Avventure di uno scrittore affettivo
di Mauro Baldrati
Angelo Maria Pellegrino, attore, letterato, marito e curatore delle opere di Goliarda Sapienza, scriveva che sua moglie apparteneva – purtroppo – alla sfortunata categoria degli “scrittori affettivi”. Perché sfortunata? Pellegrino lo svela subito con un concetto lapidario: gli affettivi desiderano non solo essere pubblicati, ma anche amati dagli editori.
Amati. Gli editori sono aziende, si può desiderare di essere amati da un’azienda?
Infatti Goliarda, dal 1976 in poi, per quasi vent’anni, ha vissuto questa forma di dolore senza soluzione, fino alla morte, per il rifiuto reiterato della sua opera maggiore, L’arte della gioia. Il romanzo era fuori target. Fuori tempo. Lei stessa era riuscita a capirlo: “Troppo scomoda Modesta per gli anni Settanta Italiani”.
Gli editori non rifiutano i libri perché sono malvagi. E il loro rifiuto non si basa su questioni letterarie pure, ma su una mancata corrispondenza delle “cifre” dell’opera con le esigenze del mercato, sul quale si appoggiano le collane. L’autore può non essere d’accordo, può chiamarla dipendenza dai gusti del lettore-consumatore, rinuncia alle sfide e a qualunque viaggio verso l’ignoto, ma dovrebbe prenderne atto, tirare dritto e cercare altrove.
Ma non l’affettivo. Costui non riesce ad accettare il rifiuto dell’editore perché lo vive come un evento personale, un gelo che scende sul cuore e intorbida la mente. Continua a gettarsi contro il rifiuto come il caprone che si avventa su una rete fino a restarne impigliato.
Io, quando lessi queste parole di Pellegrino, sentii una spina che mi si conficcava in un fianco. Qualcosa era penetrato, una consapevolezza non consapevole che ero pronto. Pronto per sprofondare nel pozzo nero.
In quel tempo non me la passavo male dal punto di vista editoriale. Avevo pubblicato tre noir e un non-noir, tutti per editori maggiori. E un nuovo testo premeva. Ma esitavo perché qualcosa – qualcuno? – mi suggeriva che sarebbe stato di difficile pubblicazione. Chi avrebbe accettato un noir politico ambientato nella Bologna del ’77 con gli indiani metropolitani, gli autonomi, gli espropri, l’omicidio Lorusso e killer nazisti inviati da una sezione deviata del SID per assassinare il protagonista? Il tutto senza sensi di colpa né reducismo né autocondanne né autoassoluzioni e tanto meno pennellate didascaliche. Un testo sincero, preciso, scritto dall’interno perché c’ero, e sapevo. Ma forse proprio per questo, riflettevo, sarebbe stato difficile piazzarlo. Meglio occuparsi d’altro. Per esempio quel romanzo storico tardo antichista che…
Ma no. Niente da fare.
Quello scalpitava per essere scritto.
E lo scrissi.
Fu un viaggio faticoso ma bello e divertente. Ero tornato in quei luoghi, in quei giorni e la fantasia veleggiava leggera.
Una volta terminate le revisioni l’agente letterario Settimio Bruschettini lo inviò a tutti gli editori maggiori. Perché questo fanno gli agenti: puntano alle major, che pagano l’anticipo. E’ il loro lavoro.
Non arrivarono risposte. Ovvero il romanzo fu ignorato. Ma questo non era significativo. Anche il mio primo noir fu ignorato, fuorché dall’editore che poi stampò anche gli altri due. E anche il non-noir lo fu, meno che dal direttore editoriale della catena a cui piacque.
Io, per conto mio, lo inviai al direttore dei tre noir, ma questi rispose a giro di posta, senza leggerlo, che era stufo di pubblicare autori italiani che non vendevano, per cui aveva sospeso le loro pubblicazioni e cercava all’estero. Ci rimasi, ma non mi stupì più di tanto. Sapevo che questo era un trend attuale, infatti una famosa collana di thriller pubblicava alcuni italiani sotto pseudonimi esotici. Che fare. Che dire. Questo era.
Allora lo spedii direttamente al direttore editoriale della catena che aveva pubblicato il non-noir, Sirio Lombardini. Mi rispose quasi subito che aveva apprezzato la parte del movimento, molto vivace e verosimile, ma il noir andava potenziato. In ogni caso doveva occuparsene la responsabile di una collana più adatta a quel genere di testi, Gilda Tormentilla. Mi girò la sua mail invitandomi a spedirlo a lei.
Eseguii.
Dopo un’attesa altrettanto breve la Tormentilla rispose che il testo era squilibrato, troppo caratterizzato dalla parte ambientale, che pure era interessante, a scapito del noir, che trovava non abbastanza adrenalinico. Beh, perdio, era un’osservazione comune a entrambi. Rilessi il tutto, con calma, e conclusi che probabilmente era giusta. Così mi tuffai di nuovo nella storia e lavorai sull’aspetto muscolare adrenalinico, inserendo colpi di scena e varianti nerissime.
Lo rispedii a entrambi.
Dopo un’attesa di nuovo breve rispose la Tormentilla. Aveva apprezzato il lavoro ma i problemi non erano risolti. L’ambiente dominava e il noir partiva tardi.
