Il gatto di Wittgenstein giocava certamente a tennis

di Chiara Merli
La prima volta che ho visto Michele è quando si è presentato a casa, studentino di mio padre. Alto, a una prima occhiata (mi è parso) con troppi denti, spigoloso, una riproduzione vivente di un quadro di Schiele; sopracciglia arcuate ma gentili, un naso pure quasi all’insù, delicato. Un collo lungo e un’aria da Wittgenstein. Wittgenstein che con il tempo sarebbe diventato il Nostro, colui che stava studiando con mio padre e figura di massima fascinazione per me.
***
“Il primo o il secondo?”, mi hai chiesto. “Il secondo, ovviamente: ‘Vedo somiglianze qua e là’”.
Non eri bello, ma volevi esserlo, ti muovevi in casa con eleganza. Papà non ti ha portato nel suo studio sul giardino, siete stati in sala a chiacchierare davanti a un caffè e io mi sono accodata, o meglio accoccolata su una sedia, gatto ultraricettivo senza sapere perché.
Per qualche strampalato motivo avete parlato di cucina, non di filosofia. Il gateau, i maccheroni con la besciamella, le origini francesi di molta cucina napoletana.
“Le dominazioni straniere non ci hanno mai interessato più di tanto”, ha detto mio padre, “l’importante è che abbiano portato la besciamella”. Tu hai solo sorriso, mangiando i bignè con voracità: pochi, ma ciascuno in un morso solo.
Quando te ne sei andato ho girellato per casa forzandomi di non chiedere informazioni su di te. Qualcosa poi ho chiesto. Eri uno studentino caparbio, con entrambi i genitori insegnanti all’Orientale, lingue. Eri venuto a Napoli con loro, dal liceo, che ho scoperto essere stato lo stesso mio ma in anni diversi. Vivevi a Materdei, non lontano da noi, con una sorella e un gatto bianco che chiamavate Egli.
Stavi bene qui anche se le usanze napoletane ti sembravano le più strette possibili, e per questo leggevi molto sull’argomento: Goethe, Lewis, Benjamin. Sapevi più cose di me che ci ero nata. Goethe ti sembrava una personcina modesta e a modo, Lewis ti irretiva per le faccende guerresche (“Ho letto Guerra e pace saltando tutte le parti di guerra”, ti ho detto scandalizzandoti un poco) e con Benjamin dividevi l’intolleranza alla città: sporca e caotica, quasi a dire che il Vomero poteva essere un posto buono, austroungarico.
Ci siamo fatti un’appiccicata gigante, una volta, su questa cosa che credevi il Vomero un buon posto. Non è Napoli!, dicevo io, spiegandoti la differenza e l’evidente verità riconosciuta da tutti: il Vomero è “su Napoli”, difficilmente un vomerese si riconoscerà come napoletano. Proprio questo scarto apprezzavi, tu, in qualche maniera costretto a convivere con il magma di una città che non capivi, che ti confondeva.
Cercavi in ogni dove ricordi di quel Nord in cui eri cresciuto, facevi paragoni e nei paragoni, a me pare, tutto si sfrangiava. Si conosce sì per differenze, ma pronunciarsi a proposito della mia città paragonandola a quella o quell’altra mi sembrava un modo non fertile di trarne conclusioni. La verità mi sembrava una: bisognava mettersi nella sua trama e lasciarsi perdere, solo allora si sarebbe potuto dire, Sono qui, e lei, la città, è così.
Venivi a casa abbastanza spesso. Ti chiudevi in studio con mio padre, e il più delle volte sentivo le sue imprecazioni. È sempre stato così, fumantino, incapace di trattenersi su quel che riteneva giusto, e a te teneva, teneva al punto da non misurarsi nelle imprecazioni.
“Devi scrivere ogni cosa come se fosse necessaria, come se ogni parola in quel momento non potesse stare in altro posto che lì”, ti ripeteva, e tu non capivi, non volevi credere al senso di ineluttabilità provvisoria e al contempo definitiva del linguaggio, quel linguaggio di cui i contorni tu e lui analizzavate senza alcun risparmio, con adesione totale.
“Per far sì che gli altri credano a quello che scrivi devi crederci tu per primo, completamente”, incalzava.
