Il canto
di Sean Ashmore
Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.
Salve, Regina, Madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, noi esuli figli di Eva.
A te sospiriamo, gementi e piangenti
in questa valle di lacrime.
Vibra nell’oscurità la nota in mi della sillaba finale. La decanta una sagoma illuminata da un’unica lampadina penzolante. In ginocchio con le braccia aperte, la bocca spalancata. La sagoma, l’uomo, il prigioniero 16670, non termina l’inno, non riesce. Rimane così, affannato, con le lacrime che gli solcano il viso. Un viso scavato dalla fame, dal terrore e dalla morte. Eppure, gli occhi non sono quelli di un disperato, ma quelli di un bambino. Eternamente incantati, sembrano guardare oltre la lampadina, il cavo, il grezzo soffitto crepato in cemento armato. Attraverso i grotteschi limiti del bunker in cui vi sono rinchiusi, penetrando oltre le tavole di legno e oltre l’area riposo riservata alle guardie. Volano attraverso il primo piano dell’infermeria e sopra il tetto su cui fuma una sentinella infreddolita, i suoi occhi, se non solo per un istante, bucano il buio cielo della notte, tra le nuvole, oltre l’atmosfera. Schizzano danzanti tra gli astri, con la sola luna come degna compagna dei sogni loro. La vergine luna, madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza…
“Prigioniero 16670! Se non la smetti con sti cazzo di canti, ti do in pasto ai cani”, abbaia un cane a sua volta, sbattendo sulla porta con i tacchi ferrati.

La sagoma cade, ritorna a terra tra il fango. Al suo fianco un uomo geme sofferente. Sulla gamba destra dell’uniforme lisa, il numero 16850. Sul petto, un triangolo rosso. Assieme a loro, sparpagliati nella stanza, sei corpi in putrefazione.
“Non ce la faccio padre, non ce la faccio, non voglio morire. Padre la prego, ho troppa fame, mi lasci provare. Il corpo, il corpo di David. La prego, è morto solo qualche ora fa”. La sagoma si raddrizza, guarda l’uomo nell’ombra. Gli aveva parlato dandogli le spalle, senza farsi vedere. Trema, piange, soffre. La sagoma gli accarezza la spalla, lo consola.
“Guardami”, sussurra la sagoma. L’uomo si gira. Immediatamente scoppia in un pianto diverso, non più dato dalla fame o dalla paura. Il sorriso della sagoma è perfetto, senza timidezza, senza angoscia. Si distende in un’armonia di serenità e compassione. Era lo stesso sorriso che lo aveva portato in quel bunker, lo stesso con cui aveva barattato la propria vita per la libertà.
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“In che senso Y. è scappato?”
“Sì sì te lo assicuro, non si trova da nessuna parte. Al risveglio, quella merda di S. l’ha cercato ovunque per la baracca e non l’ha trovato. Quel moiser è andato dal Blockführer. Ancor prima di dirgli cosa fosse successo stava strisciando a terra pregando che non lo ammazzassero.
“Quel pazzo, solo Dio sa quanto ce la farà pa…”.
“TUTTI FUORI CANI BASTARDI! FUORI DALLA BARACCA E IN FILA SULLA RIGA D’ISPEZIONE, SUBITO!”, urlò bestialmente il Blockführer. Con gli stivali lustrati e il colletto inamidato, il capitano delle SS Z. gocciolava di sudore, mentre stritolava i suoi guanti in pelle nera. Guardava uscire a occhi sgranati i prigionieri che immaginava sempre come ratti schifosi, magri e sporchi. Il capitano non riusciva a vederli diversamente e il solo pensiero che la maggior parte di loro, quelli della baracca 15, avessero potuto rappresentare un possibile pericolo per il Reich, gli faceva venire i conati di vomito. Li osservò inciampare uno sull’altro, farfugliando qualche parola sgrammaticata, spelacchiati qui e lì, con le uniformi a righe talmente larghe da farli sembrare quasi comici, e per un attimo gli venne effettivamente da ridere, poi notò l’uomo mancante sulla riga d’ispezione e non rise più.
