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Nun si parti

di Sofia Rigoli

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Palidda non sapeva leggere né scrivere. La sua maestra veniva dal nord, dove i bambini imparavano entro i sei anni, diceva. Lei invece di anni ne aveva nove, quasi dieci, e ogni volta che doveva mettere le lettere in fila su un foglio per dargli senso si confondeva e finiva per distrarsi. La maestra le diceva che era svogliata, che se non avesse imparato sarebbe tornata a dover lavorare la terra come i suoi nonni. Allora lei si era impegnata, vedendo che sua madre ci rimaneva così male nell’avere una figlia babba e con la testa nta l’aria. Alla fine per farla contenta aveva imparato a scrivere il suo nome: non Paola, ma Palidda, come la chiamavano tutti. Aveva capito presto che c’erano tante cose che lei non riusciva a fare e gli altri bambini sì. Per esempio, non riusciva a memorizzare le preghiere. Ne recitavano sempre una prima delle lezioni, appena arrivati a scuola. Lei non aveva una buona memoria, non riusciva a ricordarsele. Finiva per balbettare e farsi rimproverare. Allora aveva imparato a muovere la bocca senza produrre alcun suono, in modo che la maestra non si accorgesse che stava sbagliando tutte le parole. Fingere di saper leggere, invece, era più difficile. Aveva provato anche quello, cercando di indovinare cosa potesse esserci scritto nei libri ogni volta che le veniva chiesto di leggere un testo ad alta voce. Anche se si vergognava faceva finta di ignorare le prese in giro degli altri bambini e i rimproveri della maestra, che tanto alla fine aveva ragione lei: la scuola non era cosa sua. Del resto a Palidda non era mai interessato saper leggere o scrivere, non le sembrava importante.

Poi suo fratello era partito e tutto era cambiato. Nessuno sapeva dove sarebbe andato, si sapeva soltanto che un giorno lo avevano caricato su un camion dell’esercito e se lo erano portato via. C’era la guerra, questo glielo avevano detto più volte. A quel punto le risate dei suoi compagni e lo sguardo deluso della sua maestra ogni volta che faceva scena muta davanti ai libri non le importavano più. Continuava a pensare a suo fratello Viru, che era salito sul camion mentre lei era a scuola senza neanche un saluto. Palidda aveva passato ogni notte a domandarsi perché nessuno volesse dirle dove era andato, e soprattutto perché non era potuta andare con lui. Allora aveva deciso di chiederlo a suo padre, che era sempre buono con lei.

“Picchì tu sì fimmina, e poi sei piccola”, le aveva spiegato pazientemente. Palidda non si era convinta. Su quegli autocarri aveva visto salire bambini di tutte le età, pure poco più grandi di lei, e se avesse potuto sarebbe salita anche lei senza pensarci due volte.

Un giorno aveva visto un militare fuori da casa loro e gli aveva chiesto se poteva partire anche lei. Vedeva spesso i camion, fermarsi alla prima casa di una strada e percorrerla tutta finché non erano pieni.

Sua madre si era voltata, sconvolta, e l’aveva guardata a lungo negli occhi prima di parlare.

“Una cosa così non la devi dire mai più”, le aveva detto infine. Poi si era scusata con il militare e l’aveva trascinata dentro casa.

Sua mamma provava a renderla partecipe, le diceva che lei era una bambina intelligente anche se non sapeva leggere, che era importante che capisse.

Si stavano portando tutti i loro ragazzi, le diceva, stavano privando la Sicilia di tutte le braccia forti che dovevano sorreggerla e lo stavano facendo per combattere una guerra e neanche sapere per chi la stavano combattendo. Anche Viru era partito senza essere sicuro di dove lo avrebbero spedito, e tutta la famiglia stava ancora aspettando sue notizie. Sua mamma usciva di casa a controllare la cassetta della posta più volte al giorno, anche quando sapeva che a quell’orario i postini non lavoravano o non sarebbero passati di lì.

“E non puoi chiedere aiuto agli americani?”, aveva domandato a un certo punto la bambina.