Abitavamo in una grande casa sul Corso, con un giardino e un terrazzo; ho sempre faticato a spiegare, quando mi sono spostata da lì, come possano convivere un terrazzo e un giardino nella stessa casa. In realtà la soluzione è semplice. Il Corso Vittorio Emanuele si snoda in alto, serpeggia lungo il crinale di una collina, lo taglia in un punto tale per cui la collina diventa lo spazio da costruire, così, in obliquo. Per cui casa nostra, al quarto piano, apriva le sue stanze su un giardino grande, protetto, ricco di aranci, un tavolo, qualche gatto che andava e veniva, oltre ai due nostri, anch’essi nomadi. E da un altro studiolo ecco che si stendeva il terrazzo, grande, con vista sul mare e sul Vesuvio, fin dall’infanzia da me detto “il grande signore con il cappello”.
Avete presente il disegno di quel brutto libello che è il Piccolo principe in cui un serpente inghiotte una preda al punto da sembrare un cappello? A me il Vesuvio è sempre sembrato così, ma più elegante, diciamo un signore distinto con un cappello marrone, aggraziato della grazia di un tempo lontano: quando il vulcano fuma il signore sta fumando la pipa, quando annotta il signore dorme in poltrona, con il vezzo di tenersi il cappello anche in casa.
Insomma, spesso mi facevo trovare all’uscita dello studio, in sala, su una poltrona a fingere di leggere, o più spesso in giardino, al tavolo di marmo, con le mie carte lasciate al vento, con una spremuta, un caffè e tesa a cogliere ogni segnale. Una volta che sei venuto a casa, ti sei seduto vicino a me sotto uno degli aranci più vicini alla vetrata; cercavi mio padre, ça va sans dire, ma lui non c’era, e sei stato con me che leggevo.
“Prenditi un libro”, ti ho detto indicando la libreria della sala, e tu te ne sei venuto con un libello su Omero. Era dicembre; scorgevo benissimo il tuo simulare, la tua attenzione protesa verso di me che leggevo, anche io compresa nello stesso sforzo di dissimulazione dell’attenzione verso di te.
Avevamo un’età di mezzo, quella in cui si cerca la strada, ma la tua sembrava diritta, mossa da un’ambizione che non comprendevo appieno. Siamo stati a leggere a metà un’oretta, mentre il sole faceva il suo giro e si nascondeva un poco dietro gli alberi di fico. Il tuo viso è andato in ombra, e io ho avuto la percezione netta che un giorno saresti fiorito, molto più di allora.
Quando la porta dello studio era aperta sul giardino sentivo le vostre conversazioni quasi per intero, schermata dalle mie occupazioni ma non troppo; non ho mai pensato di essere inopportuna, ho sempre pensato che quel che succedeva nello studio mi riguardasse; d’altra parte portavamo avanti la stessa ricerca, io con le mie inclinazioni, tu con le tue, che spesso convergevano, ma avrei presto scoperto che altrettanto divergevano perché non mi è mai piaciuto contraddire nessuno quanto mi piace contraddire te.
All’epoca studiavo Filosofia anche io, incurante che i miei passi fossero gli stessi percorsi prima di me da mio padre; mi sembrava l’unica scelta possibile, essendo cresciuta fra i libelli e gli studenti che giravano per casa, ognuno a depositare un’informazione provvisoria sullo stato del pensiero occidentale.
Ricordo che da piccola girava per casa “l’hegeliano”. Non so perché mio padre gli avesse mai dato corda, ma era spesso lì a ricordarci i fondamentali da cui aveva potuto prendere le mosse il marxismo. Dinoccolato e stazzonato, amava proclamare che “Il vero è l’intero” e cercava una crasi tale per cui l’idealismo, il marxismo e il cattolicesimo potessero trovare una quadra; penso che sia stato per questo che mio padre gli abbia dato una chance, voleva vedere se il suo sfilacciato tentativo sistematico potesse funzionare.
Erano sempre studenti, mai studentesse; non so se mio padre le volesse fuori per non inquietare Anna, mia madre, la persona più sottilmente gelosa del mondo.
Erano sempre studenti e ruotavano velocemente, perché mio padre era tipo da infatuazioni; tu sei stato di gran lunga la persona che abbia sopportato di più.
Mi ero ormai abituata a vederti regolarmente a casa quando sei sparito qualche mese, e non ho mai saputo perché. Ho pensato aveste litigato, ho pensato che il tuo procedere snello e incespicante avesse dovuto fare i conti con l’ostinazione che ti è propria e che incocciava con quella del tuo professore, il quale non disse mai una parola del tuo distacco, immagino sapesse anche lui provvisorio.
Sei riapparso un giorno di aprile, con una guantiera di pastarelle di Flora; sapevi che con gli sciù caramellati con la panna avresti potuto riconquistare tutti velocemente. Mi hai sorriso di un sorriso pieno e senza scarti, e per la prima volta ho compreso che eri venuto anche per me. O solo per me? Non riuscivo ancora a capirlo, anche se lo sospettavo molto. Mio padre si è chiuso nel suo studio con Haydn dopo aver ingollato uno sciù di gola e cortesia, e ci ha lasciato in giardino a chiacchierare.
