Galline di montagna

di Rodolfo Sgro

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Pollaio di Collegno, 1945

Nuove galline sono entrate nel pollaio. Il babbeo le ha fatte entrare per prendergli le uova. Gionni dice che saranno guai con l’arrivo di queste galline di montagna. Secondo me Gionni non capisce mai niente: me ne fotto di chi arriva. Se non altro, meno uova devo fare io per il babbeo. Gionni dice che le galline di montagna porteranno tutte noi altre galline a scioperare. Io gli ho detto che gli scioperi li fanno solo i comunisti e che qui di comunisti non ce sono (a parte lui).

“Tu non ti rendi conto di cosa sta succedendo” mi ripete Gionni, come se fosse il più sveglio della baracca. “Queste arriveranno e ci costringeranno a fare come loro. Portano i loro slogan da comunisti e sai come finisce? Finisce che andiamo tutte a fare la fine di Lella e Gina. Io lo guardo e alzo le piume delle spalle. Lella e Gina sono sparite qualche settimana fa. Le ha portate via il babbeo, una mattina che non avevano deposto le uova. A mio modesto parere, se non fai le uova in questo posto, rischi di finire a terra, la “macchinetta” ti finisce. Qui tutti parlano ma nessuno ha mai davvero visto la macchinetta. E comunque, anche se la vedi poi perdi la memoria. Anche io sono passato dalla macchinetta: ha il suo tavolo, le cinghie e tutto l’occorrente per far deporre le uova. Prima una scossetta, poi una scossona e così via sempre più forte. Se deponi torni al pollaio, se non deponi ti buttano nella spazzatura. Io dico che è sempre meglio essere in tanti e dividersi il lavoro nel pollaio. Gionni, io voglio la mia razione di becchime. Se il babbeo me la dà, a me sta bene così. Meglio sopravvivere qui che essere macellata fuori. Mi scappa quasi un “a meno che…”, ma non lo dico. Ho i miei pensieri, però non voglio che Gionni si metta a fare il saputello come sempre. Che poi lui è un pollo avvocato erudito, il motivo per cui è qui non me l’ha mai voluto dire. Antonello, per gli amici Gesù Cristo, che fa sempre la morale a tutti, dice che andava a pollastrelli. Ma a “Gesù Antonello” non crede mai nessuno.

Tornando a noi. Le galline di montagna sono spuntate una mattina presto, con le piume ancora umide di rugiada (o sarà sudore? Chissà). Camminano dritte, guardandosi attorno come se niente potesse fermarle. Una, in particolare, ha la macchia nera sotto l’occhio sinistro: Tosca, la chiamano. La gente mormora che sia la “capa” di quelle galline. “Questa qua ci creerà solo casino” mi sussurra Gionni. “Magari ci porta una ventata di novità” ribatto io, fingendo noncuranza. Sono diverse, Gionni: noi ci siamo rassegnate a vivere nello sporco di questo pollaio. Tosca si avvicina alla rete di divisione tra il suo recinto e il nostro. Muove la cresta in modo strano, come se volesse farsi notare. “Ehi, pettorute!” dice con un tono che a me pare quasi di sfida. “Allora, siete pronte a dare una svegliata al babbeo o avete intenzione di continuare a farvi spennare?”. Gionni sbuffa, grattando il terreno con la zampa. “Lo sapevo… un’altra comunista che vuole scatenare polveroni!”. Io gli tiro un colpetto sulla schiena: “Taci un secondo, fammi sentire che dice”.

Intanto, il babbeo gira nella corte col solito sorrisetto bavoso. Quando si piega, gli cola il grasso dalla pancia fin sopra le braghe che gli scendono. Un bell’imbecille, se non fosse che ha sempre quell’aria di chi può farti male, e sul serio. “Allora, bambine mie, oggi quante uova mi fate?” urla. Alcune galline corrono e gridano “coccodè”, terrorizzate all’idea di finire come Lella e Gina. Io, di solito, vado e depongo in fretta. Ma stavolta non ci riesco: sono troppo concentrata su quelle nuove. “Laggiù in montagna si vive da galline libere” continua Tosca, rivolgendosi a me e a Gionni. “Dicono che non bisogna per forza obbedire alle regole di un babbeo qualsiasi. Anzi, se si fa squadra, magari si abbatte il pollaio e si vola via…”.