Come poteva essere successo? Uno uomo fuggito sotto la sua sorveglianza, per di più un ebreo, uno dei pochi della 15, trasferito da poco insieme ai prigionieri politici. Pensandoci bene, si ricordò che lo avevano trasferito per colpa di alcune voci che giravano tra i Kapò dell’altra baracca, la 13. Originariamente non aveva voluto sapere il perché, gli interessava solo non perdere altri prigionieri prima del dovuto. Forse c’entrava qualcosa con quei sentito dire che aleggiavano qui e lì. A quanto pare, gli ebrei praticavano la Cabala durante la notte, mormoravano parole nel buio, sigillavano alleanze, si preparavano a vendette metafisiche. “Potrà mai essere?”, pensò, e se il fuggiasco avesse veramente fatto un patto con il diavolo, trasformandosi in un pipistrello o un ratto, uno vero? Sentì un brivido schizzargli su per la schiena e i peli del collo rizzarsi come antenne.
“Non vi è bastato aver cospirato contro il Reich! Cospirate anche qui, contro il campo, contro di me. Avete il tempo che io accenda una sigaretta, se nessuno si farà avanti, la pagherete peggio del prigioniero 15433 una volta acciuffato e ve lo assicuro, verrà preso. Ma ora non dovete pensare a lui e al suo corpo appeso a testa in giù dal pilone centrale… ora vi conviene pensare a voi, alle vostre misere vite. Fate pure con comodo, ci mancherebbe, lo sapete bene che per me, prima crepate tutti e meglio dormo la notte.” Il Blockfürer mise con calma i guanti nella tasca esterna della giacca, passò lo sguardo avanti e indietro per la linea d’ispezione, tirò fuori il portasigarette e ne estrasse una bianchissima e snella ospite. Con due dita recuperò la scatola di fiammiferi dal taschino sinistro e ne sfilò uno. Battè due volte la sigaretta sulla scatola, ma. attorno, solo il rumore dei merli e la brezza estiva.
“Tz tz tz tz, ragazzi ragazzi, cosa vi devo dire? Vi diamo tutte le possibilità di redimere le vostre schifose e inutili vite, vi facciamo lavorare, vi diamo dove dormire, da mangiare, ora anche la possibilità di fare giustizia, aiutando nella cattura di un fuggiasco pericoloso e infame. Io lo dico sempre al Lagerführer; dovremmo essere più duri con voi. Ma purtroppo, anche oggi, dobbiamo fare a modo suo. Kapò S.! L’elenco dei prigionieri, presto!”
Il Blockführer selezionò dieci uomini e fece loro fare un passo avanti. A uno a uno li passò in rassegna e a uno a uno li fece brutalizzare dalle guardie. “Voi, cari, siete stati selezionati per fare da esempio agli altri, non siete contenti? Andrete nel bunker a morire di fame. Vedremo se ad altri verrà in mente di fuggire”, disse raggiante, mentre teneva immobilizzata la testa gonfia e sanguinante dell’ultimo tra i selezionati. L’uomo boccheggiava con la faccia impressa nel fango. “Dieci, solo dieci me ne ha dati…”, diceva incantato il blockführer, fissando l’uomo che si dimenava. Gli pareva di osservare la scena dal di fuori, da un’angolazione un po’ diversa, più bassa e ravvicinata. Provava piacere, un piacere che non capiva, ma che non poteva arrestare. “Dieci…”, mormorò. “Ma anche se fossero undici. Uno in più o uno in meno, di questi vermi, cosa cambia?” Impossibile sollevare il piede ora, con lo sguardo del verme quasi perfettamente terrorizzato, così vicino, così impotente, a un passo dalla soglia.