A Palidda gli americani facevano simpatia. Con lei erano sempre gentili, anche se a volte la intimorivano. Le faceva paura che non sapevano parlare la sua lingua, e lei la loro. Cominciano sempre i problemi, quando non ci si capisce. Un po’ come quando tutti i suoi compagni recitavano a memoria le preghiere che lei non sapeva. Ogni volta che vedeva i soldati confabulare o ridere tra loro, voleva chiedergli cosa avessero da dirsi, voleva sapere cosa ci facevano lì. E poi voleva chiedergli se sapevano dove fosse suo fratello Viru.

Sua madre, in ogni caso, le diceva di non stargli vicino troppo a lungo. Le diceva “nun ti fidari mai di nuddu”, e Palidda se lo ripeteva ogni volta che un soldato americano le rivolgeva un sorriso per strada.

Poi le scuole vennero chiuse per un po’. Quando riaprirono, sua mamma si rifiutò di mandare la figlia.

“Ci sono cose più importanti da fare qui, Palidda.”

Lei non si era opposta. La scuola non le piaceva, e poi così si sarebbe potuta concentrare meglio sul suo obiettivo: raggiungere suo fratello. Nel frattempo era arrivato gennaio del 1945 e c’era sempre sole. A Palidda sarebbe piaciuto uscire per strada a giocare, andare a bussare alla porta dei vicini di casa per chiedere delle loro figlie. Tutti però sembravano distratti da qualcos’altro, pure sua mamma, che di quei tempi era sempre nervosa.

“È meglio se te ne stai a casa, per ora.”

Palidda si annoiava, e ogni volta si rimproverava quando si sorprendeva nel pensare che le mancavano perfino le lezioni, con tutte le prese in giro dei suoi compagni. A un certo punto aveva deciso che se non era riuscita a imparare a leggere seduta dietro i banchi di scuola, avrebbe imparato da sola. A casa sua non c’erano molti libri, ma Palidda sapeva che sua mamma teneva sempre una bibbia sul comodino. Una mattina aveva aspettato che lei andasse fuori a controllare la posta, e poi era corsa nella sua stanza per prendersi la bibbia. Era un po’ ingiallita e alcune pagine sfuggivano alla rilegatura, ma era un bel libro, su quello non c’era dubbio. Palidda se l’era portata nella sua stanza, e l’aveva nascosta sotto le coperte. Sapeva che sua mamma la prendeva in mano solo la sera, quando era a letto e la sfogliava distrattamente prima di dormire. Per qualche giorno aveva tentato e ritentato di dare un senso a quello che vedeva sulle pagine senza alcun risultato. Le lettere si confondevano tra di loro, sovrapponendosi l’una all’altra. Un pomeriggio, mentre sua madre riposava, Palidda era silenziosamente andata a rubare la bibbia accanto a lei. Un bigliettino ben piegato era scivolato giù. Palidda lo aveva raccolto da terra, lo aveva aperto ed era rimasta inorridita. Cosa ci fosse scritto dentro non poteva saperlo, ma la calligrafia di suo fratello l’avrebbe riconosciuta tra un milione. C’era anche il suo nome, proprio in cima al foglietto, ed era l’unica cosa che Palidda poteva decifrare del suo contenuto. Era corsa nella sua stanza a piedi scalzi, dimenticandosi che non doveva fare rumore. Palidda si era sentita stupida tante volte nella sua vita, ma quella fu la peggiore di tutte. Aveva creduto a lungo che leggere e scrivere fosse inutile, aveva creduto che non le sarebbe servito mai in tutta la sua vita e aveva sostenuto non le interessasse. Era riuscita a superare le prese in giro e i rimproveri a testa alta, solo per scoprire che le parole erano importanti per davvero e lei non avrebbe mai saputo farle sue. La vergogna bruciava nella sua gola e nel suo stomaco, ma Palidda non voleva piangere. Aveva pensato, per un momento, di andare a svegliare sua madre per farsi dire cosa ci fosse scritto dentro quel biglietto. Poi aveva deciso di non farlo, un po’ perché si vergognava a dover chiedere e un po’ perché se lo sentiva, che quello era un segreto. Se Viru avesse voluto, quel biglietto lo avrebbe potuto poggiare sul tavolo della cucina, e invece lo aveva nascosto dentro una bibbia. Qualcosa le diceva che neanche sua madre sapesse che era lì. L’idea che suo fratello avesse lasciato qualcosa indietro per lei le dava speranza, le faceva pensare che forse lo avrebbe rivisto davvero.

