Kjara, ancora
di Filippo Canoro
Di Kjara, Madalena, la mia Madalena, mi aveva detto soltanto:
Non c’è niente da fidarsi di quella lì! Si chiama Kjara-Cassandra, e a tredici anni ha scambiato la verginità con un telefonino
Non avevo capito molto altro. Solo, a dire il vero, che Madalena e Kjara erano cresciute insieme nelle case popolari di Primo Foraneo di Mestre, anche se non si erano frequentate più di un tot. Ma adesso Kjara ci aveva invitati nel locale dove aveva trovato lavoro––la Paela d’Or si chiamava––e non si poteva dire di no.
Ci siamo anche andati. La Paela d’Or era uno dei tanti ristorantini per così dire etnici che affollavano l’area della stazione di Mestre. Il personale erano tutti minorenni al di sotto dell’età del lavoro, assunti rigorosamente in nero e con addosso qualche grossa bega colla legge: ragazzini strappati per un soffio al riformatorio e alla colonia agricola. L’unico in regola in tutti i sensi del termine era proprio il ragazzo di quella Kjara che ci aveva invitati lì quella sera, un certo Leo. Aveva diciassette anni, Leo, la palpebra sempre mezza caduta nell’espressione dell’hashish, e faceva l’alberghiero indirizzo cucina-turismo. Era un buono, Leo.
Finito il servizio della sera e rigovernata la cucina, Leo faceva su una cannetta piena di grazia e uscivamo in veranda a farci una fumatina, e a ciaccolare qualche po’.
Leo mi diceva che Kjara nella vita aveva avuto qualche problemino coll’autorità. Colla scuola, colla polizia, colla famiglia. Una volta, quand’era ancora molto piccola, prima che quel criminale di suo padre telasse chissà dove, lui tornava a casa tutte le sere colla bocca impastata di alcol, e allora la mamma si faceva il segno della croce e correva a inchiavare i bambini in camera––lei e il fratello––ma una notte Kjara, che sapeva che le chiavi di tutte le porte della casa erano uguali, ha fregato la chiave della porta del salotto ed è scesa in cucina a vedere.
In cucina il babbo sta chiedendo alla mamma Zengia o bachetón. Kjara vede solo la schiena villosa del babbo e la sua nuca calva e scintillante di sudore; e dietro la sua figura massiccia intravede, della mamma acculata in un angolo, le gambe risecche che si agitano convulsamente come zampe d’insetto, e allora Kjara dice Mamma!, e il papà si volta, la guarda e Kjara dice Papà!, e il papà la guarda: e gli tremano le punte dei lunghi baffi neri corvini incolti. Fa caldo, molto caldo, il papà ha la nuca imperlata di sudore, si volta e dice Kjara Kjaretta come ti sei fatta grande!, e nella lunga nera gora che cola dalle tempie ritinte di papà strinandogli le guance Kjara riconosce il colore che la mamma gli acquista a poco prezzo al paki sotto casa; papà ha uno sguardo che Kjara non ha mai visto, l’occhio dilatato in un’espressione disumana, pasta bianca agli angoli della bocca e le froge che si dilatano al ritmo del respiro pesante che gli sibila in petto; Kjara Kjaretta, ora che ti sei fatta così grande decidi tu per la mamma, dice lui, poi si ferma, con la punta della lingua si asciuga la materia bianca agli angoli della bocca e dice Zengia o bachetón; ma Kjara non sa, non capisce, ricorda solo che bachetón è come papà chiama il suo bastone da passeggio: e allora lei non dice nulla perché proprio non sa––la scuserete?––sogguarda indocilita il gigante che è suo padre, ma a questo punto a lui gli scappa proprio la pazienza, cazzo, ringhia Zengia o bachetón, zengia o bachetón, diocan de dio! Kjara trema e sussurra Zengia, indi il papà si sfila la cintura dai passanti con un gesto lento, consumato, quasi elegante, quinci si china sulla mamma e prende a scudisciarla senza tregua, e sempre più forte; la mamma acculata in un angolo si ripara la faccia colle mani e urla e singhiozza e piange fino a che non le cola il sangue dalle dita, dalle orecchie, dalle labbra spaccate, dalle borse sotto gli occhi tumidi, dalle narici piccole, dalle gambe e dai piedi che si agitano in convulsioni da insetto, fino a che non c’è sangue dappertutto: sul grembiale della mamma, sul muro scalcinato, sangue che s’accaglia nelle fughe tra le piastrelle––e la mamma ha finito le lacrime, non piange più, trema soltanto, ma il papà non ha finito proprio niente, ha la canottiera a coste fradicia di sudore––ma questo non basta certo a lavare le frustrazioni di una vita di miseria e di stenti, porco dio! E così continua con rinnovata foga, fino a che Kjara non trova il coraggio di pararsi davanti alla mamma colle braccia aperte, al che lei scoppia di nuovo a piangere, il papà s’arresta, ansimante, si netta la fronte col dorso della mano pelosa, si stura le orecchie col mignolo, sputa per terra, sorride e dice Kjara Kjaretta come ti sei fatta grande––sorride molto, papà––Zengia o bachetón?