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La sagoma osserva la scena dall’estremità della riga d’ispezione. Lacrime gli rigano il volto prima ancora che se ne possa accorgere, forse piange da ore, forse da sempre. Si muove verso l’uomo a terra, lentamente. Né il Kapò né il Blockführer si accorgono di lui. I suoi compagni lo spiano con la coda dell’occhio, prima l’uomo, poi la sagoma e infine il Blockführer, l’uomo, la sagoma e il Blockführer, l’uomo, la sagoma… il suo viso; se ne accorgono ormai che è a un passo dalla sua meta. Piange, eppure sorride senza remore, sembra un padre pronto ad abbracciare il figlio. La stessa realizzazione accomuna tutti. L’intento è chiaro, ma non solo, tutto sembra guadagnare senso, anche la scena assurda e brutale dinanzi a loro, e, alzando lo sguardo per la prima volta dal loro arrivo, anche il campo sembra mostrare un significato nuovo, velato.
“Blockführer, basta, la prego”, dice a bassa voce e con una calma fuori luogo la sagoma. “Non vede? Così lo soffoca”. Gli uomini sulla riga d’ispezione non possono credere alla scena davanti a loro. Molti sono stati partigiani, dissidenti o attivisti politici prima di finire nel campo, ma una volta arrivati, molto presto, hanno perso ogni forma di resistenza. Certe cose, nel campo, portano solo a sofferenza immediata e brutale, e per quanto forti prima, quando la morte certa, senza condizioni, ti attende dietro ogni parola, ogni respiro, nessuno l’affronta a testa alta.
La sagoma si china a terra. Aiuta l’uomo a ripulirsi la bocca dal fango e ad alzarsi. Il piede del Blockführer si ritrae meccanicamente, il suo sbalordimento è quanto quello dei prigionieri.
“Blockführer, la prego, scelga me al posto del Signor M. Ha quattro figli, una moglie. È così giovane, io ormai sono vecchio. Ci vado io nel bunker al posto suo. La prego…” Parla ora in piedi, davanti all’aguzzino, sempre con il suo sorriso, toccandolo sulla spalla. Il Blockführer non si capacita a tal punto che non può non balbettare “Dici sul serio? Nel bunker vai a morire, non pensare altrimenti…”
“Mi è chiaro Blockführer, chiarissimo anzi. La prego, lasci solamente rialzare il signor M., non c’entra niente con la fuga di Y., glielo assicuro. Dorme a fianco a me in branda. Senza di lui sarei già morto di freddo da un pezzo. Mandi me nel bunker.” Gemendo, pian piano, l’uomo coperto di fango si alza. La sagoma lo regge dirigendolo tra i compagni. La riga d’ispezione, e gli uomini ritti che la componevano, si è disfatta senza obiezioni e senza punizioni. Tutti si girano a guardare la sagoma mentre viene portata via, la scena surreale, il suono ovattato, le orecchi palpitanti dal battito del sangue in circolo.
La sagoma cammina tranquilla, sorridente, senza essere strattonata dalle guardie. Nel loro viso da bambini, anche se armati con grossi fucili e tempestati di scintillanti insigne, lo smarrimento. Il sole buca le nuvole e con esso ritorna il suono della brezza, i merli continuano il loro canto, gli astri il loro moto, gli uomini il loro respiro.
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“Sono morti solo due prigionieri, Herr Kommandant.”
“Herr Lagerführer, quando ho deciso di lasciare la questione in mano sua speravo in una risoluzione rapida e indolore e soprattutto speravo che la faccenda non disturbasse il delicatissimo equilibrio che rende possibile il funzionamento di qualsiasi campo.”
