L’evangelizzatore

Immagine generata da AI

di Marco Marra

Sogna. E nel sogno c’è un lago e nel lago abita il drago. Il drago è enorme e terribile e ha il corpo lercio squamoso rossastro che sbrilluccica d’una luce impossibile. Il drago sta fermo a mo’ di fenicottero rosa al centro del lago, la coda penzoloni che pare una mazza ferrata, e anch’esso – ch’è già frutto del sogno dell’evangelizzatore – in qualche maniera riesce a sognare di cose ch’a nessuno è dato conoscere. Nel sogno dell’evangelizzatore: l’evangelizzatore costeggia la riva del lago, il bastone a sostenere il suo peso di carne e spirito, e avanza ansante senza distogliere lo sguardo dal drago. D’un tratto il cielo, dapprima furente e quasi luminoso sebbene triste e tetro come solo nelle fantasticherie troppo simili alla realtà, si squarcia e dallo squarcio emerge una figura radiosissima e solenne di donna. La donna è vestita di sole e sotto i suoi piedi schiaccia la luna e il suo capo è inghirlandato da una corona di dodici stelle. La donna ha il volto di chi è santo e l’espressione triste tristissima di chi sta affrontando l’ultima battaglia, e mentre una delle sue mani stringe il fiore bianco l’altra si pietrifica nell’imposizione del pantocratore. Quando la donna vestita di sole inizia la discesa dal cielo, il drago si desta e scioglie il gomitolo che nascondeva le sue sette teste. Tre teste hanno due corna e quattro teste ne hanno una. Le teste che hanno quattro corna appartengono a Nabucodonosor e a Marcione e a Caiàfa, le teste che ne hanno una appartengono a Simon Mago e a Saladino e a Abu Isa Muhammad ibn Harun al-Warraq e a Guido di Lusignano. Su ogni testa spicca un diadema e ogni diadema più che un oggetto pare estensione delle squame del drago. Alla vista della donna vestita di sole il drago ruggisce d’un trimbulo acutissimo e stridulissimo e stonato e afono, giacché ogni testa emette un suono diverso e ogni suono diverso è bruttissimo e dolorosissimo. L’evangelizzatore capisce che sta per infuriare la battaglia e ha paura e si guarda attorno in cerca di un rifugio ma attorno a lui vede solo desolazione. S’acquatta in prossimità d’una roccia ch’emerge di sghimbescio dal terreno umido e chiude gli occhi e si mette a pregare.

Quando smette di pregare riapre gli occhi e vede la donna vestita di sole ch’ora è circondata da troni e da cherubini e da sette figure. Tre figure impugnano la spada e quattro figure impugnano lo scudo. Le figure che impugnano la spada sono quelle di Melchisedec e di Simon Pietro e di Costantino il Vincitore, le figure che impugnano lo scudo sono quelle di Febe di Cancrea e di Sant’Elena Imperatrice e di Giovanni il Battista e di Baldovino IV di Gerusalemme. Quando il drago ruggisce di nuovo allora scoppia la guerra e la guerra che scoppia è combattuta nel cielo. Il drago è fortissimo e ogni sua testa mostra poteri incredibili che taluni scambierebbero per miracoli, tant’è che l’asticella sembra pendere in favore del mostro quando le figure che impugnano la spada paiono soccombere e gli scudi delle figure che impugnano lo scudo paiono danneggiarsi. Allora la donna vestita di sole innalza la mano pietrificata nell’imposizione del pantocratore e benedice il drago e le sue teste e lascia che il fiore stretto nell’altra mano appassisca e che i suoi petali appassiti si posino sui diademi che ghermiscono le teste dannate e allora il drago brucia e si lamenta e si dimena e vomita. Vomita i corpi atrofizzati e semi-digeriti di tutti i miscredenti e pure dei credenti che hanno agito senza rispettare la nuova ed eterna alleanza e dopo affonda. Affonda nelle acque del lago insieme ai corpi rigurgitati. L’evangelizzatore, convinto d’esser ormai salvo, esce allo scoperto ma non appena lo fa al suo sguardo disappaiono le figure che impugnano la spada e le figure che impugnano lo scudo e pure i troni e i cherubini e finanche la donna vestita di sole, ascesa al cielo e seduta alla destra, ove solo le madri possono essere. Allora s’ode una gran voce e la gran voce dice: «È stato precipitato l’accusatore del Figlio dell’Uomo e i giusti, sia quelli armati di spada sia quelli armati di scudo, hanno avuto salva la vita per mezzo del sangue dell’Agnello, che ha imposto le sue mani sulla Madre e le ha permesso l’intercessione dei poteri dell’Onnipotente per mezzo di lei. Esultate dunque voi giusti, ma non abbassate la guardia, poiché è stato sconfitto il drago fuori di voi ma non quello dentro di voi. E pure il drago fuori di voi, ch’ora dorme senza vita sul fondo del lago, potrebbe essere un giorno destato dal drago che alberga dentro di voi.»

