Per Gianni Sassi, fiancheggiatore di artisti
di Biagio Cepollaro
È da poco uscito Gianni Sassi fuorigabbia. Pubblicità, grafica, editoria, musica, ecc., curato da Filippo Pennacchio per Mimesis (collana Ricerche IULM; Milano, 2024, euro 26). Attraverso saggi, testimonianze, fotografie, il volume ricostruisce il percorso creativo di Gianni Sassi, figura poliedrica che fra anni Sessanta e Novanta del Novecento si è mossa fra gli ambiti creativi più diversi, collaborando con decine di artisti e intellettuali. In molti, ancora oggi, ricordano la Cramps Records, “Alfabeta” e MilanoPoesia, ma insieme a questi progetti ce ne sono moltissimi altri, spesso poco conosciuti, di cui il volume cerca di dare conto. Quella che segue è una delle testimonianze incluse fra le sue pagine. A firmarla è Biagio Cepollaro, il quale lavorò a stretto contatto con Sassi nei suoi ultimi anni di vita. (f.p.)
Gianni mi diceva: il mio compito è promuovere la cultura. La sua cooperativa si definiva “di promozione culturale” e si nominava Intrapresa. Con l’allusione all’impresa vi era tutta la scommessa “socialista” degli anni Ottanta: la possibilità di coniugare l’impresa con la cultura, le ragioni del mercato con le ragioni della ricerca e della sperimentazione. Questa scommessa era persa in partenza perché non esiste né potrà mai esistere un capitalismo dal volto umano, ma decenni di socialdemocrazia avevano illuso, la caduta del muro di Berlino era stata salutata (anche nelle sale della Cooperativa Intrapresa in quei giorni, in diretta, da una collaboratrice in Germania) come fine della guerra fredda. E poi è facile oggi per noi dopo quarant’anni di devastante neoliberismo irridere a quella sfida troppo spericolata.
Questa scommessa, intanto, aveva come effetto collaterale la ridefinizione dell’intellettuale così come si andava precisando dalla fine della guerra. Per promozione (titanica e donchisciottesca) secondo Gianni si doveva intendere lo sperimentare il proprio specifico in contaminazioni con il “fuori” dell’accademia, il “fuori” del partito, il “fuori” delle logiche tradizionali dell’editoria e delle case discografiche. La sua promozione riguardava in particolare la grafica, la musica, la poesia, la danza, le riviste, la cultura materiale. Lui era sempre in ombra, dietro la scena che montava per gli altri, per gli artisti, ma consapevole della sua vera forza che era la capacità di intuire immediatamente la qualità (la freschezza, la sincerità, la futuribilità) di un talento. Il “fuori” dell’arte per lui credo sia stata la partecipazione a momenti significativi dell’ultima avanguardia, di Fluxus, la cui logica per statuto cancellava le gerarchie consolidate e le relative istituzioni. In tale direzione andava anche il suo amore per la performance come forma d’arte e il principio del fluire costante dalla vita quotidiana all’arte, fino all’indistinzione.
Gianni al Lucky Bar mi spronava: “Cepollaro esagera!” insegnandomi a bere le diverse qualità di superalcolici… Ma cosa insegnava, lui cinquantenne a me allora trentenne? Il principio fondamentale dell’avanguardia storica: la trasformazione della vita, il coraggio dell’invenzione, della contaminazione, dell’irrisione e del rischio. La prima volta che lessi le mie poesie a MilanoPoesia nel 1989 ero molto teso e commosso, insicuro sul “come era andata”, e lui mi fece capire brusco che l’importante era che la lettura fosse piaciuta a me, che non doveva importarmi del pubblico. Quasi ogni giorno andavo in Cooperativa perché abitavo nei pressi e mi stupivo sempre del fatto che Gianni non si soffermasse sulle cose fatte ma era sempre su un nuovo progetto. A parte le ore al Lucky Bar non prendeva mai pause, neanche in estate, quando si trasferiva nelle Marche dagli amici Bucci e continuava a progettare. Non si concedeva neanche un attimo di compiacimento, era sempre dentro un nuovo problema da risolvere.
L’incontro con Gianni Sassi per me è stato decisivo. Coincide con l’edizione del 1989 di MilanoPoesia, con la nascita del Gruppo 93 nel suo ambito, con l’edizione della rivista “Baldus” per alcuni suoi numeri. Devo sempre all’incontro con Gianni l’esperienza di consulenza per la poesia italiana per le edizioni successive di MilanoPoesia, fino all’ultima del 1992. Grazie a questo straordinario art director, come amava definirsi, ho avuto la possibilità di incontrare a Ginevra John Cage nell’ambito di un festival di poesia sonora, così come, grazie alla frequentazione quotidiana del Lucky Bar, quel misto di intellettuali e imprenditori che animavano le notti della Milano socialista prossima alla fine che ha ispirato il mio romanzo La notte dei botti, scritto fra il 1993 e il 1997 e pubblicato solo nel 2018. Direttamente o indirettamente devo a lui la possibilità della mia amicizia con Amelia Rosselli, l’incontro con Paolo Volponi, Nanni Balestrini, l’amicizia con Giulia Niccolai e quindi l’esperienza del buddismo tibetano, i reading a New York, a Los Angeles, a Parigi e a Marsiglia. In generale devo a MilanoPoesia, e quindi a Gianni, la frequentazione di me trentenne, da poco trasferito da Napoli, dell’ambiente letterario della sperimentazione milanese e non solo.