“Nessuno ha mai resistito oltre una settimana nel bunker, Herr Kommandant. Senza cibo, senza acqua, in quello stato, mai avrei pensato che dopo dieci giorni, più della me…”
“Herr Lagerführer, è mai stato in Africa? Ha mai sentito parlare delle lotte tra tribù di scimmie in quelle terre? Sa, ho avuto occasione di studiarle prima della guerra. Deve sapere che laggiù i branchi di scimpanzé lottano brutalmente per i territori e per le risorse, proprio come noi. Bene, da mesi studiavamo un gruppo enorme nell’Africa Orientale Tedesca. La tribù era cresciuta a dismisura e necessitava di più spazio e soprattutto, più cibo. Affianco a loro, viveva una comunità molto più piccola e a tutti gli effetti più debole. Quando finalmente ci fu la lotta, la disfatta della tribù svantaggiata era pressoché certa, ma accadde qualcosa a cui non riesco a smettere di pensare da quando sono qui, tra queste mura. Vede, durante lo scontro alcuni esemplari della piccola comunità vennero spinti all’interno di una caverna sopra la quale avevamo appositamente posizionato i nostri accampamenti. La tribù di casa, che ne conosceva gli anfratti, si lanciò nella caverna senza timore e, dal buio assoluto che ne edificava le viscere, iniziò a urlare. Herr Lagerfüher, io non so dirle se furono delle grida dettate dall’istinto di sopravvivenza o se le alte pareti di quel posto causarono il rumore che sentimmo allora. Le so dire soltanto, che alla fine, le grida terrorizzarono gli invasori e diedero forza ai deboli, i pochi sconfissero i molti.”
“Her Kommandant, glielo garantisco personalmente, non permetterò che alcunché disturbi l’andamento del campo.”
“Caro Herr Lagerführer, non prometta quello che non può e sul suo essere il mio certificato di garanzia non avevo già alcun dubbio, è proprio a questo che servono i Lagerführer, non ne era al corrente? Ora vada, l’aspetto domani per il suo resoconto giornaliero.”
Il Lagerführer uscì imperlato di sudore dall’ufficio del Kommandant. Non riusciva a spiegarsi la resistenza dei dieci prigionieri. Come tutti, aveva sentito i resoconti delle condizioni degli uomini chiusi all’interno del tugurio. I prigionieri, avendo realizzato velocemente il destino a loro riservato, invece che arrendersi, avevano iniziato a pregare, pregare e cantare. Guidati dalla sagoma, i loro canti si sentirono nei locali circostanti, la lavanderia posta a fianco, il locale pattume e smistamento a pochi passi di distanza. Quei locali, assolutamente essenziali per l’andamento regolare del campo, erano perennemente popolati di kapò, guardie e prigionieri. La posizione del bunker punitivo era stata scelta appositamente in prossimità dei prigionieri e degli addetti; un modo subdolo di infiltrare le menti, rammentando a tutti la sorte di chi osava resistere.
L’idea era stata proprio del Lagerführer, allora Blockführer. Tanto bene aveva funzionato il suo stratagemma che Herr Kommandant lo aveva nominato Lagerführer con nota al merito per l’implementazione tecnica di ingegneria sociale volte all’efficientamento del campo. Il metodo venne addirittura esportato in altri campi di simil portata e ciò portò a una lettera di elogio, firmata personalmente dal Reichsführer-SS, la quale, incorniciata e appesa a fianco al letto, fungeva da reliquia per il suo piccolo destinatario. Per quante notti, la lettera fu l’ultima cosa che il neo-Lagerführer aveva guardato prima di prendere sonno, immaginandosi il sorriso paterno di Herr Himmler intento nel porgli una medaglia alla giacca.
Ora, però, la grande idea rischiava di costargli grosso, forse tutto. Per colpa di una manciata di zeloti la stabilità del campo era in pericolo. Dopotutto, se dieci uomini condannati alla fame senza cibo né acqua potevano resistere alla morte cantando per giorni, cosa potevano fare 70.000 uomini con una zuppa al giorno? Una luce sembrava apparire dal luogo più buio del campo. E in un luogo fondato sull’oscurità e sulla totale assenza di speranza, un singolo punto di luce può comportare… “Cosa può comportare?”. Questo si chiedeva il Lagerführer, camminando ansioso per i corridoi del blocco centrale.