Digrignai i denti. Il testo per me andava. E doveva andare perdio.
Tornai al lavoro, più concentrato che mai. Decisi anche di ridimensionare un po’ la parte ambientale e di potenziare ulteriormente il noir.
Spedii di nuovo, a Lombardini e Tormentilla.
Ma insomma, perché Lombardini taceva? L’aveva letto?
La risposta della Tormentilla arrivò nei soliti tempi ristretti. Ottimo lavoro, ma i problemi continuavano e sussistere.
E da Lombardini nessuna nuova.
Io, rifiutato.
Non mi sarei arreso. Mai. Sarei stato più ostinato di loro.
Mentre riprogettavo nuove modifiche e potenziamenti, una mattina all’alba, appena aprii gli occhi, ebbi un’idea. Potevo fare di Bologna cowboy un noir dentro un contenitore giallo.
Con la consueta energia e senso del dovere mi rimisi al lavoro e impostai una storia ambientata nel 2047, in una società in cui non vorremmo mai vivere. Il protagonista, un agente speciale dell’Agenzia per la Difesa dello Stato, durante un’indagine arriva a un vecchio signore di 94 anni che gli spedirà un manoscritto col titolo Bologna cowboy. La sua lettura gli cambierà la vita. Inoltre mi arrivò un’altra idea: la parte noir l’avrei illustrata con la mia documentazione sulle “bande giovanili” che avevo realizzato proprio in quel periodo. Foto in bianco nero dei punk, i dark, i mods, che erano già state raccolte in una mostra itinerante. Era una sequenza in linea estetica e stilistica con le suggestioni del romanzo.
Lavorai sodo, quando lo ritenni pronto spedii. Naturalmente a Lombardini e Tormentilla.
E da Lombardini, silenzio tombale.
Tormentilla scrisse che proprio non poteva rileggere il romanzo per la quarta volta (e aggiunse un emoticon sorridente). Le foto, soggiunse, erano spettacolari e magnifiche.
Io continuavo a sferrare cornate contro la rete con furia cieca.
Non potevo accettare quell’ennesimo rifiuto, impossibile. Dopo notti agitate mi svegliavo con gli occhi sbarrati e un peso che mi schiacciava. Non mi sarei rassegnato, avrei di nuovo revisionato, tagliato, potenziato.
Ma quando scese in me un attimo di calma l’occhio mi cadde sull’ultima frase di Gilda Tormentilla: non aveva senso accanirsi in quel modo. Se un testo non andava per un editore poteva interessare un altro. Il mio romanzo doveva trovare il suo editore.
Accanirsi.
Questa parola accese la lucina (La lucina diventò un capitolo del romanzo, quando il protagonista ha un’illuminazione). Fu una madeleine di grande intensità.
Entrai in una stanza polverosa della memoria, rividi quel papà che lavorava all’estero, che non c’era, e taceva. Riascoltai la voce della madre, quando passava 12-14 ore al giorno nel laboratorio di parrucchiera e non aveva tempo per il bambino bisognoso di attenzioni. Arrivava ad ammalarsi per averle, ma il rifiuto che riceveva per l’indisponibilità materiale di lei era più forte di qualunque insistenza, per quanto viscerale.
Ecco la trappola in cui ero caduto.
Per mezzo della parola accanirsi capii che Sirio Lombardini non impersonava quel padre assente, e Gilda Tormentilla non era il fantasma della madre che respingeva il bambino disperato e ostinato. Li avevo sovrapposti. Avevo ricreato il micidiale triangolo mamma, papà ed io, quel portatore di infelicità che Deleuze e Guattari avevano cercato di smantellare con la “schizoanalisi” de l’Antiedipo. Lombardini non era assente, mi aveva semplicemente indirizzato a Gilda Tormentilla, la quale continuava a ripetermi che il romanzo non rientrava nei canoni della collana.
Il suo editore.
A quel punto ripresi la prima versione di Bologna Cowboy (conservo sempre le prime stesure), la confrontai con l’ultima e, tenendo conto delle osservazione della Tormentilla, che trovai fondate, gli restituii parte della sua vocazione originaria di noir politico, che in un certo senso avevo violentato, mantenendo le vitamine ma togliendo gli steroidi.
Ora il libro era pronto.
E proprio perché lo era, chissà, arrivò la mail di uno scrittore che stimavo, Wladimiro Soavi, che era anche redattore del blog letterario d’avanguardia Scrittura Indie, a cui l’avevo spedito mesi prima. Mentre lo leggeva, disse, si rendeva conto che sarebbe stato adatto alla nuova collana di narrativa di Deriva Approdi, per cui l’aveva inoltrato al direttore editoriale. Il quale mi scrisse dopo una settimana: era entusiasta di pubblicarlo.
Così Bologna cowboy ha trovato il suo editore.
Ora spero che troverà anche i suoi lettori.
NdR “Bologna cowboy”, il testo di cui parla lo scrittore e fotografo Mauro Baldrati in questo pezzo, è stato pubblicato molto di recente da DeriveApprodi. Le tre fotografie, scelte tra le numerose inserite nel volume, sono dell’autore.