Ciò che più mi impressionava era la sua capacità di valutare senza essere esperto del campo in cui si lanciava in giudizi. Si chiama intuizione, ma con questa parola non si dice molto. Quell’intuizione era probabilmente la stessa che ha un pittore quando sceglie un colore: non sa esattamente cosa accadrà ma sa che quel colore andrà bene per la mescola che sta per fare. L’intuizione riguardava la possibilità che quell’ingrediente desse vita a un nuovo piatto, mai cucinato prima. Era questo l’importante: la possibilità intuita di una novità finale. Si potrebbe pensare che questo sia propriamente il lavoro dell’art director e in un certo senso è vero. Ma in Gianni c’era qualcosa di inusuale: come azzardo grafico e ideativo non aveva rivali, così come nel valutare le persone, la loro reale motivazione, il livello di passione militante, lo spessore formale, la verità dei contenuti. Implacabile il suo giudizio, veloce, perentorio, insindacabile. A molti faceva paura con quel suo cappello nero e la figura massiccia e imponente: era capace di esplosioni rabbiose che risuonavano per tutti i locali dell’Intrapresa. La mancanza di puntualità nelle consegne, di fedeltà alle promesse, di sincerità lo facevano immediatamente imbestialire. Aveva dei criteri etici di conduzione del lavoro intellettuale, e tali criteri coincidevano ai suoi occhi con l’ossatura morale della persona. Gli piaceva la mia svizzera puntualità (io, napoletano) perché gli ricordava il padre operaio, il rigore spartano dell’industria. A pochi non sfuggiva invece la sua timidezza, il suo sorriso pronto a sparirgli dalla faccia e la sua tristezza da Frankenstein, suo pseudonimo per le incursioni musicali.
Per me c’erano almeno tre Gianni: quello burbero e intimidente della Cooperativa Intrapresa (accoglieva chiunque solo su appuntamento), quello che insegnava con i racconti e gli aneddoti di vita e di arte e infine l’amico personale di bevute e non solo. Mi trasferii a casa sua per una settimana quando provai la prima volta a separarmi da mia moglie. Fu affettuoso come un fratello maggiore.
Il Gianni della Cooperativa era irascibile al massimo grado, bastava una parola meno che umile da parte del suo interlocutore per muoverlo all’irrisione impietosa. Ciò che non sopportava era la presunzione, il darsi delle arie, la chiusura moralistica degli intellettuali, la mancanza di pudore degli artisti. La presunta torre d’avorio, la presunta nobiltà del lavoro intellettuale rispetto alle altre dimensioni del lavoro lo esasperavano. La sciocca vanagloria degli intellettuali gli era intollerabile. Ciò che al contrario apprezzava era la schiettezza, la semplicità, la “realtà” della presenza. E la puntualità, va ripetuto, in massimo grado. Il Gianni della Cooperativa mi affidava degli incarichi che mi stimolavano sempre perché erano fuori dal mio ambito di competenze. Dovevo stiracchiarle quelle competenze e questo mi imponeva delle ricerche, mi obbligava al nuovo, al nuovo per me. Oppure gli incarichi erano facili ma da svolgere in tempi strettissimi. Mi telefonava, per esempio, e mi chiedeva di trovare dei versi di Pascoli che andassero bene per un’etichetta di vino. E gli dovevo la risposta in mezz’ora. Ma poi collocava me trentenne in tavole rotonde di MilanoPoesia con degli intellettuali affermati perché diceva che in qualche modo garantivo la presenza dello spirito della manifestazione in quelle situazioni, una sorta di garanzia di fedeltà allo spirito di MilanoPoesia, che considerava la sua creatura. Il pomeriggio, la sera e talvolta la notte al Lucky Bar mi ripagava di questo e di altri miei lavori offrendomi da bere (Vodkatini, Martini cocktail, Old fashioned, Manhattan con cinque gocce di angostura) e con le cene preparate dal mitico Carlo Bozzoni.
Il Gianni insegnante raccontava le sue imprese giovanili come pioniere della pubblicità degli anni Sessanta, la sua militanza politico-culturale sempre fuori dagli schemi di partito. Insegnava a osare e a seguire il proprio spirito di rivolta. Quando mi trasferii a casa sua per quella settimana di cui scrivevo prima, trovai all’ingresso i pacchi della sua ex compagna, pacchi che dovevano essere lì da molto tempo… Un dolore per quella separazione di cui non parlava mai ma che la sua casa, poco o nulla abitata, diceva in ogni angolo. Quel dolore personale, intimo, restava senza parole ma credo che intensamente lo lavorasse dall’interno, nel profondo.
Poi la malattia, la vicinanza in quel breve percorso di scarse speranze, la sua forza d’animo (e ostinazione a fumare, rassegnato e indifferente), la sua morte e i pochissimi amici presenti nella sala mortuaria del Policlinico. Poi il funerale, invece, con tanta gente, una folla composita proveniente dai vari ambiti del suo lavoro, dalla musica alla grafica, alle riviste, alla poesia, alla danza e al teatro. Io accompagnai la bara leggendo una poesia che gli avevo dedicato, leggendo rivolto alla bara, accompagnando il mio amico così mentre la mia gratitudine si mescolava alla gratitudine di tutti i presenti. La sera in pochi amici andammo a bere al Lucky Bar sapendo che non era finito solo Gianni, era finita la Milano della cultura aperta alle differenze, mentre la Lega aveva preso il potere e tolto i finanziamenti a iniziative culturali come MilanoPoesia. Nel 2002 dedicai a lui e a mio figlio Carlo Fabrica, il libro scritto fra la sua morte e la nascita del mio bimbo.
Gli hanno dedicato da poco una strada a Milano. A lui che si definiva un “fiancheggiatore” di artisti. E me lo vedo che ride a mezza bocca scalpitando per andare a fare qualcosa di urgente.