Nascondino

di Nicola Maria Fioni
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Fra le campagne che costeggiano le anse del grande fiume, proprio lì dove l’Arda s’allarga per esserci risucchiata, un’eco risuona.
«Sarà scappato sull’argine…» sussurra Mancini a Bianco, culo stretto, appoggiati al muro.
«Sei still!» tuona il tedesco medagliato quasi fosse una salva di rivoltella: «Wenn wir ihn nicht finden, bringen wir euch alle um.»
Dalle nostre parti si direbbe: «Fa zitto, che se lo truverem miä, ad massarem tüt!»
Eppure nessuno lo trova, Cudicini.
Quando quel furbone del tedesco si è girato per appicciarsi una sigaretta, lui ha fatto ciao con la mano da mercante, è saltato giù dalla finestra e se l’è svignata chissà dove.
Eh già, dove? Perché, che si passi da Cignano, come da Soarza o da Busseto, le vie d’accesso a Villanova d’Arda son bloccate: i partigiani di Castelveder hanno avuto la bella idea d’ammazzare un qualche tenente per fregargli una motoretta e ora, per far tornare i conti, ne han fermati venti dei nostri.
Poco importa che i documenti siano tutti a norma, i primi venti che c’avevano il nome o la faccia da partigiano li han presi tutti.
C’è Bazzana che ha solo quindic’anni, ma il torto di chiamarsi come quel combattente che in Val Padana si fa chiamare il Biscia; Torelli che è vecchio e buono a far ubriacare di vino e di parole le persone; Sanfelici che ha fatto le scuole dei dotti e Parisi che ha la sola sfiga di essere emigrato da queste parti nel momento sbagliato.
Ci sono Mancini e Bianco che li abbiam già visti e son sempre insema, poi Goretti, Bosio, che è un po’ troppo bruno, il piccolo Marinelli e altri di cui, non s’offendano, ma in questa sede non varrebbe la pena raccontarne.
I venti, ora diciannove, son tutti prigionieri in quell’obbrobrio che han fatto diventare il palazzo del Comune. Tutti che rischiano la vita. Sul serio. Mica da ridere.
La Maria, la signora che fa da interprete (si dice che se la fa con più di un qualche repubblicano lombardo), fa che se Cudicini non salta fuori gli brucian la casa, giusto da monito. Aggiunge anche che se non torna per i sei rintocchi della campana, faran cascare qualche testa.
Ma in dove s’è ficcato quel matto del Cudicini?
Cudicini. In paese c’è chi lo chiama vile, chi scaltro, chi Boeri perché è biondo come i coloni olandesi, e infatti di nome di battesimo gli hanno dato Albino.
È figlio della Grande Guerra e mentre fugge diretto non so dove per i campi, fischietta un motivetto che potrebbe essere se non ci ammazza i crucchi, che non serve essere certo comunisti né cattolici per esser anarchici e antifasci. Basta esser coraggiosi.
Cammina Cudicini, cammina erto nella piana e continua a inneggiare una qual canzone partigiana che magari se l’è addirittura inventata da lui, di sana pianta.
Ha gli stivali chiusi nella molta di ottobre, e a ogni passo fa un chaf che si sente solo nella terra d’autunno o fra la merda delle vacche che ci han pascolato.
«Cudicini, guarda che se ti va bene ti mettono dentro, sennò t’ammazzano direttamente.»
Ara la Viliana. Sta passando in bicicletta sulla strada che più che bianca è color polvere. Robusta ma bella, ha sedici anni e quando non tesse la tela, consegna giornali con dentro, pinzati di qua e di là, messaggi criptici e criptati.
Cudicini è basso in mezzo al campo, e per farsi sentire urla come chi non soffre la morte, o chi la soffre troppo.
«Viliana, io di farmi prendere da un tedesco, non c’avevo mica voglia. E t’assicuro che ne ho ancora meno ora che son almeno do óre che mi trascino in bel mezzo del fango.»
Ha un sorriso stanco. Stanco delle guerre, stanco del fuggire, stanco pure un po’ di fare il bravo.
La Viliana fa silenzio, pedala a passo d’uomo che schiacciare la ghiaia troppo irruenta, sarebbe come schiacciare il cuore del Cudicini.
«Albino, te ci hai mai giocato a nascondino?»
«Da pütel, perché te no?»
«Io non son mica come te che pensi solo a te stesso… io a nascondermi, ci gioco tutti i giorni. Tüt el dè.»
Alle quattordici di tedeschi di guardia ce ne sono cinque, che aspettano solo di muovere quelle MG che portano, chi nel fodero, chi già in mano.
Di colpi in pancia i nostri non ne hanno ancora presi, ma c’è qualcuno che non si sente un granché di stomaco. Stan “chiamandoli dentro”, a uno a uno, per farsi dire dove potrebbe essere finito quell’altro là.
