Una richiesta di aiuto

di Massimo Parizzi

Su Nei dintorni di Franco Fortini, di Ennio Abate, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2025, euro 24

È un libro estremamente ricco, anche troppo, eccesso che mi sembra in parte dovuto alla tendenza di Abate, a volte, a dissezionare i problemi, porli e affrontarli punto per punto (si trovano spesso, in queste pagine, argomentazioni per punti, divisioni in categorie ecc.) Questo, ovviamente, non è un male in sé, ma in qualche caso può indurre a non cogliere il nodo, quello che conta, e ostacola l’intuizione, l’illuminazione, il colpo, come si dice, d’ala, che è quanto mi attrasse in Fortini nei lontani ultimi anni Sessanta e, pur con riserve crescenti nel corso del tempo, me l’ha sempre fatto amare. Inoltre, dall’accumularsi e succedersi di temi e figure della cultura e della politica dell’ultimo mezzo secolo e oltre i lettori, temo, possono rischiare di sentirsi frastornati, specie se, com’è ormai per la maggior parte, non hanno personalmente vissuto il periodo di lotte studentesche e operaie che va sotto il nome di Sessantotto. Non che in questo libro si parli unicamente di quegli anni, anzi: se il Sessantotto è un punto di riferimento sempre presente, il lungo rapporto di Ennio Abate con la figura e l’opera di Franco Fortini, di cui si trova qui, come scrive nell’introduzione lo stesso Abate, un «resoconto», inizia un decennio dopo, nel 1978, da una richiesta d’aiuto. Un gruppo di amici-compagni di Cologno Monzese, fra cui Abate, decide di pubblicare una rivista politico-culturale e scrive a Fortini chiedendo indicazioni, consigli. Lui risponde giudicando «assolutamente necessario» il progetto e offrendo i suoi consigli su di che cosa, come e per chi scrivere.

Queste pagine e quelle che le precedono e seguono sotto il titolo «Un filo tra Milano e Cologno Monzese» (pp. 9-34) coprono un periodo che dal 1967 arriva al 1994, l’anno della morte di Fortini, e sono a mio parere, se non le più interessanti del libro, le più intense: hanno al centro le attività, i progetti, i problemi, le speranze, le sconfitte, le delusioni di quegli anni, e ne vibrano. Ma temi e problemi politici e culturali tuttora di grande rilievo per chiunque ritenga indispensabile cercare una via d’uscita da quello che si deve continuare a chiamare capitalismo e dalla rovina cui esso conduce l’essere umano, almeno nella visione «alta» che ne hanno Abate e Fortini (e anch’io), temi e problemi del genere percorrono tutto il libro e informano la maniera di Abate di guardare a Fortini, che non è quella dello studioso, bensì del militante politico e culturale. Questo è per me il pregio maggiore di questo libro, che non è una biografia (anche se non manca di parlare, oltre che del Fortini intellettuale, saggista e poeta, del Fortini insegnante, marito e padre), e non è uno studio sull’opera di Fortini (anche se vi si trovano molte osservazioni sulla sua opera saggistica; meno, invece, su quella poetica). Si potrebbe quasi chiamare «una richiesta d’aiuto», cioè di ricerca nell’opera di Fortini di indicazioni, prima per combattere una battaglia politico-culturale, poi, nel «vuoto lasciato dalla sconfitta delle speranze di libertà riapparse nel ‘68-’69» (p. 7), per resistere e proteggere «le nostre verità», espressione fortiniana che ricorre frequentemente in queste pagine.

Ma, oltre al capitolo «Un filo tra Milano e Cologno Monzese», di pagine di grande interesse se ne trovano parecchie anche altrove. Mi limito a segnalare quelle che, a una prima lettura, mi hanno più colpito. Fra di esse c’è un capitolo datato 1996 su Fortini traduttore che, per il tema, potrebbe sembrare per specialisti, ma non lo è affatto. Consiglio, per rendersi conto di come vi si trovino osservazioni acute e d’interesse anche politico, di leggere «La traduzione del Faust» (pp. 40-42), in cui Abate osserva che Fortini «legge l’opera di Goethe come allegoria o “anticipazione e profezia” della nostra condizione contemporanea, che è una sorta di “paesaggio con rovine”, in cui convivono gradi diversi di autenticità e di vita, di forme cristallizzate e fluide, di esseri semivivi e semiferini, di idoli, di apparenze umane e inumane» (p. 40). Interessanti sono però tutte le pagine sul Fortini traduttore, in particolare quelle su Fortini e Benjamin (pp. 42-45). Ma si leggano anche le pagine in cui Fortini, muovendo osservazioni critiche ad alcune poesie di Abate (che, nel pubblicarle, dà prova fra l’altro di un’onestà intellettuale non comune), parla di «quel di più che l’a capo di solito dà in poesia» (p. 29).

