Manuel Perrone – La casa
La Casa
Un giorno, davanti a casa mia, hanno costruito una casa.
Non penso avessero il diritto.
Non cosi.
Penso, anzi sono sicuro che ogni casa debba rispettare una certa distanza dall’altra.
E chiaramente questa regola spetta rispettarla alla nuova casa, non certo alla vecchia.
Non dico questo perché credo che chi arriva primo ha sempre ragione, sarebbe ingiusto tacciare la mia riflessione di immobilismo – anche se è una questione qui puramente immobiliare- o di esagerato rispetto dell’antico, penso, anzi sono sicuro, che una casa che è già li non può spostarsi solo perché ne arriva una nuova. Non può spostarsi, semplicemente, perché casa.
Anche la nuova casa, siamo d’accordo, non si può spostare, proprio perché casa, ma è quindi intera responsabilità di chi la progetta, la casa, di chi la costruisce, di stare attenti alle distanza dagli altri.
Il problema con questa nuova casa è che è un prefabbricato. Un modello svedese, ed è arrivata qui già fatta. Quindi l’architetto, dal nome esotico che sicuramente nella sua lingua vuol dir poco più che ingegnere, è all’oscuro di tutto, lontano, e soprattutto preoccupato da altro, non certo dalle distanze di questi suoi prefabbricati, che come figli illegittimi, vengono su un po’ ovunque, ben al di là del suo controllo o del suo volere.
Anche per i costruttori vedi come sopra: operai sudcoreani (cosi ci hanno promesso ribadendo il veto delle nazioni unite a adoperare manovalanze del nord della corea, pena sanzioni) hanno assemblato quel modello di casa svedese in un hangar molto lontano da dove poi, impunemente, senza rispettare le giuste distanze, è stata poi installata.
Ma qui viene il grosso del problema. Perché se non si può dare la colpa all’architetto, perché svedese e ignaro, al capomastro e i suoi operai, perché coreani e ignoti, non restano che i trasportatori.
Trasportatori che giustamente – giustamente per loro ma comunque con una certa logica oggettiva- rispondono che loro mica sono architetti e che un indirizzo è un indirizzo che la consegna è fatta e arrivederci al secchio. E op. Scomparsi anche loro. Non perché portoghesi ma perché trasportatori: si sono trasportati altrove.
E da li, l’increscioso evento è ricaduto tutto sulle spalle mie e del mio nuovo vicino. Più mie che sue le spalle perché casa sua, la nuova, la rea, affaccia comunque sulla strada, da dove una porta, prefabbricata in corea su un disegno svedese e consegnata con fermo pugno portoghese, permette la cosa più consona a una casa : entrare e uscire.
Mi si può contestare che una casa è anche un sentimento, quel nido mentale in cui riposarsi dalle malvagità del mondo fuori, che casa è concetto, e come concetto è un dentro : non un fuori e dentro.
È vero. Però come con tutto, se togli una parte anche il resto traballa. Non posso dire che abbiano cambiato la mia casa ma si che hanno modificato il resto, la sua relazione con il mondo. La sua e la mia. Perché la mia porta, che adesso apre su un muro di compensato di abete siberiano – importato in corea via il mar baltico, su disegno scandinavo e riportato da un lusofono tir – non solo non è più porta, ma non è più mia.
Dicevo le nostre spalle, mie e del mio nuovo vicino, perché in un primo tempo la situazione è stata anche in parte condivisa da entrambi.
Il vantaggio di queste case è che hanno pareti poco insonorizzate. Vantaggio non assoluto – forse un compromesso tra un sogno scandinavo e il materialismo sudcoreano- per l’evidente scomodità in casi normali, ma vantaggio per noi, o per me, perché ho potuto far parte della mia perplessità, e della mia cattività, al vicino. Perplessità – e non cattività- che ho condiviso attraverso la porta, che in questa situazione funziona come un telefono senza fili: si apre e si parla, e l’altro, dietro il compensato premeditato in fabbrica, sente e risponde. Basta non chiuderla e una discussione può avere una durata indefinita senza costi aggiuntivi.