L’evangelizzatore si sveglia che non ha ancora fatto l’alba. Sta avvoltolato nella tunica e nel mantello, tutto rannicchiato ai piedi di un ulivo rinsecchito, in mezzo al nulla. L’ulivo è un tronco storzellato le cui radici si propagano a apparato arterioso prosciugato e le cui fronde ne paiono l’immagine specchiata. L’evangelizzatore si stiracchia, s’inginocchia, prega, ringrazia il Signore e poi l’ulivo e bacia il tronco ruvido e screpolato e poi si alza. Il cielo è un parapiglia di nubi che s’aggrumano e si squartano e da quegli squartamenti tralucono chiarori che l’evangelizzatore cerca di decifrare senza successo. Raggruppa le quattro cianfrusaglie che porta con sé, le aggomitola nella sacca di iuta, la solleva, se la carica in spalla, stringe il bastone, affanna, s’incammina. Al sorgere del sole attraversa un letto pietroso che era un lago o un fiume antichissimo – il lago che ho sognato? si domanda – e percorre una distesa vuota che nemmanco il deserto e solo dopo ore di cammino raggiunge la magra vena d’acqua che bagna quel vuoto. S’attarda per bere, e giacché lo fa con troppa foga tossisce, poi mugugna, biascica qualcosa, si massaggia la gola, beve, riprende il cammino. Passa davanti a un grande sepolcreto là dove anni prima s’era combattuta la battaglia tra gli uomini del luogo e gli invasori e che aveva visto, come troppo spesso accade, il massacro e la cacciata degli uomini del luogo e la vittoria degli invasori. Le ossa ammucchiate e i teschi fracassati e le armature rotte e le lance spezzate e i denti strappati agli sconfitti. Prosegue seguendo la corrente del fiumiciattolo e pian piano iniziano a spuntar fuori arbusti e piantacce paludose e qualche alberello – devo essere sulla strada giusta, pensa. Per ore sfila a moribondo o a pellegrino del deserto, senza perdere mai di vista i piedi sotto di sé e l’acqua accanto a sé e l’orizzonte innanzi. Un corvaccio l’accompagna per parte del tragitto svolazzando sopra di lui come fosse carogna ambulante poi si stufa o chissà che e se ne va lasciando che la sua sottile sagoma sia risucchiata dalla lontananza.