“Ah, volare… certo” sbotta Gionni, sarcastico. “E chi ci protegge dalla volpe schifosa? E dal freddo? Almeno qui hai un tetto, e se fai una decina di uova a settimana ti lasciano stare.” “Fino a quando, Gionni?” lo incalza Tosca. “Credi che Lella e Gina siano in vacanza alle terme?” aggiungo io.

Tosca ci studia con quei suoi occhi furbi. Poi abbassa il volume della voce, così bassa che quasi non la sento: “Ti dirò la verità: siamo arrivate qui per convincervi a ribellarvi. Vogliamo smettere di fare uova per il babbeo, scioperare, se preferisci chiamarla così. E poi scappare. Dobbiamo solo trovare il modo di forzare quella rete là in fondo, dietro il fienile. È arrugginita, potremmo bucarla con beccate notturne”.

Sento Gionni sbuffare. Io cerco di darmi un contegno: “E se il babbeo se ne accorge?” chiedo, lanciando un’occhiata al ciccione che adesso sta minacciando due galline per un paio di uova in meno. Tosca sorride, ma è un sorriso amaro. “Se se ne accorge, ci prepara la sua macchinetta, la… come la chiamate? Elettroqualcosa? Insomma, ci frega. Però se non ce ne andiamo, finiamo comunque spennate. Vuoi davvero vivere così?”.

Mi ritiro in un angolo del pollaio, stizzita. Gionni, dietro di me, scuote la testa e borbotta: “Te l’avevo detto, questi di montagna fanno solo casino. Tu credi che a loro importi di noi? Vogliono solo trascinarci in una follia che ci farà fare una brutta fine”. Chiudo un attimo gli occhi. La verità è che sono stanco di deporre uova a comando. Stanco di sentirlo urlare ogni giorno: “Allora, quante uova mi fate?”, come se fossimo macchine, e non esseri viventi.

“Magari Tosca ha ragione. Magari un po’ di casino ci serve, per smuovere le acque. Altrimenti siamo tutte già morte, solo che non ce ne rendiamo conto.”

“Parli da comunista” ribatte lui, alzando la cresta. “Ti avverto, non voglio finire come i tuoi amici sognatori.”

Quella notte, mentre Gionni dorme, esco dal mio recinto e giro intorno al fienile. Tocco con la punta del becco la rete arrugginita di cui parlava Tosca. Effettivamente, cede un po’. Basterebbe colpirla con costanza, in silenzio, per aprirci un varco abbastanza grande da infilarci le piume e scivolare via.

“Ehi, pettoruta, lo vedi? Ti dicevo la verità” mi sussurra una voce alle spalle. È Tosca, con altre due galline di montagna. Sembrano dure, coperte di lividi e graffi, come se avessero già vissuto battaglie.

“Allora, che si fa?” mi domanda. “Vuoi starci o vuoi continuare a obbedire al babbeo?”. Mi volto di scatto.

“Ci provo. Ma se va male…”

”Se va male, almeno avremo tentato” conclude Tosca, guardandomi con uno scintillio negli occhi.

Nel frattempo, il babbeo si è accorto che qualcosa non va. Il giorno dopo, mentre zampetto nella paglia, sento che grida contro un paio di galline: “Non avete fatto nemmeno un uovo! Che diavolo state tramando? Vi sistemo io!”. La sua risata si sente da un capo all’altro del cortile. Provo un brivido freddo quando lo vedo avvicinarsi a Gionni: lo afferra per le piume del collo, solleva la cresta e lo studia come fa un cacciatore con la preda. Poi lo lascia andare con uno spintone. Gionni mi guarda, terrorizzato, e credo che in quell’istante si stia rendendo conto che non si scherza. Qui finiamo tutti male, con o senza scioperi.