Capivo in quegli istanti che ci sono due modi di crescere nelle case popolari di Primo Foraneo. Il primo è la religione della disperazione e dell’obbedienza, una mitosi dello spirito per cui la buona copia della vita schizza lassù, nel cielo delle idee, lasciando in terra un simulacro apatico per cui l’esistenza è un lungo addomesticamento al dolore e alla violenza dove uno impara a incassare quanti più schiaffi possibile prima di rendere l’anima al buon dio. La vita vera, intanto, se ne sta lassù in cielo, a maturare nel freddo contorno delle proprie virtù, come una donna di province, o un buono fruttifero dello stato, un investimento per la vita eterna da riscuotere nell’ora dell’Apocalisse… Così era stata la vita di Madalena.
Ma scoprivo adesso nella figura di Kjara, nei suoi sguardi di bragia, nei pantaloncini teppisticamente corti come in spregio all’autorità dell’inverno, nelle sue braccia trapunte di tatuaggi lunari e di cicatrici carnicine all’altezza dei polsi e dei gomiti––Kjara recava sul suo corpo tutte le ferite della sua epoca––scoprivo ora una seconda maniera di crescere nelle case popolari. Qui si trattava piuttosto di crescere nel delirio e nel diniego della realtà riassunti in quel murale vago e accusatorio comparso una mattina sul muro di costa del villaggio edile di Primo Foraneo:
Era un grido di rabbia, un lamento, una supplica e una dichiarazione di poetica.
Si sa che il tempo, sto gran cialtrone, non viaggia dappertutto alla stessa velocità. Solo mezzo chilometro più a ovest, nelle buone brutte case borghesi, una covata di ragazzine in nulla differenti da queste qui cresceva nel tepore del nido familiare, educate a pensarsi come gioielli e a farsi un’opinione su tutto senza paura di esprimerla, educate al coraggio del proprio corpo e a parlare spigliatamente delle proprie lune, all’uguaglianza della donna, al valore dell’amore che trionfa sempre; convinte una volta per tutte dalla pubblicità dello sciampo che dice Voi valete!: educate a farsi desiderare, a non cedere al primo pretendente, a spendere oculatamente i propri orgasmi come che il denaro, e poi alle storie d’amore tutte attaccate una all’altra come fili di catarro, educate a contrattualizzare e a razionalizzare, alla ricerca della felicità: del lavoro, dell’amante perfetto, del sogno dentro cui sgusciare come dentro una vecchia pantofola sformata e puzzolente… Ma per queste altre, per queste qui delle case popolari, invece… Non saremo mai come voi…: accusa e minaccia! Si trattava di affermare una realtà in tutto differente, compito tanto più facile inquantoché quella roba che gli aveva scodellato la vita faceva dare di stomaco solo a guardarla… i ragazzini che crescevano come la malerba nelle crepe dei casamenti, la biancheria di novecento lavaggi a stendere sui fili arrugginiti tesi tra un palazzo e l’altro, dove anche il sole entrava in punta di piedi come per paura di beccarsi una coltellata… i vetri rotti sui muri scalcinati, le spade nelle bottiglie di birra nella luce del mattino tutto sporco di ero…
Si trattava insomma di reclamare l’immanenza del regno dei cieli, di godere qui e ora, senza ricatti, castrazioni o debiti originali, si trattava di sussumere il reale tutto intero sotto le possibilità dell’immaginario… non finiva sempre bene. Ma per quanto che durava s’imbrancavano, ste ragazzine, uscivano in centro città a far kabobo, a demolire cose e persone, a scrivere sui muri collo sprai, a scardinare coppie storiche per poi ricattarli col coltello alla gola: facevano del terrorismo affettivo, facevano, facevano rizoma colla notte… Sperimentavano nuovi concatenamenti dell’esistenza e del desiderio, rifiutavano la famiglia e la scuola, lavoravano solo alla bisogna e fregando quanto più possibile, mordendo la mano che le nutriva, sputando nel piatto dove mangiavano senza farsi tanti problemi di spirito… vivevano nomadi e randagie, ste ragazzine. Erano diventate bisessuali, lesbiche, transessuali, asessuali, sapiosessuali… e adesso erano tornate al vecchio ‘ndo cojo cojo. Si presentava l’occasione di una bella scopata senza fronzoli, all’impiedi in qualche vicolo piscioso, e loro ci si tuffavano a picchetto. Si presentava l’occasione di godere un pochino alla faccia di questa vita infame, di splendere in fondo alla notte, e loro ne prendevano a piene a mani. Mi hanno sempre messo di buon umore quelli che scopano nei vicoli.
Insomma, Kjara apparteneva a tutta una varietà di ragazzine di periferia che gira col coltello nella borsetta e non vede l’ora di usarlo. Mai nessuno che gli rompa il cazzo, a queste qui, guarda un po’.