All’imbrunire dello stesso giorno l’evangelizzatore avanza tra chiostri d’arenaria, sorpassando santabarbare di polvere del deserto e torrucole e castelletti messi in piedi dai turbini di vento. Attorno a lui elevazioni di marna e boschi di impossibile terracotta e montagne, montagne squagliatesi in scisti di zolfo e voragini di roccia sedimentaria. Decide di non fermarsi pure ch’è già notte ed è buio buissimo e inizia ad aver paura. Paura delle cose che non vede e paura delle cose che sognano nei suoi sogni. Altre ore di cammino e altri paesaggi contraddittori e il fiumiciattolo che mai s’arresta e gl’indica il percorso, poi finalmente vede il promontorio e ai piedi del promontorio la caldera fumante al cui centro s’erge in rovina la cattedrale detta Dei Padri del deserto. La cattedrale detta Dei Padri del deserto è una stalagmite costruita dall’uomo, è una protrusione di roccia levigata, è un ricettacolo pietroso di silenzi non-testimoniati, è antica – dicono alcuni – più dei Padri del deserto e più del deserto e più della fede e più del credo e più della parola. L’evangelizzatore s’appropinqua all’ingresso, lì dove la terra è macchiata e sembra ch’ogni macchia vada in direzione dell’ingresso come ombra impressa d’un preumano assedio. L’evangelizzatore varca la soglia, setaccia l’oscurità che invade la navata, annaspa, sente freddo e si domanda come sia possibile, il suo respiro forma delle nuvole bianche nell’aria che com’è possibile sia così fredda. Penetra la navata, è tutto nero nerissimo, compie passi a tentoni, calpesta sassi e mattonelle conflagrate, inciampa in cumuli di pietrisco, si rialza, prosegue. Alza lo sguardo verso l’alto e ora vede la luce trafiggere l’oscurità. La luce giunge dalla vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare. La vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare mostra scene che non dovrebbero essere mostrate, scene che non sono ammesse, scene che sono raccontate solo nei codici di Nag Hammadi. La luce batte sul crocefisso che s’innalza nella tenebra e il crocefisso brilla e vince contro la tenebra.

L’evangelizzatore s’arresta a pochi passi dall’altare, si prostra, bacia il suolo sacro, si segna, pispiglia preghiere. Ode tuonare e pensa che fuori sta per infuriare la tormenta. Fa dietrofront e raggiunge la soglia e scorge fuori. Fuori è tanto spaventoso che l’evangelizzatore si segna e invoca la protezione della Stella radiosa del mattino. E continua a osservare: turbini di vento che mulinano severi e che trasportano guazzabugli di cose del deserto: polvere e sabbia e serpenti e polvere e sabbia e serpenti. Quando la raffica aumenta d’intensità, l’evangelizzatore si ripara ancora nelle profondità della cattedrale detta Dei Padri del deserto. S’accoccola in un antro e si fa piccolo piccolo nella tunica e nel mantello e annaspa e fissa il crocefisso che brilla e pensa che non deve temere nulla. Pensa alla sua vita passata e trema per la paura. Pensa alla sua vita futura e trema per la paura. Pensa alla sua vita presente e trema per la paura. I denti che battono – da quando ho così paura? si domanda – e la pelle che si fa tesa e puntinosa e i piedi vecchi e stanchi e zeppi di calli ch’ora sono ghiacciati. Passa la notte – o il giorno? o le notti o i giorni? da quanto sono qui? si domanda – lì fino a quando non sa che la tormenta è finita e che il vento ha smesso d’infuriarsi e che i turbini hanno disperso polvere e sabbia e serpenti. L’evangelizzatore si tira su, si prostra, si segna, pispiglia le preghiere mattutine, si tira su, s’approssima alla soglia, smiccia fuori, fa su e giù col capo, s’incammina. Tira dritto molto a lungo, fermandosi di tanto in tanto per bere ripiegato sulle ginocchia e sui gomiti a mo’ di bestia, e quando gli è possibile attraversa il guado e prosegue. Sa d’esser vicino quando comincia a vedere campi grigi e senz’erba. S’infila nei campi grigi e senz’erba. E attorno nessuno e il suo corpo triste e curvo e stanco è l’unico taglio dell’orizzonte alle sue spalle: spettro d’un profeta, imperatore della polvere e della sabbia e dei serpenti, epigono dei patriarchi nell’arsura e nel paesaggio smerlettato. Solleva gli occhi al cielo sopra di lui e il cielo sopra di lui è un cielo duro, un cielo lastra di marmo. Poi aguzza lo sguardo sulla traccia che sta seguendo e osserva i campi sterminati e desidera scorgere finalmente i tetti e il campanile e la torre a baluginare sulla sponda di quel mare prosciugato che per miracolo ancora non se l’è divorato. Per giorni e giorni, o per minuti o ore che sembrano giorni, tira dritto e i campi grigi e senz’erba pian piano mutano nell’aspetto e divengono tappeti di fiori da campo disseccati, sepolcreti infiniti di radici sminuzzate da chissà quale apocalisse, teatri di malerbe fetide atte a parodiare calderuge e peloselle e ipomee blu. S’arresta per riprendere fiato e ode il silenzio, il silenzio lo assorda e lo spaventa che gli sembra d’udire un borbottamento squittente o una filastrocca con dentro un segreto come la data della sua morte o qualcosa del genere. Butta fuori il fiato. Il fiato sembra un’anima che esce per non entrare più. Sente freddissimo e pure caldissimo.