Nei giorni seguenti, morirono molti degli uomini nel bunker. Herr Lagerführer ebbe un’altra idea efficiente. La sera dell’incontro con Herr Kommandant si era sdraiato sulla sua branda, tremolante e con la lettera del Reichsführer-SS sott’occhio, aveva iniziato a rimuginare. “Come posso abbattere lo spirito di quei dieci fanatici? Ormai non posso farli fucilare nei boschi, significherebbe fallire agli occhi dell’Herr Kommandant e il mio bunker rischierebbe di sparire e forse pure io…”
Perso nei suoi deliri, il Lagerführer si scavò grattandosi un buco nella parte morbida della mano, tra il pollice e l’indice. Il sangue iniziò a macchiargli le dita e, ripreso dal suo incanto, lo notò d’improvviso. Si alzò di scatto terrorizzato, delle urla pietose e acute rimbombarono nella stanza. Herr Lagerführer era sempre stato impressionato dalla vista del sangue e aveva sempre rifuggito qualsiasi atto di violenza. Il suo sconforto non derivava dall’implicazione morale di questi atti, ma piuttosto da una paura fanciullesca e irrazionale dell’estetica legata a essi. Poteva facilmente svenire al primo fiotto di sangue o al primo brandello di carne. Ancora Blockführer, gli ufficiali colleghi di campo lo avevano iniziato a chiamare ‘Der Rattenmann’, in nome dell’espressione che assumeva nei suoi momenti di paura e svenimento.
Fu durante queste ansie e meditazioni che il Lagerführer trovò una soluzione al suo problema: avrebbe lasciato i corpi esamini dei morti nel bunker, lì dove cadevano. Sperava di demoralizzarli completamente. Anche se non osava immaginarselo, in modo astratto puntava sulla brutalità degli uomini, soprattutto su qualche istinto cannibale.
La strategia si dimostrò fin troppo ben studiata. Gli uomini, non mangiarono mai della carne dei loro compagni, ma morirono ugualmente uno dopo l’altro in pochi giorni. Alla fine, si sentì soltanto la voce della sagoma. Egli trattò ogni cadavere con la stessa cura. Cercò di asciugare e spolverare uno spazio su cui adagiare i corpi, li pettinò con la sola mano e gli chiuse le palpebre. Nel sottofondo di tanta miseria, non cessò mai di risuonare il canto. Le melodie non diminuirono mai nella loro bellezza, il volume non perse mai la sua forza, le note continuarono a risplendere limpide e certe.
Gli altri prigionieri, alle prese con i lavori nei locali circostanti, fingevano una patetica indifferenza. La loro finzione, però, non illudeva nessuno e ora dopo ora si scambiavano sguardi ansanti ogni qualvolta il canto veniva meno. A ogni nota che bucava il silenzio, i volti si illuminavano speranzosi. L’atmosfera si fece elettrica, le guardie ansiose, i prigionieri spavaldi. Il Lagerführer, ogni sera alle 20.00, verificava tremante lo stato del suo incubo e, ogni sera, raggiungeva gli uffici di Herr Kommandant preparandosi alle sue ampollose minacce. Da giorni non riusciva a prender sonno per colpa delle melodie sotterranee perpetuamente riecheggianti nella sua mente.
All’alba del ventesimo giorno, Herr Lagerführer sembrava invecchiato di dieci anni. Si guardò allo specchio, spessi cerchi neri contornavano i suoi occhi, il contrasto con la pelle sottile e chiara lo faceva somigliare più a un avvoltoio che al giovane che si era arruolato solo due anni prima. Non mangiava da tre giorni, le braccia gli parevano troppo leggere e le orecchie gli bruciavano per colpa di una febbre che non risultava al termometro. Passò la giornata nella sua stanza a camminare su e giù per i pochi metri che contenevano il letto e la scrivania, confabulando, piangendo, ridendo. Più volte strappò la lettera di Herr Himmler dal muro, fissandola incantato. Alle 19.00, mandò un sottoposto a controllare il bunker.
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La sagoma interrompe il suo canto. Non mangia e non beve da 20 giorni, ma non è la secchezza delle labbra, della gola e della bocca a fermarla. No, piuttosto è una luce bianca che si fa sempre più luminosa e distinta sul muro davanti. Inizialmente aveva pensato fosse uno scherzo della mente data dalla stanchezza e dal buio. L’unica lampadina penzolante si era spenta, e lui era rimasto solo, immerso nell’oscurità. Pian piano però, la luce si era distinta in un’immagine, un volto di donna.
