Post in translation: Shakespeare
Nota del traduttore
di
Massimiliano Palmese
Faccio la guerra al tempo per tuo amore,
e più ti strappa, più ripianto il fiore.
Sonetto 15
C’è questa foto che ho in casa. Sullo sfondo Napoli 1944 da poco liberata e al centro una bambina con i capelli tenuti in cima alla testa da un nastro fermato in un gran fiocco bianco. Ha un abito a quadretti con le manicucce lunghe e corto sulle ginocchia, e ai piedi scarpette con gli occhielli. Ha una mano sul fianco in una posa sfidante, ma forse le è stata semplicemente suggerita dal fotografo.
La bambina è nata nel 1940 da un veloce matrimonio, e il padre, subito richiamato alle armi, tornerà a casa una volta a guerra finita soltanto per prendersi la valigia e scomparire. Lei, che per mancanza di mezzi non ha potuto finire la scuola, a quindici anni inizierà a lavorare in fabbrica per poi imparare a usare la macchina da scrivere e guadagnarsi occupazioni migliori. A vent’anni ha già un buon lavoro e un proprio appartamento e, sia per amore della lettura che per rivalsa, riempie la casa di libri. Romanzi, saggi. E poesia, tanta poesia. Sono nato in una casa piena di poesia. E la bambina nella foto è mia madre.
Molto piccolo mi sono avvicinato a questi strani libri dalle pagine bianchissime semivuote, con poche parole appoggiate su brevi righe e queste l’una sotto l’altra a formare quadrati o rettangoli di lettere. Che enigmi certe parole desuete, che fascino quelle combinazioni di sostantivi e di verbi. E di aggettivi e di avverbi. E poi gli explicit, questi fuochi d’artificio con cui sempre si chiude una festa.
Una festa di parole, di sensi e suoni, questo è stata da subito la poesia per me. E oggi, dopo aver scritto versi per molti anni, è ancora in una festa di parole che mi sono ritrovato traducendo i 154 Sonetti di William Shakespeare per le edizioni Marcos y Marcos. Questa bibbia dell’amore. Questo vangelo in 154 atti.
Ordinati per dedicatari – un giovane nobile di grande bellezza, il fair youth, e una misteriosa (o)scura donna, la dark lady – sistemati in gruppi tematici e pubblicati nel 1609, probabilmente senza il consenso dell’autore, i Sonetti di Shakespeare sono considerati a ragione tra le vette più alte della poesia lirica di tutti i tempi.
È, infatti, in uno stupefacente ventaglio di immagini che si dispiega la grazia di un amore omosessuale che, pur arroventato, sa riconoscere le necessità della natura e mettersi in attesa e in secondo piano davanti alla primaria esigenza che il ciclo della vita non venga interrotto: nei primi diciassette sonetti cosiddetti ‘matrimoniali’, Will, io poetante e probabile alter ego dell’autore, declina in vari modi la richiesta al fair youth, di sposarsi e fare un figlio, per non sprecare quel seme che dalla natura ha avuto in dono (o meglio, in affitto) come lo stampo stesso della bellezza. E quello stampo – modello, stampiglio, sigillo – non va usato egoisticamente ma per produrre eredi “perché rosa bellezza mai non muoia / e quando il fiore sarà declinato / un bocciolo ne porti la memoria”.
E già dal primo sonetto, nell’invito a procreare come a fiorire e rifiorire, entriamo nel rigoglioso mondo naturale che il poeta coltiva per noi come un raffinato giardiniere, tra boccioli, viole in fiore, alberi perfetti, semi e primizie; un mondo contadino dove le ragazze sono terre vergini in attesa dell’aratura; un mondo scaldato dal giovane amante come il grazioso sole sopra i colli ripidi del cielo, lui che ha negli occhi altre due stelle fisse, da cui possono trarsi ispirazioni e sapere.
La causa della procreazione è portata avanti sfogliando ogni buon argomento: s’invoca l’amore materno, per cui ogni madre in tarda età sarà consolata rivedendosi in un figlio come in uno specchio; si ricorda l’inesorabile cammino del tempo facendo balenare al ragazzo pericolose immagini invernali, tra fiori sfatti, alberi spogli e fasci di grano portati via sui carri insieme ai buoi, mentre il severo orologio segna il giorno spento nella notte scura ricordandogli che se non lascia un erede anche lui andrà a finire tra i rifiuti del tempo.