Riprende il viaggio. Ad un osservatore esterno sembrerebbe precario morente disordinato primitivo sventurato. Ma un osservatore esterno non c’è, che sia Dio o cielo o uomo o bestia, nessuno l’osserva o se lo fa lo fa distrattamente e senza badare a lui. L’evangelizzatore stringe i denti, sente d’essere un essere sorto dalla terra assoluta o un senza nome indistinguibile dal proprio miraggio o un antenato morto e dimenticato in un’era precedente a ogni nomenclatura e a ogni distinzione. Per troppo non scorge nulla e nulla cambia e quando proprio pensa d’aver sbagliato strada chissà come e d’esser perduto, ecco allora i tetti e il campanile e la torre a baluginare in lontananza. L’evangelizzatore avanza il passo e oltrepassa sia il giorno che la notte e gli alberi frantumati e la foce a delta del fiumiciattolo prosciugato e tutte le miriadi di fioriture di vulcanoli di melma color melma. Si trascina penosamente, le ginocchia scricchiolanti e schiena a uncino e la testa incassata tra le spalle, e raggiunge le coltivazioni che circondano l’abitato. Le coltivazioni che circondano l’abitato sono bugigattoli a cielo aperto o pietose imitazioni di vere piantagioni. S’estendono in ogni direzione, pugnalate da solchi acquitrinosi e stagnanti di non-acqua grigia e lattiginosa. Sono attraversate da carri e buoi e uomini: uomini glabri e bianchicci: uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. E se n’accorge l’evangelizzatore, che lo guardano come non fosse uomo. Li vede somigliare a comprimari di un sogno in attesa dell’inizio del sogno del sognatore, o a sonnambuli o ancora a spauracchi di carne. Li vede e avanza e mentre avanza loro esaminano il coltivo o parlano sottovoce o dormono su sacchi stesi a terra o per terra o mangiano. Qualcuno sorride d’un sorriso tetanico. Uno di loro sguscia dalle spalle di un altro, stringe l’impugnatura della ramazza e si mette a scopare in mezzo al campo. Spinge via la sabbiolina e il pietrisco e non fa altro che alzare polvere e s’innervosisce ma nessun altro gli dà retta e lui sfascia la ramazza e la lascia lì per terra e si spinge dove non dovrebbe spingersi e si mette spaparanzato sopra l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso ma s’innervosisce ancora e torna a prendere la ramazza rotta e la frantuma contro l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso. L’evangelizzatore l’osserva di sguincio e lo vede pure quando quello fa una mezza piroetta e si mette a scavare con una pala che strappa di mano a un altro che invece sta immobile come tutti gli altri: pietrificati in mezzo alla coltivazione che la coltivazione pare una coltivazione di uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Uno di loro è esausto e tossisce e tossendo cade a terra e la terra è dura e lui si porta la mano al petto e al petto, dove dovrebbe esserci il cuore, c’è un foro e con la mano attraversa il foro e si gratta la scapola che dilacera dalla schiena tumefatta e incancrenita. Uno di loro smette di grattarsi e si tira su come fosse tirato su dal filo d’un burattinaio e stanco stanchissimo torna alle spalle dell’altro da cui era sgusciato e si rimette all’opera. Più avanti ce n’è un altro. Un altro sta curvo verso un abbeveratoio ch’è solo una pozzanghera e beve con la testa ficcata sott’acqua a mo’ di bue o di talpa e quando la solleva sputacchia ranuncoli di terriccio e solleva gli occhi al cielo.

