qualsiasi esame pur di spurgarlo. Invece appariva da ogni angolo, lo incontravo persino in bagno.

«Pvofessciove, penscia che potrei fare richiescta per l’erascmusc?»

Ogni volta fuggivo, finché un giorno, nel scendere in fretta una rampa di scale mi schiantai su di lui e ruzzolammo sui gradini.

Me lo trovai faccia a faccia, i suoi occhi a palla fissi nei miei assieme a quel ghigno inamovibile.

Lo spinsi via, disgustato nel sentirmi addosso quel corpo informe.

«Inutile ritardato! Cosa diavolo vuoi da me?»

Corsi giù per le scale, accerchiato dagli occhi avidi di decine di studenti, lì a osservarmi stupefatti; nell’aria rimbombavano ancora le mie parole, assordanti.

«Inutile ritardato!»

Soltanto tornato a casa la consapevolezza di ciò che avevo detto mi afferrò lo stomaco, schiantandomi contro una parete; da una foto lo sguardo severo di mio padre sembrava scavarmi nella pancia, strabordante di disgusto.

«Non capisco come tu possa essere mio figlio. Guardati, fai schifo. Un animale! Neanche sai parlare come un uomo.»

Agguantai una bottiglia di vino dal frigo e corsi a chiudermi in camera da letto, al buio. Accesi alla svelta il giradischi e mi accasciai in un angolo, la bottiglia incollata alla bocca e gli occhi spalancati verso la porta, spaventato dal pensiero che mio padre potesse irrompere con la violenza di una erpice.

«Vuoi ficcarti in quella testa bacata che русский, usato per definire la nazionalità, non fa da sostantivo ma da aggettivo?»

Serrai di colpo le palpebre e diedi un sorso deciso al vino, tra le note di Bach udivo qualcosa strisciare nella stanza, sempre più vicino, finché percepii dita sottili e viscide sfiorarmi una coscia e nella penombra apparve un ritaglio latteo, simile a uno spicchio di Luna.

Indietreggiai di scatto e schiacciai la faccia contro la parete.

«Pvofessciove, lei penscia sciul scerio che sciono sctupido?»

*

L’indomani, in aula, ero certo di trovare il rettore, invece l’intera classe se ne stava composta dietro ai banchi, in prima fila Davide Astolfi mi fissava con i suoi occhi bovini e sorrideva.

Ero certo che tramasse qualcosa. Appena alzavo il capo, incrociavo il suo sguardo ebete piantato su di me e quel ghigno con cui pareva canzonarmi, quasi si beasse nell’avermi finalmente in pugno. Per giorni continuò a ostentare quell’odioso sorriso, i suoi occhi tondi non mi mollavano un attimo, sembrava fiutasse ogni mio passo, sbucava da qualsiasi anfratto e se ne stava imbambolato a fissarmi, sempre sorridendo. Appena rincasavo, chiudevo la porta a chiave e sbarravo le finestre, alzavo al massimo il volume della musica per raschiare dalla mente quella sua vocetta pungente. Invano. Lo sentivo caracollare nelle stanze, inerpicarsi sulle pareti e strisciare sul soffitto.

Raggomitolato tra le lenzuola o appiattito in un angolo a bere vino, scorgevo da sotto lo spiraglio della porta la sua ombra gonfiarsi.

«Pvofessciove, perché sci nascionde?»

In facoltà imposi agli studenti di prendere posto secondo le mie disposizioni, una scelta a cui nessuno osò opporsi, intimoriti dal mio sguardo ferino segnato dalle occhiaie, le labbra tremule e l’aria sfatta. Cercavo di non sollevare neppure la testa dalla cattedra per evitare di scorgere oltre le file di giovani quegli occhi dilatati su di me, prevenivo ogni domanda pur di impedire a quella voce stridula di martoriarmi. Appena terminata la lezione, filavo via dall’aula prima che gli alunni lasciassero i banchi, ma appena svoltavo un angolo lo trovavo piantato al centro del corridoio, trapassato da decine di studenti che neanche vedeva. Esistevo solo io.

*

Dopo quasi trent’anni di carriera, decisi di marcare malattia. Barricato in casa, neppure uscivo a fare spese né mi azzardavo a chiamare il supermercato dopo che, il primo giorno, aveva bussato alla porta un giovane garzone.

«Scignore, ho la sciua scpescia.»

Gli avevo urlato di mollare tutto fuori la porta e andarsene subito, di lasciarmi in pace. Ma era inutile, lui trovava sempre un modo per assalirmi, ero certo che fosse ovunque.

Acquattato a letto, tracannavo vino e tenevo gli occhi sgranati sui mobili ammassati contro la porta, stringendo nell’altra mano un coltello da cucina. Sentivo un ticchettio incessante di zampette acuminate battere sul pavimento del corridoio, seguito da un risolino affilato, finché quei passi iniziava a trottare alla svelta e lasciavano spazio a pedate così pesanti da sembrare spaccare le mattonelle. Poi dei colpi brutali contro la porta, e quella voce…

«Lo vedi che ore sono? Ti decidi ad alzarti o devo trascinarti giù io?»

Serravo le palpebre e schiacciavo i palmi sulle orecchie, tremando come una bestiola.

«Sc… sciusa… sciusciami, papà…»

Appena spalancavo gli occhi, scorgevo quella macchia deforme immersa nell’ombra, nelle tenebre non esistevano altro che quelle biglie bianche calcificate su di me e quell’orrendo sorriso.