Il tempo, questa divinità nemica della giovinezza. Questa necessità che corre in direzione contraria alla vita. Questa disgrazia e questa maledizione. Occorre dunque restituire i doni di natura prima che quaranta inverni possano scavare trincee profonde sul viso della bellezza. E che cos’è un figlio se non un’estate distillata, la spremitura del meglio, sapore e profumo dei giorni che furono?
Nel sonetto 15 Will s’innalza filosofico: “Se penso che ogni cosa di natura / resta perfetta solo brevi istanti, / che sulla scena siamo figuranti / a cui le stelle fanno una fattura”; e se pensa che le creature siano come erbe, che si fanno marce ed erano superbe; se pensa che il tempo e la morte complottino perché anche il bello invecchi e si perda; se pensa che in questa finitudine non resti alcun senso per l’esistenza umana; se, insomma, l’amante vede l’amato sottoposto anche lui come chiunque alla severa legge dell’universo, Will si inquieta e si angoscia; ma l’angoscia, invece che abbatterlo, lo elettrizza, indicandogli la missione: “Faccio la guerra al tempo per tuo amore, / e più ti strappa, più ripianto il fiore”.
La guerra al tempo. A me pare il tema principale del canzoniere scespiriano e il senso più profondo della sua poetica. Ma, se il fair youth può combattere l’inverno disseminandosi in giardini e terre vergini, quale è la possibile guerra al tempo di Will?
Se il primo gruppo di sonetti suggerisce nella procreazione la modalità di sopravvivenza a disposizione del ragazzo, nel più ampio corpus di testi che arriva al sonetto 126 Will ci dice che al pari di un figlio solo l’arte – nel suo caso la poesia – ha lo stesso potere di distillare il meglio di un’anima e di sbancare l’eternità. “Dovrei dire che sei un giorno d’estate? / Tu sei molto più amabile e più lieve”, scrive nell’indimenticabile sonetto 18. L’estate è breve e col tempo ogni gemma si sciupa e la bellezza perde il suo smalto: non così per il fair youth, la cui eterna estate non sarà oscurata all’ombra della morte, ma difesa da Will in un’inespugnabile fortezza di parole: “E finché esisteranno occhi e sospiro, / tu vivo in questi versi avrai respiro”.
Perché la poesia, alchimia di emozione e linguaggio, ha conoscenze esoteriche: l’arte della distillazione. E se una rosa selvatica ha bellezza e colori, diverso è il destino della rosa più fragrante del giardino: la sua stessa morte sarà solo apparente, perché ne sarà estratta l’essenza. Se prima si trattava di un distillato genetico, un figlio – “Ma un fiore distillato non va in fumo / si disfa al freddo e poi vive in profumo” –, ora il distillato è tutto artistico e sono i versi a sfidare la morte: “Così sarà per te, giovane amato: / tu vivrai nei miei versi distillato”. Il perché resta l’enigma e la potenza della poesia: “Questo dà la mia penna quando tocca: / vita ad ogni respiro, ad ogni bocca”.
“Come le onde a una pietrosa riva / corrono alla deriva i nostri istanti, / scacciano i precedenti nella fila / e con affanno spingono in avanti”, così all’alta marea non sopravvivono né il marmo né i dorati monumenti: le statue vengono buttate giù con le guerre e i muri crollano ai colpi della Storia. Ma l’amore no. L’amato può vivere tranquillo perché regnerà eterno, custodito “qui”, in un castello di rime: “Qui c’è il tuo monumento per domani, / persi il bronzo e corone di sovrani”.
Figli e arte. Due vie di fuga dal tempo che a ben vedere sono una soltanto: in entrambi i casi l’arma in mano agli umani sembra essere quella di tramandare se stessi, sporgendosi come corpo biologico o come patrimonio culturale oltre il burrone del tempo, per provare a vincere l’orologio e l’incessante flusso delle stagioni.