I giorni seguenti erano stati peggio dei precedenti. Se prima Palidda si annoiava e basta, adesso l’attesa era un’agonia. Non aveva niente da fare, se non ripassarsi quel pizzino tra le mani, cercando di immaginare cosa suo fratello avrebbe potuto dirle. Sapeva che per le strade la gente si stava agitando, vedeva i suoi genitori più tesi che mai. In parte si chiedeva cosa stesse succedendo là fuori, per causare tutto quel casino. In realtà, però, le interessava solo di Viru e delle sue ultime parole. La bibbia la rubava ancora, di tanto in tanto. Ma sapeva che era inutile, tanto non sapeva leggerla. Avrebbe voluto fare quello che le diceva la maestra e affidarsi a Dio e alla sua volontà. Avrebbe voluto saper credere a quello che diceva, quando sosteneva che tutti i ragazzi che erano partiti lo avevano fatto per la patria e anche per lei. Avrebbe voluto convincersi che ci fosse un piano e un motivo, ma non riusciva a togliersi le parole di sua madre dalla testa. Si ricordava ancora le sue grida e i suoi pianti, quando era tornata da scuola e l’aveva trovata accasciata sul pavimento della cucina, aggrappata al piede del tavolo.

“U figghiu miu, si pigghiaru!”, urlava. “Quei bastardi me lo ammazzano, io lo so!”.

Tutto il vicinato gli aveva fatto visita nelle ore seguenti. Era venuta Lina, quella della casa di fronte, e sua figlia, Carmela, con cui Palidda aveva giocato a mosca cieca fino a pochi mesi prima. La madre non le aveva parlato per tre giorni interi. Non aveva parlato a nessuno, a dire la verità. Siccome suo padre doveva andare a lavorare e sua madre stava tutto il giorno a letto come se si fosse ammalata, spesso veniva lo zio a trovarla. La portava a fare una passeggiata quando poteva, oppure le teneva compagnia con storie di ogni tipo. Palidda lo sapeva che se le inventava, ma lui giurava fossero vere e le raccontava così bene che finivano per crederci entrambi. Le aveva detto di un bambino che si chiamava Giufà — era un po’ un crastuni e viveva per strada. Giufà era solo un picciriddo ma era intelligente, le aveva spiegato, anche se tutti dicevano che in realtà era uno scimunito che non era mai andato a scuola. Si cacciava sempre nei guai, ma riusciva a tirarsene fuori ogni volta. Lo zio aveva detto di averlo conosciuto personalmente, anche se Giufà sapeva nascondersi bene. Un pomeriggio avevano deciso di andare a cercarlo insieme. Prima di uscire, Palidda aveva messo i panni bagnati sopra la fronte di sua mamma come aveva chiesto lei, “così mi do una calmata”.

Per strada i militari americani li guardavano con sospetto, ma lo zio aveva detto a Palidda di non farci caso. Giufà non lo avevano trovato, però nel vederla così delusa gli americani avevano offerto a Palidda una tavoletta di cioccolato.

“Forse hanno portato via anche lui, sui camion dei soldati”, aveva ipotizzato la bambina. 
“Forse”, aveva detto lo zio.

Quando si poteva, Palidda accompagnava la madre a casa della vicina, per distrarsi. Si assicurava che il biglietto di Viru fosse ben nascosto sotto il cuscino, e poi la raggiungeva in cortile. Le due si facevano compagnia mentre pulivano la verdura. Quel giorno Palidda si era seduta su un gradino mentre sua madre sbucciava i piselli. Di politica di solito si cercava di non parlare, per non litigare. Di quei tempi era proprio impossibile, soprattutto perché sua madre era sempre arrabbiata.

“Hai fatto la cosa giusta, a farlo partire”, le aveva detto Lina.

“Nun mi lassaru scègghiri.”

“Quando una madre offre un figlio alla causa bisogna ricordarlo con orgoglio”, aveva continuato quella, imperterrita.

Sua madre era andata su tutte le furie. Si era alzata di scatto, rovesciando tutte le bucce dei piselli a terra. Le aveva detto che non era giusto, che suo figlio morisse così. Non era giusto che morisse lontano da casa.