Io e Tosca ci diamo appuntamento la notte successiva. L’idea è semplice: beccare la rete arrugginita finché cede del tutto, poi sgusciare fuori e correre verso la montagna, dove le galline libere vivono senza babbeo. “È un piano da pazzi” mi dico ogni tanto, ma poi mi ricordo che siamo in manicomio e tutto torna coerente. Gionni dice che non se la sente di unirsi. “Se volete morire, fate pure” sussurra. “Io rimango. Almeno qui ho la ciotola di becchime.” Lo lascio perdere. Quando il buio avvolge il pollaio, e il babbeo sembra ronfare dentro la sua lurida baracca, io, Tosca e le altre due di montagna andiamo dietro al fienile. I nostri becchi battono sul metallo arrugginito, piano, cercando di non fare troppo rumore. Col tempo, uno squarcio si apre, un taglio netto che potremmo allargare con un altro paio di colpi. “Se ci becca, finiamo tutte sul tavolo del capanno” sussurra Tosca, guardando in direzione della casa. Lì dentro c’è la “macchina delle uova”, come la chiamiamo noi — la roba che ti fulmina la testa e ti lascia inerme. “Sì, ma se non agiamo, tanto vale farci spennare subito” ribatto.

Infiliamo la testa nello squarcio, una alla volta, aprendo un varco abbastanza grande. Io vado per prima. Mi taglio un po’ la zampa, ma riesco a passare. Tosca e le altre mi seguono. Cerco con lo sguardo Gionni, sperando che sbuchi all’ultimo momento. Ma niente. Adesso siamo fuori. L’erba umida sotto le zampe ha un odore nuovo, che non avevo mai sentito. Apro le ali, quasi per istinto, come se potessi davvero volare. Tosca mi fa cenno di andare avanti, verso il bosco. All’improvviso, sento un rumore alle nostre spalle. È il babbeo, che corre con un lanternino e urla come un pazzo: “Fermate quelle maledette! Vi sistemo io!”. Ha due aiutanti dietro di lui, grandi come buoi. “Correte!” grida Tosca. “Non fermatevi!”. Scattiamo in avanti, inciampando sui ciuffi d’erba, mentre i cani/infermieri si avvicinano. La lanterna del babbeo oscilla, gettando ombre deformi su di noi. Penso di essere spacciato. E invece, con uno sforzo disperato, raggiungo la fila di cespugli e mi tuffo dentro.

Corriamo per un’eternità finché non ci ritroviamo in un piccolo avvallamento, coperto da alberi e rovi. Ci accucciamo lì, senza fiato, il petto che sale e scende a ritmo forsennato. Tosca mi guarda e fa un breve cenno di soddisfazione. “Ce l’abbiamo fatta” sussurra. “Siamo fuori. Ora dobbiamo proseguire. La montagna è più in là, ci vuole una notte di viaggio.” Io annuisco, Gionni, avevo ragione, idiota. Mi domando se si sia pentito o se, dopotutto, preferisce il pollaio. Affari suoi.