E se da un lato è tutta filosofica questa visione tragica dell’esistenza come un’ìmpari guerra al tempo, sul rovescio della moneta Will fa comparire altri personaggi che completano il lato romanzesco di una complicata, spesso triangolare, storia d’amore, con i drammi della gelosia, la parte di commedia costruita da tradimenti e pentimenti, con la farsa di fughe e di subitanei ritorni (“viaggio ma torno poi tutte le volte”, “con l’acqua che mi lavi dalle colpe”), fino all’apparizione di comprimari, il poeta rivale e la dark lady.
Questa misteriosa donna è la dedicataria dei sonetti che dal 127 giungono al termine della raccolta. Oggetto d’amore e d’odio, di ammirazione e di lirici insulti (“Ti pensai bella e ti ho giurato pura: / sei nero inferno, sei la notte oscura”), la dark lady è la protagonista di una passione seconda ma intrecciata alla prima, storia di un amore meno ideale e più carnale ma non meno mareggiata di quella per il ragazzo. Ma è un triangolo che trova Will ormai stanco, ingannato da un furbo amore che gli abbaglia la vista a forza di lacrime, e lì sul punto di arrendersi: “Ma se m’hai quasi ucciso, tuttavia, / finiscimi di sguardi e così sia”.
Ed è a un’immagine di donna che anch’io voglio tornare. Alla bambina che ha tramandato se stessa in biologia e in cultura, lanciandosi oltre il limite del tempo nell’impresa di offrire con un figlio ancora vita alla vita, e con una biblioteca l’amore per la poesia. È il tentativo sovrumano di guerreggiare il tempo che appartiene alle madri, la decisione di mettere al mondo un figlio e circondarlo di bellezza: gesto enorme, insieme necessario e incosciente, artistico e avventato, provocazione al Nulla e urlo di speranza.
Poi ai figli subentreranno figli e poi altri figli, fino alla fine del tempo.
Noi senza eredi, invece, altro non possiamo fare che recitare la parte che ci è toccata: lo sforzo di coltivare e tramandare una nostra biblioteca interiore, fatta di passioni e studi, letture e scritture e riscritture. La mia biblioteca interiore comprende questo omaggio all’arte di William Shakespeare, nel tentativo di tradurre i suoi intraducibili Sonetti, provando a offrire una musica italiana alla musica inglese e i miei versi ai loro, così come di un grande immortale spartito ogni musicista offre ai contemporanei una propria personale esecuzione.
In ricordo di Claudia Tarolo, cui sarò sempre grato di aver offerto una casa alle mie traduzioni scespiriane.
*
30
Quando in dolce silenzio io talora
chiamo il ricordo delle cose andate,
piangendo quelle che ho desiderate,
lo spreco della vita mi addolora.
E annego gli occhi, insoliti a inondarsi,
per amici in notte eterna seppelliti,
dolori per amori ormai finiti
e tutti gli orizzonti ormai scomparsi.
Bruciano le ferite che ho da tanto,
e di dolore in dolore sembro andato
al conto delle lacrime che ho pianto,
come se non l’avessi già pagato.
Ma se in un attimo ti penso, amico,
nulla è perduto, e il dolore è svanito.
34
Perché hai promesso gran bella giornata,
senza mantello poi m’hai fatto andare,
sorpreso dalle nuvole per strada
che hanno nascosto tutto il tuo brillare?
Poi irrompi tra le nubi e vuoi venire
la pioggia alla mia faccia ad asciugare,
ma un farmaco non solo può cucire
la mia ferita: sa guarire il male.
Vergognarti non cura il mio dolore
che se ti penti ancora resta atroce.
Fai le tue scuse, ma non ha valore
se resto appeso a tanta dura croce.
Però, che perle lacrima il tuo amore,
e, preziose, riscattano il dolore.
55
Né il marmo né i dorati monumenti
dei re vivranno oltre questa rima,
tu invece sarai qui in versi lucenti
più di una pietra che il tempo sfarina.
La guerra poi rovescerà ogni statua,
il muro crollerà sotto la Storia,
ma il fuoco o di Marte quella spada
non bruceranno mai la tua memoria.
Su morte e oblio tu vincerai sicuro
e la tua lode non avrà confine
agli occhi delle età che poi in futuro
consumeranno il mondo fino in fine.
Fino al Giudizio in cui sarai tra i santi
tu vivrai qui e negli occhi degli amanti.