“La patria nostra è questa isola qui, e puru idda va liberata dai fascisti e dagli oppressori!”. Era l’ultima cosa che aveva detto, prima di tornarsene dentro casa sbattendo la porta e lasciando Palidda fuori, ancora seduta a terra.

In quei giorni la Sicilia era in confusione come un formicaio. Ma era un disordine necessario: i siciliani si stavano organizzando, si stavano preparando a lottare. A Catania avevano bruciato il municipio perché i militari avevano sparato a un giovane sarto senza motivo. A Ragusa una donna incinta si era distesa davanti alle ruote del camion diretto al distretto militare e si era rifiutata di muoversi. L’avevano arrestata insieme ai suoi concittadini e l’avevano accusata di aver istigato la sommossa. In seguito l’avrebbero condannata e spedita a Ustica, dove avrebbe partorito lontana dalle rivoluzioni.

Palidda queste cose le aveva sentite dai suoi genitori, da suo zio, dai vicini di casa. Sapeva che stava succedendo qualcosa di importante, di molto più grande di lei che era solo una bambina testarda.

“Nun si parti, ma darreri nun si torna”, si sentiva urlare dalle piazze. I siciliani dicevano che non avrebbero accettato un altro ventennio, non sarebbero tornati indietro. Erano stanchi di mandare i loro figli a morire, ma ancora di più erano stanchi di saperli morti non appena li vedevano partire per la guerra. Avevano organizzato cortei, erano scesi in piazza e non si erano nascosti per scappare ai militari. La guerra l’avevano guardata negli occhi e l’avevano rifiutata. Si erano difesi come potevano, donne e uomini, e ne stavano pagando il prezzo. La risposta non era stata positiva: li avevano accusati di essere criminali separatisti e fascisti solo perché gli faceva paura che si stavano ribellando. Poi avevano arrestato ognuno di loro. Per difendere la loro terra dai fascisti e dai monarchici, avevano imparato che la violenza era un diritto di tutti. Palidda, tutte quelle cose, le guardava da lontano senza capirle come avrebbe voluto. Sospettava che sua madre partecipasse anche lei a quelle manifestazioni, ogni volta che la vedeva uscire tutta trafelata con una scusa. Suo padre faceva finta di non farci caso, si impegnava nel rimanere fuori quei dieci minuti in più per darle il tempo di rincasare prima di lui, come se non se ne fosse mai andata. Palidda li guardava mentirsi a vicenda, ma non diceva mai niente.

L’unica cosa che le era chiara era che tutti stavano facendo qualcosa, tutti stavano combattendo. E suo fratello? Chi combatteva per lui, quando se lo erano portato via prima che nessuno potesse fare qualcosa? Di aspettare, Palidda non ne poteva più. Allora aveva deciso che avrebbe sfruttato la distrazione di sua madre per scappare, e qualcosa lo avrebbe fatto lei. Così aveva messo qualche vestito dentro la sua cartella di legno che una volta usava per andare a scuola e aveva riposto il biglietto di suo fratello nella tasca della sua giacca. La gente si affollava per le strade, i militari con i fucili in mano si agitavano e urlavano cercando di sovrastare la folla. I giovani siciliani combattevano per scendere da quei camion, lei per salire.