Quella che ho chiamato «una richiesta d’aiuto» finisce tuttavia spesso, a partire dalla morte nel 1994 di Fortini, per rovesciarsi in quella che si potrebbe chiamare «un’offerta d’aiuto». Come se Abate avesse iniziato sempre più a sentire il dovere di aiutarlo lui, Fortini, contro quelli che gli sono sembrati l’oblio e la distorsione della sua figura e opera. E queste sono le pagine che, per varie ragioni, ho apprezzato meno. Ne sono un esempio un testo del 1996 (pp. 35-39), in cui vengono presi in esame interventi in morte di Fortini apparsi su vari quotidiani. Sono di una decina di intellettuali che Abate distingue in categorie «mettendo agli estremi le posizioni più contrapposte», quelle di Rossana Rossanda e Cesare Garboli. A leggerne il resoconto, non si salva nessuno, tranne, in parte, Rossanda (la quale, tuttavia, «ha dovuto giocare di cesello»). A me è parso che qui Abate, anziché il «cesello», abbia usato la scure, esibendo lo spirito polemico che, chi lo conosce bene, conosce bene. Quei dieci intellettuali, accusati di «cinismi, saccenteria, diplomatismi e animosità», finiscono tutti per sembrare, nel suo resoconto, nient’altro che lacché della «cultura massmediale italiana», complici in un complotto inteso a neutralizzare il Fortini comunista. «Eccezionale per cinismo e sufficienza» è giudicato l’articolo di Garboli. L’ho riletto: inizia dicendo «oggi, 28 novembre», il giorno della morte di Fortini, «è un giorno di dolore», e prosegue esponendo le opinioni di Garboli su Fortini, opinioni che si possono condividere o meno, ma non mi sembrano testimoniare «cinismo e sufficienza». A mio parere, avrebbero meritato un giudizio meno frettoloso e tranchant.

Ma anche altri capitoli mi hanno poco convinto. Uno, del 2017, è «La Cina di Mao e Solženicyn» (pp. 145-150), risposta di Abate a un post in cui Roberto Buffagni aveva accusato Fortini di essere stato, riguardo alla Cina e a Mao, un «credulone». Lo fu? No, dice Abate. E risponde a Buffagni punto per punto, ma mancando a mio parere, per la tendenza a dissezionare i problemi, come dicevo all’inizio, e anche, credo, per il desiderio troppo dominante di difendere Fortini, di cogliere e affrontare il nodo della questione. Che, secondo me, sta nell’affermazione di Buffagni secondo cui «il celeberrimo fine superiore di riscatto dell’umanità eccetera, è sbagliato». A questo «fine superiore» Fortini credeva (come vi crede Abate e vi credo anch’io) e, se fu un «credulone», lo fu su questo, non sulla Cina: sapeva benissimo quello che vi succedeva. Se sulla Cina e Mao prese degli «abbagli» (la parola è di Buffagni), fu perché rifiutava di credere che nella storia tutto dovesse sempre ripetersi, perché cercava di «strapparsi … alla ruota del sempre identico», parole che Fortini scrisse su «il manifesto» il 10 settembre 1976, il giorno dopo la morte di Mao, commemorandolo. Chi invece crede che la storia sia condannata a ripetersi non rischia, certo, di essere un «credulone», ma rischia, nel migliore dei casi, un blando progressismo e, nel peggiore, il nichilismo.

Ma, oltre a quelli citati all’inizio, meritano di essere segnalati per il loro interesse anche altri capitoli, tutti datati 2004. Uno è «La guerra, la pace» (pp. 123-126), in cui Abate ricostruisce il percorso di Fortini a partire dal suo richiamo alle armi nel 1941 e mostra bene come la guerra abbia costituito per lui un momento di svolta assoluto: «È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa» disse Fortini nel 1988 in un’intervista citata da Abate. A questo capitolo segue quello intitolato «Sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini» (pp. 126-127), un tema chiave. Qui Abate cita le opinioni al riguardo di Sebastiano Timpanaro, Michele Ranchetti e Rossana Rossanda, giungendo, dopo diverse stimolanti osservazioni, alla giusta conclusione che Fortini, «con la sua inquietudine mai conciliata, la sua realistica attenzione alla storia e la capacità di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha mai sottovalutato l’aspetto tragico della lotta tra le classi, ricordando testardamente a illusi e pentiti che “il socialismo non è inevitabile”». Di grande interesse è anche il capitolo immediatamente successivo: «La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam» (pp. 127-129), in cui Abate cita, fra l’altro, un’intervista di Fortini a «La stampa» del 13 settembre 1991, tre anni prima della sua morte quindi, in cui si legge: «È caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo». Come aveva, purtroppo, ragione!

Conclusione: nonostante le critiche che gli si possono muovere, e che gli ho mosso, Nei dintorni di Franco Fortini è un libro pregevole per diverse ragioni. Una, naturalmente, è che offre un’immagine ricca, sfaccettata e viva dell’opera e della figura di Fortini, che è stato un punto di riferimento per molti che nel Partito comunista italiano e tanto più, dopo, nei suoi discendenti, un punto di riferimento non l’hanno mai trovato, e che meriterebbe di essere letto e meditato dalle generazioni più giovani, al che questo libro può contribuire. Ma è pregevole anche, oltre che per l’interesse di molte delle sue pagine, quale frutto e testimonianza dell’impegno di Abate nel confronto con Fortini, un impegno intenso e ininterrotto. D’altronde, per la sua capacità di impegno e di iniziativa come poeta, pittore, promotore di riviste e blog, polemista, intellettuale, Abate l’ho sempre ammirato e sempre, lo confesso, invidiato.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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