Il cielo è un parapiglia di nuvolette che affiorano come bubboni e si scontrano e si dipanano e sembrano grattugiare la calotta celeste. Un altro smette di guardare il cielo e si mette a fissare l’evangelizzatore e lo fissa come solo è in grado di fissare un uomo: da uomo che guarda un altro uomo come fosse una cosa. Un altro si stringe le braccia attorno alla vita e si prende a cazzotti sui fianchi e sulle costole e il suo corpo si spreme e si dimena e si svuota di viscere e liquidi e di spirito. Lo spirito di cui si svuota è nero carbone e quand’esce dalla bocca spalancata di Un altro fiotta via scutrettolando tra i campi e tra gli altri uomini immobilizzati e che guardano gli altri uomini come fossero cose. Un altro ora è senza spirito e vomita sangue e piscia sangue e caca sangue e con le ultime forze afferra una pala e si scava una tomba in men che non si dica tant’è ch’è impossibile sapere come abbia fatto in così poco tempo e ci si accascia dentro e ricopre se stesso trascinando il terriccio e la sabbia e le radici sradicate verso il fossato. L’evangelizzatore avanza che i tetti e la torre e il campanile sembrano esser lontani come o più di prima e che la sequela di tristezza e nefandezza ch’è l’uomo non sembra finire. In là altri uomini tutti uguali glabri e bianchicci e che guardano gli altri uomini come fossero cose. In là il cielo è simile a uno smalto e non dà luce ma n’è zeppo. In là coltivazioni di grani inesistenti altrove e stormi di uccelli che non dovrebbero esistere o che non dovrebbero esser dove sono: gazze ladre e nittibi dagli occhi nero-diavolesco e fregatidi gonfi come testicoli di gibbone o nasi di nasica. Sciamano a banchi e si cimentano in evoluzioni e strane danze e quasi sembrano concertare incantesimi e fatture da scagliare ma poi si perdono oltre il promontorio e oltre ancora. In là, dove ora è l’evangelizzatore, gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini sono tantissimi. A fiotti nascono dalla terra come patate e alcuni sono piegati su se stessi come sacchi di patate bucherellati e altri stanno lì fermi e altri ancora fanno cose strane.

Uno di quelli che fanno cose strane fa una cosa strana stranissima: si nasconde dietro a un largo edificio ch’è stato una polveriera – com’è possibile se nemmanco è stata costruita la prima polveriera? – e di soppiatto si getta addosso a un gallinaccio e ci lotta com’Achille lottò con Ettore o come Eracle lottò con Cerbero o come un altro personaggio mai esistito lottò con un altro personaggio mai esistito. Uno di quelli che fanno cose strane schiatta a terra il gallinaccio e gli spappola il cranio a pugni e con un coltello che stringe tra i denti gli mozza la testa spappolata e la testa del gallinaccio muore ma il su corpo no e si mette a scorrazzare in lungo e in largo fiottando sangue nerastro che impregna il terreno. Il terreno che s’impregna del sangue nerastro avvizzisce o magicamente si fertilizza e ne escono funghi bubboidali e gramigna funestante. Il corpo del gallinaccio gira in tondo e quando ha perso troppo sangue s’accascia a terra morto anch’esso. Uno di quelli che fanno cose strane afferra il cadavere per la zampa scagliosa e lo trascina a pochi passi. A pochi passi Uno di quelli che fanno cose strane spiuma il gallinaccio e incide col coltello sotto la pancia e dilania la carne tenera ed estrae stomaco e intestino. Innalza stomaco e intestino verso il cielo, il cielo che manco più è simile a uno smalto ma che ora è un ginepraio di nevischio bollente fuligginoso. E invoca la protezione degli idoli ch’egli venera come dio. Uno di quelli che fanno cose strane venera come dio Astarte e Lammasu e Zababa e Eshmun e Ghilgamesc falso profeta. Uno di quelli che fanno cose strane rivolge parole lusinghiere a ognuno di questi idoli. Allora un fulmine colpisce Uno di quelli che fanno cose strane e Uno di quelli che fanno cose strane stramazza al suolo abbrustolito crepato.