Era sgattaiolata fuori poco dopo l’ora di pranzo, quando suo padre era ancora a lavoro e sua madre era fuori a fare chissà cosa. Aveva paura di incontrarla, e quindi faceva attenzione ogni volta che voltava un angolo. Tanto sapeva bene dove stava andando: nei giorni precedenti aveva osservato i militari e i loro camion, aveva capito da dove partivano e si era appostata proprio dietro uno, in attesa di poter salire. C’erano quattro uomini, lì davanti. Avrebbe aspettato che si distraessero per scivolare dentro e nascondersi. Palidda aveva atteso con pazienza per più di venti minuti, cercando l’occasione giusta. Quando le sembrò il momento adatto, mentre i soldati erano impegnati a chiacchierare tra di loro con la sigaretta in mano, si fece strada silenziosamente verso il camion. Era diventata brava, a forza di rubare la bibbia e poi rimetterla al suo posto più volte al giorno. La bambina si arrampicò aggrappandosi a tutto quello che trovava, impaziente di trovarsi dentro il camion come tante volte aveva desiderato. Per un momento immaginò che dentro quell’autocarro ci avrebbe trovato suo fratello. Ancora non sapeva cosa ci fosse scritto dentro quel biglietto che le aveva lasciato, ma le piaceva pensare che le stesse chiedendo di seguirlo. Aveva paura che sua madre l’avrebbe trovata, aveva paura che le avrebbe impedito di vederlo. Avrebbe dovuto nascondersi per bene come Giufà, avrebbe dovuto essere intelligente come lui. Un piede dopo l’altro era quasi arrivata in cima. Poteva quasi vederlo, Viru, sorriderle da dentro il camion, orgoglioso di lei. E poi si era sentita tirare indietro, e poi in basso e sempre più in basso, verso la terra. Allora aveva sperato fosse sua madre, ma le mani che sentiva pressare sulle sue costole erano troppo grosse, troppo callose, troppo decise. Erano stati gli americani a trovarla. In qualche modo erano sempre dietro l’angolo, a supervisionare ogni movimento. Palidda si era agitata e aveva cercato di divincolarsi. Il soldato la teneva per un braccio, l’aveva costretta a stare ferma e a guardarlo negli occhi. Era solo un ragazzo anche lui, alla fine. Aveva i capelli biondi e gli occhi di un colore che Palidda non aveva mai visto, e la mettevano a disagio.

“What are you doing here?”, le aveva chiesto.

“Devo andare da mio fratello”, rispose lei, cercando di indovinare cosa il soldato le avesse chiesto come indovinava i testi dei suoi libri di scuola. “Si chiama Viru, è partito due settimane fa.”

“Go back to your parents”, aveva detto quello. “You shouldn’t be here.”

“Voglio salire sul camion anche io”, insisteva Palidda.

“Go away.”

Palidda non aveva intenzione di muoversi. Appena il ragazzo aveva allentato la presa, forse sperando che se ne sarebbe andata davvero, lei era scattata di nuovo in avanti verso il camion.

“Hey!”, urlò un altro soldato. “Get off the truck!”.

La acchiapparono da dietro, le tirarono i capelli. Palidda si mise a urlare come una bestia ferita, attirando l’attenzione di tutti i passanti.

“State fermi!”, intervenne una voce familiare. Palidda non riusciva a vedere perché aveva gli occhi pieni di lacrime e i capelli davanti alla faccia, ma smise di gridare.

“La conosco io, questa crasticedda. Datela a me.”

I soldati si guardarono tra di loro, poi con un cenno di intesa la lasciarono andare. Palidda corse tra le braccia dello zio.

Per diversi minuti non era stata in grado di parlare, il viso paonazzo e la gola bloccata. Aveva smesso anche di piangere, ma non riusciva a guardare suo zio negli occhi. L’aveva portata lontano dai soldati, camminando a passo svelto.

“Cosa pensavi di fare? Eh?”, l’aveva ripresa lui appena si erano fermati, poco lontano da casa.

Palidda non aveva risposto, aveva tenuto gli occhi bassi e aveva sperato che il solito senso di vergogna sarebbe passato da solo.

Quando si convinse ad alzare il mento abbastanza da incrociare lo sguardo dello zio, vide che non era così arrabbiato come pensava lei. Anzi, le stava quasi sorridendo.

“Dimmi la verità, Palidda. Cosa stavi facendo, su quel camion?”

Palidda non rispose per qualche altro minuto, ma suo zio aspettò senza insistere.

“Volevo andare da Viru”, confessò infine tornando a fissare le sue scarpe.

Solo a quel punto lo zio sembrò tranquillizzarsi. Allora si sedette a terra, in modo da guardarla negli occhi.

“Ti spiego una cosa, piccirì”, le aveva detto. “In parlamento ci chiamano fascisti, ma noi fascisti non siamo. Ci chiamano accussì picchì nun ci piace che noi la nostra terra la vogliamo libera dalle monarchie e dalle armi. Per lei moriremmo mille volte, ma neanche una per Mussolini o per Umberto II. E stiamo morendo per le nostre idee, stiamo morendo per liberare la Sicilia dai feudatari e dai fascisti.”

Lo zio le sorrise di nuovo, come a volerla incoraggiare.