Bianco, secondo solo ad Agliardi e Bazzana, è appena uscito. Sta ancora ammanettato, che guai se qualcun altro prova a fare il furbo, dice uno dei due “carabinieri italiani” sul posto.
Bianco Giovanni marcia accompagnato, diritto quanto può e non ha segni di percosse. Tiene gli occhi sbarrati come chi, in strada, segnala un posto di blocco con i fari, sperando che l’amico fraterno sia allerta. Dovrebbero andare in ordine alfabetico, eppure tocca già a Mancini, adesso. È il dilemma del prigioniero.
Mancini si caga addosso, che vorrebbe piangere.
I tedeschi, uno per lato, lo prendono per le asce, sudate come agli adolescenti che hanno appena scoperto l’amore.
Quello a sinistra ha un naso lungo da cane, gli strattoni di quello di destra invece sono quasi timidi: forse è un fifone o forse nemmeno a lui piace dover stare lì.
Mancini ora è riverso per terra e per rispondere all’interrogatorio tocca stargli mezzo sulle ginocchia. Tra lui e l’inquisizione corre un vuoto che sembra occupare tutto lo stanzino. A dividere Mancini dal tenente, che pare si chiama Von Mayer, c’è solo una scrivania, teutonica nella tempra quanto lui.
Di fianco c’è la Maria. Guarda Mancini con occhi da puttana che si è venduta per chissà quale prezzo incommensurabile e traduce.
«Col Cudicini siete amici voi, no?»
Come se quella là non lo sapesse.
«Abbiam fatto le scuole insieme, fino alla seconda.»
Elementare s’intende.
«Dove potrebbe essersi nascosto il suo amico?»
Mancini non parla: per prima cosa non è mica un infame, e poi lui davvero con Cudicini ha poco da raccontarsi, da quella volta che gli ha ciuffato duemila lire giocando a pinella.
«Guarda che non è mica mio amico… non saprei.» La voce di Mancini esce lenta e a scatti come il piscio dall’uretra dei vecchi.
Quella della Maria serpeggia fra un tedesco imbastardito e un italiano perentorio, ma dettato da qualchedun altro.
«Bianco… ce l’ha detto della bisca.»
Mancini, che già pareva un cadavere caldo, prende il colore del cognome del compagno. È davvero il dilemma del prigioniero.
Il corpo genuflesso si fa rigido come i pensieri, che in quei momenti lì la testa è vuota come alla lavagna davanti a una divisione.
Non è che Bianco abbia nominato degli affari che succedono nel retrobottega? E si che di solito è una tomba…
«Perché? È illegale giocare a carte?»
La Maria indica, con gli occhi più che coll’indice, il plico di scartoffie che tiene sulla scrivania germanica. Non serve nemmeno che il tedesco della Foresta Nera parli.
«Lo dite voi, Signor Mancini… e lo dice il Regio Decreto Legge del 19 gennaio 1931, n. 773.»
Per farsi più seria e convincere sé stessa quanto il prigioniero, la Maria sfoglia tra le carte e prende un foglio che per via della miopia del Mancini, per lui potrebbe anche esserci scritto “va al diavolo”.
Ma Mancini non è mai stato un gran pensatore, di solito ragiona col cuore. Fa un respiro forte che sembra abdicare: «Andate a casa di Cudicini. Entrate dalla porta dello stufone, magari lo trovate che conta i soldi… di certo c’è qualcosa che v’interessa.»
Il sole di ottobre seppur parco scalda le guanciotte di Cudicini, che ora è tutto solo nei campi in maggese.
Lo sfrigolio della dinamo della Viliana, insieme alle sue parole di staffetta, oramai si perdono tra i bianchi pioppi maculati della golena.
«Me durante il dè g’ho de laourà. E chi glielo dice a lei che anche io, magari, non nascondo qualcosa.» Balbetta Cudicini, che pensa che sarebbe anche l’ora di rientrare a ca’, oppure passar per la bottega, per vedere se sotto il suo tetto stanno tutti bene.
Ormai passeggia come chi ha da pensare Cudicini, che conosce quei campi come nessun altro. Ha fatto finta per una vita di fare il bracciante e mentre intortava i caporali, ne studiava i gesti e le frottole.
Al bivio che porta alla ferrovia, l’Albino svolta a destra che sennò c’è il pericolo di scivolare giù dal campo del Pedroni e di non riuscire a tirarsi più su dal fosso.
Passate le ortiche e i gerani ormai marci, il biondo boero riprende quella sorta di asfalto che parte dal curvone dove sorge casa sua, prende il viale e va. Va verso la sua seconda casa.
Il tenente Von Mayer ha ordinato a qualche soldato di basso rango di andare a bussare alla porta di Cudicini, che se nessuno apre, di sfondarla a suon di pugni, o di entrare dal retro, proprio come suggerito da quello che definisce il traditore, Mancini.
