I morti reclamano il pianeta
di Giorgiomaria Cornelio
«Con l’inchiostro, col giaietto, con la fuliggine, con l’asfalto e il bitume, la notte mi ricorda i suoi crediti. Con la polvere fine delle ossa calcinate, con la fumaggine delle erbe incancrenite, con la cenere dei libri condannati, la notte mi ricorda la mia nascita. Io sono figlio della notte.»
Roger Caillois, Aveu du nocturne
Poco suolo. Sempre meno.
A cosa fa la guardia un cane
se manca la terra? A chi?
I conquistatori, poppando
la frontiera, dicevano che
non sarebbe mai esaurita.
L’elenco delle risorse
era sempre più lungo delle
perdite.
Petroliere, cisterne, grossi
serbatoi, levigati e rotondi.
Senza fondo.
Le ragioni dell’usura
stirate a millenni, come giro
interminabile di sabbia.
In troppi, tra gli uomini,
trovavano niente serrato.
Bastava volerlo, annusare
da lontano lo scasso di
ogni sigillo.
Ora non più.
Ovunque
si riduce il suolo, non solo qui.
Si consuma
il governo dei viventi, mentre
i morti, a grandi falcate,
reclamano il pianeta.
Le cose s’aggregano a loro,
si fanno clima micidiale, gas,
forma di tossica atmosfera.
Tra poco
non ci sarà posto per nessuno.
Nessuno. Neppure un cane.
***
[Quando il dominio dei morti, dell’eredità, diventa occupazione, forma atmosferica del vivere? Come ci si ostina a vivere con la fumaggine, con la scrittura della notte? Non esiste una formula d’assoluzione della scrittura, e neppure del mondo. Comunque, c’è da proseguire]