La Neve

di Silvano Panella
Sono uscito di casa molti passi fa, passi pesanti nella neve che nasconde gran parte del paesaggio, che smorza le inquietudini e i rumori, acceca di bianco, di nettezza – eppure spiccano i più piccoli dettagli: quel ramo, quella foglia, quelle orme d’animaletto. Mi fermo ai margini del bosco. Querce e abeti non possono essere travolti dalla neve che cade dal cielo fingendosi un segreto insondabile. Batto le mani, guantate ma intirizzite, in procinto di perdere ogni sensibilità. Spinto dal freddo, proseguo il cammino – il freddo mi suggerisce la vitalità perché è questa l’arma per sfuggire alla sua conquista dei corpi, che perdono calore dai margini fino al cuore, destinati a una morte che lascia sul viso un’espressione atrocemente interrogativa.
Avanti a me una figura sporge, svanisce tra i tronchi, tra i rami. Devio, esco dal sentiero appena percettibile nel molle biancore per vedere meglio questa figura che procede nella mia stessa direzione. Mi attende. Mi saluta con la mano. Vestita d’un mantello di pelliccia, coronata d’una folta chioma di capelli rossi, il sorriso a infondere la tranquillità. Intuisco un nesso tra la donna e la neve.
«Cosa fate qui?», le chiedo.
«E voi?», chiede la donna.
Dopo non esserci risposti, proseguiamo. Poi mi volto. La donna è in attesa delle mie parole.
«Siete uno spirito elevato?», le chiedo, e suscito una lieve risata. «Ecco: uno spirito elevato reagirebbe così.»
«Cosa ne sapete, voi, di spiriti elevati?», la donna chiede, l’espressione imbronciata.
Osservo la neve: intorno a noi, sulla terra, nascosta a sprazzi nel bosco, e in cielo, pronta a cadere.
«So quel che ho letto, quel che ho studiato, appreso. E so quel che dico. Ancora oggi trovo la voglia di stupirmi, la voglia, i modi, i tempi. Il passato sovrabbondante di spiriti mi incuriosisce. Il mio è un interesse letterario, antiutilitaristico, non sociale. Volubile, floreale, insomma formale. O l’ho sottinteso, formale, quando ho detto letterario? Non so, dovrebbe, eppure… Avremmo bisogno di neve»
La donna ride di nuovo. È chiaro, ho invocato la neve pur essendovi affondato, circondato. Ma questo dimenticare la neve è un effetto della neve. È chiaro, è l’attutimento – lo scrissi in un mio racconto.
«L’ho scritto», dico alla donna. «Perdonatemi se parlo in prima persona, ci troviamo nel pieno della… No, non della tempesta. Né della bufera. Né della tormenta. Nel pieno della stasi, dell’incantamento, del tempo che si è arrestato.»
Controllo l’orologio? No, potrei scoprire che il tempo non si è arrestato e questo interromperebbe il nostro contatto.
«Inconcludente lo siete senz’altro», la donna mi dice, e ride della mia esitazione.
Noto che la sua mano destra stringe un bastone torto, le dita terminano con lunghi copriunghie d’argento.
«Dove avete raccolto quel bastone?», le chiedo.
«La domanda semmai è: l’ho rigato?»
«Non avevo il coraggio di domandare una cosa così invisibile, minima, personale.»
«Né risponderò a una domanda che ho suggerito io.»
Preda di un dubbio sotto la forma di un’ombra, guardo dietro di me. Ma tutto è identico a un momento fa, tutto è ammantato di neve.
«Come fa a esserci del buio se c’è la neve?», chiedo a me stesso con la voce che avrei utilizzato se avessi posto la domanda alla donna.
«Questo bianco è completo. È ovunque, silenzia, confonde, ammalia, è compatto, acceca di macule scure. È persistente», la donna dice, e tamburella coi copriunghie sul bastone torto.
Avverto un tintinnio di preziosità sovraesposte. Quei copriunghie mi suggeriscono gli artigli delle linci, qui in agguato, mi suggeriscono la sopportazione al freddo metallico. E mi suggeriscono la presenza d’una reggia all’interno del bosco. Mi inoltro tra le querce. Gli abeti sono lontani lassù, in cerca di luce meno caliginosa. La donna mi segue con la sopportazione di chi è conscio di sapere troppo. Il risveglio del mio orgoglio di uomo che non vuole ammansirsi neppure di fronte alla deità mi porta a fermarmi e a perdere l’occasione di rinvenire la reggia e i suoi segreti, ebbro di recitare la parte dell’offeso, finalmente insofferente alla derisione.
«Voi, immune al freddo, alle sensazioni e alle lusinghe – ovvero nessuno distrae bene quanto voi – siete senza dubbio uno spirito elevato», pronuncio una formula inventata sul momento che fa svanire la donna mentre sorride.
Svanita, aiutata da un brusco, ingente crollo di neve causato da uno scoiattolo salito su un ramo carico e sofferente. Lo scoiattolo mi guarda da un altro ramo, è salvo. Anche la donna è salva, da qualche altra parte. E il suo incantamento è salvo, allontanatosi dalle mie insistenze. Proseguo pensando alla donna. Perché così poco terrena? La nevicata si intensifica. E se cercassi in futuro, alla scomparsa della neve? Se mai trovassi qualcosa in futuro, sarebbero soltanto rovine, non la reggia, non la donna. Invece ora, sotto la neve, potrebbe sembrare che la reggia sia ancora tutta intera, non i resti, i frantumi di cui gli abitanti vanno fieri. Io dico che un fantasma tra quelle rovine…