L’evangelizzatore ora avanza – quant’è passato? Che sia notte? Che sia giorno? si domanda – e vede i tetti e la torre e il campanile più vicini ma più s’avvicina e più le sue visioni si deturpano e più la sua vita s’imbruttisce e più vede cose che sono un’idiosincrasia alla ragione. Vede uomini che lavorano la terra. Gli uomini che lavorano la terra zappano e estirpano e trascinano erpici o zavorre o aratri. Lo fanno tacendo, gli occhi assenti, e di tanto in tanto arrestandosi senza apparente motivo e lasciando gli attrezzi lì abbandonati e allontanandosi chissà dove fino a quando qualcun altro non li sostituisce e non eredita gli attrezzi. Gli attrezzi sono strani stranissimi: grovigli di spago e cordame spiluccato surclassati da tubolari di rame rugginoso che spiraleggiano in trapanazioni storzellate e oblique, ramaioli abnormi alti e larghi e porosi sostenuti a perno da mazze per fare a botte e zeppi di scopettoni ancorati al dorso come fossero la corazza di un istrice, aracnidi di ferraglia sostenuti da zampe che sono sarchiatori e foraterra e rastrelli e forconi e vanghe, innaffiatoi sminuzzati in pezzi senza logica agglomerati a cromlech attorno a gabbiette per uccelli in cui gli uccelli sono pinocchi di paioli in legno cinti in piume azzeccate alla meglio, e poi ancora erpici o zavorre o aratri e erpici o zavorre o aratri. Gli attrezzi sono strani stranissimi: tutti ricoperti da tele tese a mo’ di vela di vascello ma troppo elasticizzate e flessibili e di color ebano. Dalle tele sguizzano ogni tanto grumi di peli e denti e unghie e occhi e peni flosci e costole e vescicole e pure capelli, capelli d’uomo. Le tele puzzano di cadavere – Lo sono davvero? si domanda l’evangelizzatore – e c’è chi le pulisce con una spugna che quelle sembrano gorgogliare e che i peni flosci che ne fuoriescono s’ereggono e che quindi sembrano assurgere a imitazioni spiaccicate di uomini morti crepati ma che credono d’esser ancora vivi. E forse non sono altro che quello.

Gli uomini che lavorano la terra trascinano queste macchine anatomiche, questi teratomi da sforzo agricolo, queste scimmiottature d’apparato industriale rivestite da membrane epiteliali, e nel farlo sembrano pensare. Pensare a cose frivole, come gli imbecilli nelle tensioni dell’esistenza. Alcuni uomini che lavorano la terra s’accapigliano in uno scontro muto e insano. Girano intorno al perimetro della polveriera e sradicano dal terreno fiori e copertoni e radici e rocchetti e pianticelle e seghe arrugginite. Con lo sradicato si minacciano e fanno a spadaccino e i più deboli soccombono e vengono portati nella polveriera, lì dove chissà che succede. L’evangelizzatore osserva questo e quello e anche altro senza che gli uomini che lavorano la terra se n’accorgano, o così pensa lui, e pensa che ormai dev’essere prossimo ad arrivare. Gli ultimi passi sono difficilissimi. È rintronato e invecchiato, dopo troppi giorni e troppe notti altri troppi giorni e troppe notti, e c’ha la barba ch’è un velo da sposalizio annerito e ispido e c’ha gli occhi infossati nelle sclere e spalancati come un matusalemme senza memoria e c’ha le costole ch’affiorano all’inspiro come artigli fragili reclinati e retrattili. Lo separano dal limitare delle coltivazioni ancora quei pochi passi difficilissimi. Oltre ci sono i tetti e il campanile e la torre. L’evangelizzatore ha la gola secca. La raschia con uno spasimo. Si rincantuccia nella tunica e nel mantello e si sforza d’avanzare ancora. Avanti a lui sfiatatoi ch’eruttano sangue e bile e gli ultimi tra gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini raccolgono fiumane di sangue e bile e se ne vanno in là a abbeverare la terra. In cielo trottano nuvole disastrose e zeppe di assurde abrasioni causate, l’evangelizzatore lo sa senza sapere come, dalla luce del sole. Ma il sole non c’è giacché è notte e c’è solo la luna ma la luce del sole è esiziale furente sconvolgente disastrosa poderosa affilata sfolgorante fulgida brillante indomabile terribile e passa attraverso la luna e lo spazio cosmico. La luce del sole sbrilluccica sui tetti e sul campanile e sulla torre e ora l’evangelizzatore è ringalluzzito perché vede i tetti e il campanile e la torre vicinissimi. Poi s’arresta. S’arresta perché vede il lavacro e oltre il lavacro non può andare senza purificarsi. Se lo facesse: lo inseguirebbero lo prenderebbero lo tirerebbero lo dilanierebbero lo divorerebbero lo digerirebbero lo espellerebbero lo spargerebbero lo annaffierebbero lo eradicherebbero lo brucerebbero. Chi lo farebbe non può saperlo ma sa che lo farebbero. L’evangelizzatore s’approssima al lavacro. Il lavacro è una vasca di marmo costellata da strane incisioni raffiguranti fatti della storia umana non raccontati dei testamenti. L’acqua del lavacro è bellissima e balugina alla luce che s’è detta impossibile e l’evangelizzatore dapprima mette le mani a giumella e ne beve un po’ e dopo si lava il volto e le mani e gli avambracci sino ai gomiti e si passa le mani bagnate sulla fronte e la fronte scotta come può solo la fronte d’un febbricitante. Si passa le mani bagnate sui capelli e lungo la barba e sente le rughe distendersi come letti di fiumi in piena e dopo si mette a sedere e si purifica i piedi e le caviglie sino alle ginocchia e i piedi gli fanno male come possono solo i piedi del martire pellegrino. Completata l’abluzione prega. Prega nell’unico modo giusto ch’esiste per pregare: prega non per chiedere ma per ringraziare.