Dal Comune son partiti in due, quello feroce con il muso da cane e quell’altro che si vergogna di sparare. Non son più fieri ed eretti come un tempo.
E nemmeno così svegli che se avessero fatto più attenzione avrebbero visto che il Boeri, nascosto fra i bagolari schiacciasassi, spirava verso di loro come il vento che vien su, dalla parte opposta alla loro marcia.
A differenza dell’inquilino, la casa di Albino Cudicini non la si può mancare: è la seconda che si vede entrando in paese da Cremona.
È rosso mattone, ma diventa più rosina man mano che ci si avvicina al porticato che la affossa in una conca. Non appena era fuggito la mattina, sperando di trovarlo in panciolle impoltronato, le guardie avevano già suonato lì dal biondo Boeri ma non avevano trovato nessuno, nemmeno i fratelli; e se in mattinata erano stati avari coi toc toc, ora bussano ostinatamente con le nocche e col battente.
È un bussare convinto ma sordo, come se la porta fosse fatta di cartapesta.
Insiste il cagnaccio ma la porta non viene giù.
«Entriamo da dietro» dice in lingua madre a quello che non è propriamente un “compagno”.
Nel giardino di Boeri c’è un recinto che suggerisce che prima della guerra lì ci dormisse un bastardo.
Facendo attenzione non sia elettrizzato, i tedeschi lo tagliano abbastanza da farci un buco da passarci senza rimanerci impigliati col bavero della giacca o secchi, fulminati.
Dentro al recinto è pieno di buche e avvallamenti che il cane c’ha scavato per farsi la fossa o lì dentro c’è esplosa una qual mina.
Man mano che ci si avvicina alla basculante che scorre, chiusa da un lucchetto da armadietto del dopolavoro, si sentono dei respiri forti, bestiali; anche l’odore al naso è animalesco. Il tedesco che comanda esorta il giovane a darsi una mossa che lì c’è sicuro qualcuno, o meglio qualcosa, vista la razza. Obbedisce.
Poco prima delle quindici e trenta, c’è un timido sole che è già sulla via del tramonto e Cudicini ha deciso di costituirsi. Ha la scusa già bella che pronta da pronunciare, onesto, alla Maria e a quello che se la fotte: «Dovevo andar da mangiare alle bestie, a quei cinque capi che mi son rimasti. Che ci vuole tempo e sennò in tempi di guerra, anche quelle mi muoiono. Che già è morto il mio fratello Gino, che se l’è portato via il tifo o qualche altro malanno che inizia con la lettera “t”».
Se la ripete lungo il viale dove ha visto quegli arroganti dei tedeschi passare, questa storia.
«Mi manca giusto passare dalla bottega.»
È un paio di anni che il boero Cudicini si è messo a vendere le bovine per quanto gli è permesso.
In paese, proprio di fianco a Musetti, che aggiusta le biciclette e sta imprigionato anche lui, tiene una bottega in cui stocca i mangimi, per non far impuzzolentire nella casa rossiccia dove dorme senza più il papà.
Cudicini si avvicina furtivo, manco dovesse scassinarlo quell’ufficetto o se volete magazzino, che dovrebbe essere di sua proprietà.
Le serrande sono giù. Non è giorno di lavoro.
Girato l’angolo, passa per la servitù del Musetti, pregando che nessuno gli abbia fatto del male. La portoncina verde del retro bottega si apre con chiavi da scrigno, fuori misura.
«State tutti bene?», la voce supersonica di Cudicini, stavolta è un bisbiglio. Ha il dito davanti al naso a far segno di non fiatare troppo forte.
Uno zingaro di nome Ardit, circondato dai suoi bimbi, fermi come dopo un girotondo, gli fa segno con il pollice che è tutto ok.
I tedeschi arricciano il naso, che non han trovato né tartufi né uomini.
«Es sind nur Kätzchen!», esclama il giovane con occhi di sollievo, mentre piangono, piangono, piangono quei quattro gattini che dormivano nello stufone della casa rossiccia che oggi, come allora, apre le porte di Villanova. E che, grazie a chi ha avuto coraggio, fa come civico il 64, di Viale Martiri per la Libertà.
Nicola Maria Fioni è nato a Cremona nel 1996. Dopo una laurea in International Management e un biennio creativo alla Scuola Holden, ha firmato per brandstories i podcast “Dire Fare Curare” e “Così Vicini”, mentre per INinfluencer media ha scritto il programma “Motors” in onda su MotorTrend. Oggi lavora per il Branded Entertainment Department della casa di produzione Fremantle dove inserisce prodotti e servizi non troppo occultamente su “X Factor” e altri format. Di recente, ha vinto il premio Città di Cremona con il racconto “Il banco di Tazio”, mentre con Affiori Editore ha pubblicato “Verrà l’estate”, il suo unico romanzo.