*

Ricordo ancora la notte in cui varcammo la recinzione arrugginita e ci inoltrammo nel bosco, quasi incapaci di credere d’essere davvero usciti dal maledetto pollaio. Per un po’, vagammo fra i campi, nascondendoci dai buoi del babbeo che ci braccavano. Alla fine, grazie all’aiuto di chi ci considerava trovammo un rifugio dove altre galline di montagna ci accolsero con affetto. Avevamo fregato il babbeo e la sua “macchina per le uova”, e nessuno ci avrebbe mai più costretti a subire le scariche elettriche. Quel vigliacco di Gionni alla fine è scappato anche lui, lo ritrovammo due giorni dopo che tremava come una foglia dietro dei rovi. Tosca sembrava più viva che mai, con quel fuoco di ribellione negli occhi. Gionni, invece, era teso e silenzioso; a volte lo vedevo piangere, quando pensava che nessuno lo guardasse. Io? Io mi sentivo come se avessi iniziato una nuova vita, finalmente libera dall’odore di pollaio e dalla paura dei corridoi. Nei mesi successivi, mi accorsi che non eravamo più galline: stavamo perdendo le piume. Tosca scomparve quasi subito: mi disse che voleva continuare a far casino insieme ad altri compagni di montagna. “Se vogliono arrestarmi, che ci provino” mi aveva detto, prima di sparire all’alba con uno zainetto di stracci. Gionni rimase nel rifugio ancora per un po’, ma si muoveva inquieto, come se non riuscisse a trovare pace. Io cercai di adattarmi. Nessuno venne a cercarci per un po’. Scoprii solo più tardi che il babbeo era stato fatto fuori e che la volpe schifosa si era avvelenata insieme alla moglie e ai cani a Berlino. Dopo qualche tempo, cominciarono a diffondersi voci su processi, vendette e ritorsioni. Non tutti quelli che avevano lottato contro il babbeo erano considerati eroi; alcuni avevano compiuto azioni violente, e adesso le istituzioni volevano fargliela pagare. Fu così che seppi che Tosca, ricercata, s’era rifugiata in città, sotto falso nome. Lavorava come domestica presso una famiglia di borghesi. Viveva nascosta in casa altrui, per non finire dentro. Mi hanno detto che ogni tanto sgattaiola via per parlare ai giovani di quanto sia importante non piegarsi mai. Gionni, invece, era sparito nel nulla. Ci vollero mesi prima che scoprissi cosa gli fosse successo. Venni a sapere che, durante le perquisizioni, era stato fermato non solo perché sospettato di tradimento (sembra che non fosse davvero un pollo ma un fagiano), ma anche perché l’avevano scoperto mentre andava a pollastrelli. “Lo hanno costretto a una cura ormonale”, mi raccontò qualcuno con gli occhi bassi, come se fosse una vergogna da riferire. “Poi… poi s’è tolto la vita in una stanza d’albergo”. Mi chiesi se avesse passato la malattia anche a me, anche se mi sono sempre sentito uguale al solito insieme a lui. Secondo me i nostri medici non hanno capito niente di polli, galline e fagiani. Una mattina, mi svegliai e mi ritrovai circondato da facce conosciute, con camici bianchi e siringhe pronte. Mi dissero: “La tua testa non funziona bene, dobbiamo riportarti nel manicomio”. Volevo urlare che stavo solo cercando di vivere, che non avevo più un pollaio, che non ero più una gallina. Ma non mi ascoltarono. In pochi istanti, mi ritrovai di nuovo legato a un lettino, con un sosia del babbeo col suo stesso sguardo vacuo che mi girava attorno, farneticando di terapie. La macchinetta del pollaio era più viva che mai. Tosca, buon lavoro con i tuoi borghesi. Gionni, sei morto come un citrullo.

Mi applicavano gli elettrodi alle tempie. Loro continuavano a parlarmi e a invitarmi a non agitarmi. Ma io non sentivo più nulla. Nella mia mente, non ero più una gallina. Alla faccia loro. Poi la corrente elettrica attraversò le mie ossa, trasformandomi in un grottesco ammasso di tremiti. “Chissà se so deporre ancora uova” mi chiesi, dato che non ero più gallina.

Sono di nuovo qui, nel reparto 5, con quelle luci fredde sul soffitto. Ho imparato a deporre di nuovo. Quantomeno non mi hanno macellato. Nelle orecchie un gallo canta all’alba. E allora sorrido: Gionni, maledetto fagiano, sei ancora qui a rompermi l’anima?

Rodolfo Sgro. «Sono nato a Torino nel 1994 e dal 2002 al 2025 ho vissuto a Collegno. Sono medico, specializzato quest’anno in Psichiatria, da gennaio lavoro nel reparto di Psichiatria dell’ospedale di Rivoli. Nei ritagli di tempo, sono anche chitarrista della band cantautoriale “Spaghetti Spezzati”. La città di Collegno rappresenta lo sposalizio più bello fra i miei due mondi: la Resistenza da un lato (pensate che ho abitato fino a gennaio di quest’anno in via staffette partigiane, 18) e la salute mentale dall’altro (il famoso manicomio di Collegno). Non potevo non partecipare alla vostra chiamata, proprio perché queste due realtà fanno parte della mia vita. Visito spesso l’ex manicomio, oggi museo, con i suoi padiglioni in cui venivano suddivisi gli utenti in base ai loro trascorsi (fra essi, c’era anche un’area dedicata ai dissidenti politici, nonché agli omosessuali). Subito ho pensato di poter ambientare un racconto in quel manicomio. Per una questione di libertà espressiva, ho fatto in modo che tutto fosse visto dagli occhi di uno psicotico delirante che si credeva gallina in un pollaio. Vorrei infine ringraziare tanto la scrittrice Benedetta Tobagi, che non conosco ma che vorrei tanto incrociare, perché con il suo libro “La Resistenza delle Donne”, letto a luglio 2024, mi ha aperto un mondo. L’idea di ambientare questo racconto in manicomio è sicuramente nata grazie ai suoi resoconti.»

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