“E se ti posso dire la verità, se si può solo scegliere dove morire, allora meglio morire a casa propria. Tuo fratello ha fatto una cosa coraggiosa, ma so che se avesse potuto scegliere sarebbe rimasto qui. U capisti?”

Palidda annuì, di suo zio si fidava.

“Tu sì ntiliggenti, e chiaramente u curaggiu nun ti manca. Adesso anche tu devi fare la tua parte: t’ha stari ccà.”

Avevano camminato in silenzio verso casa. Lo zio non aveva raccontato niente a sua madre, e lei non aveva chiesto. Palidda aveva ricominciato ad andare a scuola, e aveva tenuto quel foglietto nella tasca del suo giubbotto per mesi. Poi un giorno si era toccata la tasca e il biglietto non c’era più. Si era disperata, aveva rivoltato la cartella e tornata a casa aveva smontato tutta la sua stanza, ma non lo aveva trovato. Ormai si era perso e insieme a lui si erano perse le ultime parole che suo fratello aveva voluto dedicarle. Palidda aveva pianto e pianto tutta la notte. Non avrebbe mai saputo cosa volesse dirle Viru.

Poi la guerra era passata, e Palidda era cresciuta. Aveva imparato a leggere e a scrivere come tutti gli altri, ma una bibbia non l’aveva presa mai più in mano per paura di cosa avrebbe potuto trovarci dentro. Le dissero che suo fratello neanche ci era arrivato, al fronte. Lo avevano ammazzato prima, mandandolo nelle trincee. Era morto come tutti gli altri, solo e senza motivo. Non avevano neanche trovato il cadavere per poterlo restituire alla famiglia. Suo zio aveva detto che era una disgrazia che tutti questi ragazzi fossero morti per la causa sbagliata. Palidda non trovava un senso a quella frase. Suo fratello era morto e lei non lo avrebbe rivisto mai più, non avrebbe mai saputo cosa voleva dirle. Era quella, la vera tragedia. Anni dopo, lo avrebbe capito. Ai siciliani veniva sempre chiesto di partire, mai di restare e lottare. Suo fratello e i suoi coetanei avevano lasciato tutta la loro vita per le bombe e le mitraglia e non avevano saputo perché. Però erano andati via comunque, e i loro familiari e concittadini avevano lottato comunque per chi era partito e per fare in modo che non ne partisse più nessuno. Aveva capito cosa intendeva suo zio quando diceva che “U curaggiu nun servi, per morire. Quello lo potevamo fare pure a casa nostra.”

Non era sempre coraggio, anzi, non lo era quasi mai. Era la paura di morire ammazzati ed era la voglia di resistere a ogni violenza e ogni tirannide per proteggere la propria terra e la propria famiglia.

Lei aveva cercato di costruire un futuro per sé stessa e per i suoi genitori. Era pure andata all’università e aveva studiato filosofia, visto che poi tanto babba non era. Quando aveva ventidue anni le era stato offerto di proseguire gli studi a Trento. Palidda era stata la prima della sua famiglia a laurearsi e sarebbe stata la prima a trasferirsi così lontano per studiare. Il pensiero la intimoriva ma la incuriosiva pure. Più volte aveva pensato a cosa poteva aver provato, Viru, quando era partito anche lui. Si chiedeva se era spaventato come lo era lei, e sperava che la loro terra li avrebbe perdonati entrambi.

Note bibliografiche 
La maggior parte della ricerca necessaria per la scrittura di questo racconto è stata svolta negli anni tramite la connessione e il dialogo con persone che hanno vissuto gli eventi qui riportati (in prima persona o attraverso i racconti dei parenti). Il sito dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), https://www.anpi.it, è stato la mia fonte primaria di informazioni e mi è stato molto d’aiuto tramite articoli come questo: https://www.anpi.it/una-storia-di-resistenza-dimenticata-i-moti-del-non-si-parte-sicilia. Mi sono servita anche delle foto, dei video e dei documenti dell’Archivio Storico Luce disponibili online.

Sofia Rigoli è nata a Palermo nel 2003, dove adesso studia all’università nel corso DAMS. Vive vicino al mare, per fortuna. Cerca di raccontare agli altri quello che sa e a volte anche quello che non sa. Quando non sta scrivendo sperimenta con i diversi tipi di arte visiva come la fotografia e il videomaking.

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