Ora avanza lungo il saliscendi che s’inerpica verso l’abitato. L’abitato è un conglomerato rovinoso addossato a una collina desertica. Non ci sono abitanti o forestieri o soldati o mercanti o preti o delinquenti o santi, solo strade vuote. E sulle strade vuote, pure ch’è già notte, scende un’altra notte ch’invece è scura scura e che persino sembra essere sconosciuta alla luna ch’è nei cieli. È per le strade vuote che cammina l’evangelizzatore. La piazzetta solitaria e gli alberelli prosciugati stecchiti e la campana che suona impossibile giacché a suonarla non c’è nessuno. La campana suona l’Ave e il suo suono accarezza le pene segrete che anche il più santo porta dentro. Uno stuolo di caprimulgi, è lì che si riuniscono una volta compiuto l’accompagnamento al trapassato, sferraglia smarrito e triste tra stelle appese e cadenti e mosse dall’alto tramite fili che solo da quel luogo possono essere visti. I caprimulgi disegnano parabole desolate e sbilenche e si vestono come d’ombra quando discendono tanto vicini da non esser più osservabili. L’evangelizzatore fiancheggia un muro crepato e una casa abbandonata e raggiunge la chiesa. La chiesa c’ha la faccia da centenaria, tutta grinze e pieghe e ricordi, e di fianco alla chiesa sta il campanile. Il campanile è diroccato e circondato d’edera e s’inabissa nel cielo tramite un tunnel che scoperchia l’inganno perpetrato dagli architetti del mondo sublunare. Ma l’evangelizzatore cerca né la chiesa né il campanile bensì la torre. Per questo setaccia i dintorni, esplora viuzze e piazze e in certi angoli trova un buio ch’è notte e in altri angoli trova luce ch’è alba dorata e passa tempo – quanto tempo è passato? si domanda – e altro tempo e non c’è più chi conta i giorni o le notti e chi c’è fa bene a non farlo giacché il tempo non ha valore e nemmanco scopo.

