L’infinito non basta
di Saverio Simonelli
per gentile concessione dell’editore Città nuova pubblichiamo un capitolo di “L’infinito non basta”, romanzo di Saverio Simonelli, di recente pubblicazione
Già dalla sera Franz ha preparato il frac. Lo stesso che indossa per i concerti. Si adatta perfettamente alla snellezza del suo corpo. Lo accompagna. Suona assieme a lui. Il concerto, quando ha tutti gli sguardi su di sé. Stavolta invece sarà una spalla, un comprimario perché al centro, come vuole la tradizione, ci sarà la sposa anche se sarà un matrimonio semplice, privato, nascosto. Lui e lei di fronte a Dio, pensa, e quel bravo prete di San Carlo in via del Corso.
Come saranno stati belli i suoi genitori a suo tempo. Anna e Adam. I loro occhi che si cercano e per pudicizia si sfuggono. Le mani, fredde come il ghiaccio che alla fine si stringono, messaggere di emozioni al corpo. E tutto attorno una festa sicuramente sobria ma affollata, partecipe. Parenti, amici, bambini vestiti da paggetti, bimbe con le ghirlande di fiori tra i capelli. E magari il sacerdote sarà stato il vecchio amico di suo padre, quello del monastero di Malacka.
Gli torna in mente la prima volta che il padre lo ha portato lì per farglielo conoscere. Aveva appena nove anni ma ricorda un po’ tutto, ricorda il primo sguardo sulle guglie, la torre all’ingresso, solida e larga alla base, quella della chiesa, svettante, come le finestre, si chiamano bifore gli aveva detto il padre.
Si rivede all’angolo a destra della grata d’ingresso. Lo attraggono i fruscii davanti al cespuglio di felci. C’è un merlo che zampetta e due farfalle che si inseguono. Il padre gli prende dolcemente la mano e lo accompagna all’interno, per il cortiletto lastricato di mattonelle grigie scontornate da sottili inserti di marmo più chiaro.
Guarda verso l’alto e poi abbassa gli occhi verso suo figlio. E racconta. Franz un po’ ascolta e un po’ se ne va in giro col suo di sguardo che si sofferma sulle tegole spioventi. Alcune sbeccate, altre appena scolorite. E ancora il fregio in cima al portale. Poi arriva padre Joseph e quei due cominciano a parlare.
E però quei discorsi Franz non li vorrebbe sentire. Qui tuo padre ha vissuto per due anni assieme a Joseph e a molti altri amici. Vestito così da sacerdote, con quel lungo abito nero, la talare. È la prima volta che sente quel termine, un suono estraneo, fastidioso, che gli comunica una sensazione sgradevole, perché in quel momento non vuole immaginargliela indosso. Vestito da prete. Padre Adam, come suona male pure questo. E lui? Lui, piccolo Franz, un figlio che non sarebbe mai nato se il padre quella talare l’avesse mantenuta. Perché i preti non fanno figli.
E allora pensa che poteva non essere.
Al posto di Franz Liszt uno spazio vuoto, un vuoto che gira per il mondo al posto mio. E invece sono frutto di una scelta nella sua storia, nonostante quegli anni lì, il marmo della chiesa, l’abbraccio con l’amico ricambiato. E allora io non voglio più vederla questa chiesa, questo marmo e questo Joseph. Mi stacco da loro e torno davanti al cespuglio. Tocco le foglie ancora un po’ umide di rugiada, mi guardo intorno a cercare il merlo. Ma sento i passi affrettati di mio padre che mi rincorre. È qui, si è fermato qui, non vi preoccupate dice ad alta voce.
Non voglio voltarmi indietro. Proprio no. Meglio tenere fuori il mondo esterno e riempirsi la testa di note. Meglio stare con me stesso e basta. Solo così quella vista potrebbe essere sopportabile. L’idea per una musica, senza la realtà.
Senza la realtà. Eccola invece che arriva puntuale attraverso le imposte. Si annuncia in silenzio con la prima luce autunnale che filtra e disegna strisce chiare sul pavimento della stanza. Franz apre la finestra. La strada è ancora deserta. Oggi è il 22 ottobre 1861, il giorno in cui compie cinquant’anni, il giorno in cui sposa Carolina. Lui ora è in piedi davanti allo specchio. Si pettina i capelli, spolvera la manica sinistra dell’abito, controlla i gemelli, aggiusta il colletto e sistema meglio il cravattino. Di solito è l’ultimo gesto rituale che compie prima di entrare in sala e sedersi allo strumento.
Allora si avvicina alla piccola scrivania, la ruota di novanta gradi, allenta le cerniere, apre la ribaltina come un libretto in tutta la sua larghezza. Si siede, chiude gli occhi e comincia a pestare con le dita da sinistra a destra e viceversa. Lo fa una, due volte. E come scorrono veloci le sue dita, forti, duttili, sempre dominanti. Come scorrono. Non deve neanche comandarle, non si preoccupa di come debbano rispondere perché semplicemente sono su un pianoforte e sente anche la risposta del legno, sente come adesso quella superficie si anima, si anima e risuona. Poi la pressione si fa più lieve, una carezza, soprattutto con la destra, la sinistra invece riprende a premere forte, il basso deve risuonare profondo, colmo. Adesso incrocia le mani e sente nelle orecchie il gridolino di sorpresa di un ascoltatore. A lui piaceva così: devono assistere a un miracolo, convinti di quel miracolo. Non semplicemente la trovata di un virtuoso, ma la dimostrazione che lui la musica la può trattare come vuole, può farne quello che vuole.
Ma poi c’è questa cosa del matrimonio. Il matrimonio lo attende tra breve e lui, lui sta suonando? Suona il legno ma sente le sue note. Sta suonando lo sposalizio. Lo sposalizio della Vergine, il quadro visto a Brera, che l’ha ispirato ed è diventato musica, lui l’ha reso musica negli anni di pellegrinaggio. Sono passati quasi venticinque anni da quando l’ha visto la prima volta. Era il 1837, lui a Milano con Marie. La grazia di Raffaello appesa alla parete. Era immagine, ora è nel flusso degli elementi. Non più solo immobile e consegnato agli sguardi, grazie a lui riempie l’aria, la fa vibrare, la fa muovere. Vive. È una realtà, senza la realtà.
Sente bussare al portone. Poi una voce, che lo chiama per nome. Signor Liszt! Signor Liszt. Si alza, imbocca la porta, scende la scala e apre il portone. C’è un messo con un plico sigillato in mano. È del parroco, dice. Lui lo prende, fruga nelle tasche e gli porge due Paoli. Lo saluta e gira sui tacchi. Aspetta che si allontani e poi strappa il sigillo.