Cerca di distinguere quella faccia. Finalmente, gli sembra di riconoscere qualcosa, o meglio, qualcuno, sì, deve essere lei, deve essere sua madre. Non la riconosce subito, data la giovinezza dei lineamenti, tratti che non può ricordare, forse che non ha neanche mai avuto modo di conoscere.
Per la prima volta da quando ha firmato la sua condanna, prova timore. Gli cade il capo. Con il mento sul petto, singhiozza disperato. Gli tremano le spalle, le braccia, le gambe, la pancia. Non vuole morire, tutto d’un tratto si ricorda di quando era ragazzo e sua madre gli faceva trovare una fetta di pane burro e zucchero dopo i giochi con gli amici. Vede distintamente il piatto bianco in ceramica con leggeri rilievi decorativi, rammenta il profumo di pane fresco, anche la voce dell’amico che lo saluta dalla finestra sembra riecheggiare con lui nel buio. Non vuole morire, non vuole morire… Infine, senza poter più distinguere tra sotto e sopra, avanti o dietro crolla a terra, sbatte la testa e galleggia nell’oblio. Non vede niente, non sente niente, non prova niente.
Il respiro si calma lentamente, apre gli occhi. Ora riconosce il viso di sua madre, è quello che ricorda nei suoi ultimi anni di vita, tra le linee uno sguardo felice, sereno, uguale al suo. Lo ricambia. Con sforzo e intento, si rizza ritrovando stabilità, si ricorda di avere ancora una scelta in quell’oscurità. Può sempre cantare. È libero, anche se in catene. La pace torna come un’onda delicata sulla battigia. Salutando in silenzio il volto che lo guarda tenero, si schiarisce la gola e riprende il canto. Con esso l’universo intero vibra e si assesta secondo le sue modulazioni. Ogni nota, ogni vibrazione, è contemporaneamente immortalata come eterna ed effimero sulla tela del mondo, il quale, immobile, sfreccia a velocità incalcolabile nella buia e fredda trama dello spazio.
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Ricevuta la notizia del canto continuo nel bunker, il Lagerführer corse in infermeria. Fece chiamare il dottore e preparare una sala. Cacciava ordini senza poter nemmeno sentire le parole che uscivano dalla sua bocca. I colleghi e i sottoposti imbarazzati, obbedirono a testa bassa cercando di intendere le sue volontà. Pronti in meno di un quarto d’ora, sbraitò che portassero immediatamente la sagoma nella sala. Le luci bianche al neon, l’odore di formaldeide e il fischio acuto che gli era apparso senza preavviso lo obbligarono a reggersi alla credenza dei farmaci, sbatacchiava le palpebre cercando di ritrovare un minimo di contegno.
Entrò la sagoma in quell’istante. In viso il suo sorriso. Tra le labbra, il suo canto. Il fischio nelle orecchie del Lagerführer sparì. Alzò lo sguardo, l’uomo gli sembrò immenso, alto quanto un palazzo, una spira che bucava il cielo, scoperchiando il tetto. Osservando il sorriso monolitico davanti lui per un’ultima volta la stanza inizio a roteare. Sbiascicò gli ultimi ordini e svenne sul posto.
Il prigioniero 16850 morì quella sera per via di una iniezione letale di fenolo. La sua morte non scatenò alcuna rivolta e non portò ad alcun cambiamento nel campo; eppure, il suo nome e il suo canto vennero raccontati dai pochi sopravvissuti, liberati più di quattro anni dopo da Auschwitz.
Questa storia è ispirata alla vita di Massimiliano Maria Kolbe. Il suo canto risuona ancora…
Sean Ashmore, nato a Milano nel 1993. Laureato in Filosofia, lavora agli Istituti Edmondo De Amicis. Dalla finestra di casa vede i tetti della città. Tra rotaie del tram e scie aeree sogna di scrivere storie.
Premere un tasto per ottenere che una stellina azzurra diventi visibile con un “mi piace” accanto, è terribile, dopo aver letto un racconto tanto straziante. Ho cliccato, come si suole dire, tuttavia. È una narrazione che trafigge.