Frattanto invecchia ancora ch’ormai si sente addosso gli anni di Lamech o di chi come lui e respira a mo’ di vegetale e non prova dolore né si ammala e neppure si ricorda, e forse è per questo che prova dolore né si ammala. Gironzola smarrito lontanissimo dalla chiesa e dal campanile e quando fa notte, ormai fa notte mentre è giorno e giorno mentre è notte e a volte no e niente è chiaro o prestabilito, accende un fuoco per riscaldarsi e lo guarda fin quando non si spegne. Il fuoco col favore della notte mostra le cose per quello che sono: terra morta e alberi morti e tutto deserto e solo deserto. Lontanissimissime ci sono le montagne verdeggianti irraggiungibili dove il giorno è giorno e la notte è notte. L’evangelizzatore le coglie un istante poi le ombre s’allungano e inghiottiscono il paesaggio e le nuvole e finanche la luce e quindi ora l’evangelizzatore non vede che terra morta e alberi morti e deserto e solo deserto. Ma questa volta dal deserto emerge la torre: straripante mastodontica potente. Circumnaviga il perimetro in cerca dell’ingresso ma senza trovarlo e circumnaviga quello stesso perimetro ancora e ancora e ancora sino a quando non scorge lo spiraglio di luce e lo spiraglio di luce viene da una porta socchiusa. Quando entra è tutto oscuro e dominato da Oscuro e Oscuro decide ciò che l’evangelizzatore può vedere e ciò che l’evangelizzatore non può vedere. Vede le unghiate sulle mura e la croce dell’esecuzione conficcata nel terreno, le estremità pregne di sangue ma nessun condannato inchiodato al patibolo, e i vede i corpi ammassati in propaggini in un angolo angusto e immenso in un buio oltre il buio più inimmaginabile. I corpi sono gonfi o tesi o esplosi o smembrati o fatti a brani. E non trova il corpo del Signore ma nemmanco lo cerca giacché s’è dimenticato della sua missione. Perché sono qui? si domanda – e s’approssima al patibolo e s’aggrappa al legno e cerca d’arrampicarsi alla croce ma scivola. S’alza, ci riprova: s’avvinghia con gli artigli alla trave e l’avvolge pure con le gambe e s’issa a mo’ di antenato dell’uomo ma ancora scivola e si fa male. Riprova ancora e ancora e ancora ma non riesce a crocifiggersi e non ci riesce o perché è vecchio e debole o perché come si fa a crocifiggersi da soli o perché non è degno di morire della stessa morte del Signore. Scivola un’ultima volta e l’ultima volta che scivola viene inghiottito. Inghiottito da Oscuro.

Nei campi coltivati ci sono uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Infestano i campi poiché sono segni dell’ultima piaga. Uno tra questi è stato un evangelizzatore e avrebbe dovuto essere latore d’una lettera. Se ne sta intabarrato nella tunica e nel mantello. Nella tasca del mantello la lettera destinata alla diaconessa. Sulla lettera sono scritte parole di luce, parole che profetizzano un ritorno. Nella torre, prigioniera di oscurità, c’è la diaconessa. La diaconessa non sa che il momento è giunto. Ma il momento giungerà ugualmente.

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Naïf

di Mattia Gargiulo
Non lo so dov'è mio padre.Mia madre sì, lo so benissimo, ma mio padre no, non me lo sono mai chiesto. A parte oggi. Oggi è così, un giorno in cui certe cose ti vengono in mente senza averle pensate o chiamate.

Folgoriti

di Igor Antonio Lipari
Ho un binocolo. Una notte ho visto le luci, dalla finestra di camera mia. Come no. Potrebbe essere stata qualunque cosa, o niente del tutto. Tu vedi sempre qualcosa: ma quanto capisci, di quello che vedi?

Di tanti passi, o del diritto alla caduta

di Paola Ivaldi
Soffochiamo in mezzo alle cose. Sommersi dalle cose, dal pensiero delle cose, dal desiderarne sempre altre, nuove, più lucide e più lisce. Eppure, in quel richiudersi senza speranza del portoncino, quel rumore sì familiare, ci accompagna l’illusione che lasciamo fuori il mondo cattivo

La Spada

di Silvano Panella
La villa era composta, silenziosa, non ostentava il disfacimento del lutto improvviso, era governata come in un giorno qualunque e in effetti, se non si fosse indagato negli animi di chi sapeva, sarebbe davvero risultato un giorno qualunque
davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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