Il vicino ha preso a cuore la mia incapacità a uscire di casa. Devo dire che con impegno ha rimontato tutta la filiera. A mia sorpresa l’ho sentito, al telefono, litigare in un ottimo portoghese con i trasportatori, inveire in un fluido sudcoreano con – immagino- il direttore della pre-fabbrica e insinuare rappresaglie in uno svedese che tradiva, se non delle origini, almeno una padronanza da lingua imparata in tenera età.
Insinuare in svedese, mi ha anche spiegato, è il massimo che si può fare per dimostrare il proprio disappunto.
Il problema è, abbiamo capito in seguito, quando era troppo tardi, che la responsabilità ricade, non sulla casa, ma su chi vive nella casa.
Una casa – sia ribadito qui anche se a priori sembra un’ovvietà senza conseguenze- in quanto immobile non ha responsabilità sui propri movimenti.
Neanche chi ci vive, potrete ribattere, e cosi ha fatto il mio vicino.
Solo che esiste una legge che definisce che ogni essere umano ha diritto a un cerchio ipotetico di almeno un metro e mezzo di diametro, dal suo baricentro, in cui nessuno ha il diritto di entrare, se lui non lo vuole.
Non potendo controllare il mio vicino tutto il tempo che passa in casa sua, e, avendo stabilito che io non posso più allontanarmi da casa mia, la legge ha stabilito che lui, e non la casa, doveva essere allontanato. È stato quindi sfrattato.
Tutto è bene quel che finisce bene, dirà qualcuno. Ma non certo io, perché da quando se ne è andato, tolto il fatto che sono stato privato del mio unico interlocutore, casa sua resta comunque tra me e il mondo. E, per giunta, è vuota.
Per questo mi permetto di scrivere a lei. Lo so che la nostra relazione non è delle migliori. E so anche che ha tutte le ragioni. Da quando io, cioè casa mia, siamo venuti a istallarci proprio sul suo selciato, lei non ha più potuto avere un accesso al patrimonio pubblico, cioè al fuori, al resto, oltre alla sua porzione privata di mondo. So anche che non è stato bello da parte mia costruire un muro in fondo al mio salotto per evitare di continuare a sentir le sue lamentele. Ma cosa ci vuol fare ? Non ero pronto.
Questa storia, a modo suo, mi ha educato.
Non lo dico con falsi sentimenti e mi scuso già se in questo mio “mea culpa” lei possa – a ragione- vedere un opportunismo. Ha ragione. Ma vedrà, che nell’aiuto che le chiedo, esiste già una punizione al mio comportamento.
Le chiederei gentilmente di denunciarmi alle autorità. Mi descriva come qualcuno di invadente. Qualcuno che non ha una vita propria: sempre in casa, ingombrante, immobile.
Dica che lei, cosi, non ce la fa proprio più.
Anche se ho paura che nel nostro caso l’incidente sia forse caduto in prescrizione, spero che cosi facendo vengano a sfrattarmi, quanto prima.
Non ho pagato il parcheggio da 7 anni ormai e vorrei almeno controllare che l’auto sia ancora li. Poi non potrò tornare e forse la casa mi mancherà, ma è un rischio che oggi sento che devo prendere.
Se non per me, per l’auto.
Le prometto che non le chiederò altro. E da li, almeno le nostre vite, se non le nostre case, si separeranno.
Illustrazione di Ettore Tripodi
È una casa cosa che non ha finestra o finestre? Gli hanno apposto anche pannelli sulle aperture delle finestre? Io sarei uscito dalla finestra, sì. Poi sarei andato da mio cugino Gino, che ha un trattore bestiale in frazione Gianberruto, e lo avrei fatto venire sul luogo del delitto e convinto a trascinare, rimorchiare via il coso/casa lusofono/sve/coreano! porcocane