«Pvofessciove, sci scente bene?»

*

Tornai a scuola dopo due settimane. Quando avevano telefonato dalla segreteria, avevo avvertito gonfiarsi in petto un moto di pace, la grazia della morte che libera un condannato.

Invece quello sgorbio non aveva parlato, erano semplicemente preoccupati per me.

Quando varcai la soglia della facoltà me lo trovai davanti, gli occhi impressi nei miei e quel sorriso amorfo lì a bearsi della mia disfatta.

«Pvofessciove, come scta?»

Lo agguantai per un braccio e lo trascinai in fretta tra zaffate di studenti, fino a sbatterlo in uno sgabuzzino buio.

«Perché diavolo mi stai facendo questo?» gli urlai in faccia, scuotendolo per le spalle. Ma lui neanche tremava, mi fissava con quelle sfere annebbiate e sorrideva.

Digrignai i denti i una smorfia mostruosa e serrai le palpebre, infilai alla svelta una mano in tasca e, un istante dopo, sentii solo un tonfo sordo, poi del liquido denso e vischioso colarmi tra le dita.

I suoi occhi erano ancora spalancati nei miei, il sorriso macchiato da un rigagnolo di sangue.

Appena il coltello mi scivolò di mano, lui crollò a terra, simile a una bambola rotta.

Sorrideva ancora.

*

Chiusi il corpo in un sacco per rifiuti e lo gettai in un cassonetto, assieme al coltello. Uscito da lì, sorridevo e avanzavo fiero tra schiere di studenti che mi osservavo inquieti, diretto verso l’aula dove finalmente non avrei dovuto più subire la presenza di quel mostro, ma prima che varcassi la soglia avvertii una brezza gelida frustarmi il collo, poi dei passi spediti dietro di me e una risata acuta, appena un accenno di quella sua vocina stridula.

«Pvofessciove…»

Mi voltai di scatto. Niente. Solo alcuni studenti che oziavano nel corridoio.

Frastornato, il sorriso tremulo sul volto, entrai in classe e andai a sedere alla cattedra, di fronte a decine di giovani sistemati dietro ai banchi. Appena sollevai lo sguardo sentii il cuore esplodermi nel petto, il sudore cominciò a sgorgarmi dalla fronte, fino a corrodermi la faccia.

Davanti a me si stagliava una schiera di occhi spalancati, mi fissavano imperturbabili, privi del più misero barlume di intelligenza.

Serrai di colpo le palpebre e scostai il capo. Quando le dischiusi, gli alunni sbirciavano flemmatici quaderni e libri sistemati sui banchi.

Sorrisi e allentai la cravatta.

«Bene, oggi parleremo dei verbi intransitivi» bofonchiai, sfogliando un tomo, ma nell’aula non si udiva nulla, non un fruscio. «Allora?» domandai, alzando il capo, ma in un lampo balzai dalla sedia e mi appiattii contro la parete, nelle pupille vibravano decine di sorrisi, denti di marmo stretti in una morsa impietosa, bianchi quanto gli occhi che seguitavano a scrutarmi.

Poi quella voce…

«Pvofessciove, ma che disce? Sci è sciordato che i verbi intranscitivi li abbiamo fatti scei scettimane fa?»

Scaraventai al suolo la cattedra e mi avventai sulla porta, giravo con forza la maniglia ma nulla, non si apriva; dietro di me sentivo incedere dei passi cadenzati, un risolino stridulo gracchiava nella stanza.

Crollai al suolo e mi accasciai in un angolo, la faccia schiacciata al muro e la testa stretta tra le mani, inerme al cospetto di quella risata che si ingigantiva su di me.

«Pvofessciove, sci scente bene?»

«Basta!» urlai, staccando i palmi dal capo e fissando in avanti con occhi offuscati dalle lacrime. «Io ti ho ucciso! Ti ho ucciso, schifosa bestia. Lasciami in pace!»

Le risate sfumarono lentamente in un misero eco, appena un sogghigno leggero che si dissipò in un silenzio di pietra. Udivo solo il tremolio delle mie ossa e, man mano che le lacrime si dissolvevano, davanti a me apparivano, incancellabili, i volti sbiancati degli studenti e i loro occhi ora spalancati dal terrore.

A fatica, le ossa ridotte in vetro prossimo a spaccarsi e una morsa lancinante a serrarmi il petto, mi tirai in piedi e barcollai contro una parete, incapace di sollevare lo sguardo.

«Sc… sciusciate, non mi scento bene…» sussurrai, per poi precipitare al suolo. I volti degli alunni, i loro occhi, ogni cosa fu inghiottita da un manto latteo in cui vedevo avanzare solo un’ombra gracile, un risolino stridulo si mischiava al sibilo che mi trapassava la testa, fino a perdersi nel battito furioso del mio cuore, sempre più veloce.

Poi una fitta pungente al torace mi fece agitare braccia e gambe in modo spasmodico, come un insetto sfiorato da una fiamma: giusto un attimo; percepii i muscoli distendersi fino a liquefarsi, assieme al mio intero corpo, le palpebre chiudersi avvinte da una pesante stanchezza. Persino il ritmo del cuore parve scemare, riuscii a stento ad avvertire qualcosa di caldo e bagnato scorrermi su una guancia. E quella voce…

«Pvofessciove, sciu, adesscio possciamo andare?»

«Scì…»

Poi, finalmente silenzio, e buio.

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francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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