Dunque quella luce negli occhi, nuova, non era solo ambizione, era anche un – si poteva davvero chiamare così? – sentimento? Mi sei sembrato davvero lì per me. Era aprile, i giorni dopo Pasqua, i riti della pastiera ancora in corso e la voglia perenne di andare al mare per restarci, non solo di guardarlo dal terrazzo. Avrei voluto andare a Procida, avrei forse voluto andare a Procida con te, ma diciamocelo, era una situazione così anni Cinquanta, così delicata e incasellata nelle grammature di un tempo protetto antico e concordato dalle famiglie, di andare a Procida non se ne parlava. Abbiamo però deciso di vederci finalmente fuori casa, e siamo andati a fare una passeggiata a via Caracciolo.
Alla villa Comunale ci sono i miei alberi preferiti, sono ficus, ma a me parranno sempre baobab, per un gioco di immaginazione.
“Quello è il mio albero”, te l’ho indicato e sono andata a giocare sulle radici grandi, sporgenti, anzi giganti, più grandi della chioma, quasi, e ho pensato, e ti ho chiesto, due cose: “Ricordi il momento in cui Sartre sente nitida la nausea guardando le radici di un albero?”, e: “Hai sentito di quello strano studioso che dice ‘è vero non ci sono fondi, ma se ci fossero sono sicuro servirebbero per scoprire definitivamente che il cervello degli alberi sono le radici’?”.
“In questo caso avrebbero tutta la testa di fuori”, hai detto, “sarebbero alberi un po’ matti”.
Vicino alla Villa comunale c’era l’acquario, mi hai detto che in Napoli ’44 si racconta di quando, in guerra e in fame, un cucciolo di lamantino fu preso dall’acquario e cucinato all’aglio.
“Ma il lamantino all’aglio fa piangere!”, ho detto io, sensibile ai cetacei e alle creature marine tutte. Il lamantino divenne presto la mia bestia preferita, e più avanti ci saremmo mandati mail che finivano così: “Saluti, baci, lamantini!”.
“Nina”, mi hai tirato a te con un gesto, “andiamo verso il mare”. L’abbiamo costeggiato a passo snello, ho imparato subito che come me amavi il passo che fende l’aria e la folla, e ti ho visto metterlo su di tanto in tanto, ma alternandolo a un passo per me, che permettesse di guardarmi, di guardare il mare, di vedere che reazioni avevo alle sparate che facevi.
“Mi sono rotto una mano contro una vetrata, a un convegno”, hai detto. “L’ho presa in pieno”.
“Rotta?”.
“Be’, rotta, sanguinava. Guarda, ho la cicatrice”, mi mostri il palmo, con le linee imperscrutabili del tempo e del destino e un segno cicatrizzato scomposto. “Se guardi bene, io lo vedo, disegna una emme. La vedi?”.
Per quanto aguzzassi lo sguardo tracce di segni decifrabili non ne vedevo, poi ho notato una sorta di piccola retta con un’altra piccola retta parallela a fianco; volendo proprio immaginare, poteva essere chiusa da un’ondina nella carne, e quella costituire una emme.
Ho sorriso e basta, senza rispondere per un po’. “Un pochino la vedo”, ho detto poi, e tu hai annuito soddisfatto.
Ci siamo seduti sugli scogli, mi sono ricordata di quando da piccola mi ci portavano con i panini con la frittata; sulla sabbia era meglio, perché la sabbia entrava un po’ nel panino, si mischiava alla frittata, e intanto i giornali svolazzavano e anche volavano via, e ci si alzava a turno per recuperare le pagine, soprattutto quelle delle parole crociate, che, ugualmente a turno, ognuno con una penna colorata diversa compilavamo.
Non te l’ho raccontato, perché i ricordi d’infanzia sono così, un po’ neniosi, e non volevo tediarti. In uno slancio improvviso però hai deciso che avresti potuto tediarmi tu.
“Posso farti leggere qualche verso?”, mi hai chiesto. “Li ho scritti stanotte, in un ‘narcolessico’, un po’ mi stavo addormentando e un po’ mi tenevo sveglio”.
Ho annuito e sorriso, ti sorridevo sempre molto.
“Tieni”. Mi hai porto un taccuino viola.
“È indaco”, ho detto di slancio.
“Viola”, hai precisato tu, “l’indaco ha più blu”.
“Non ci pensare proprio, questo è certamente indaco, ho un taccuino uguale, e non è mai stato di altro colore”.
Iniziava lì quella che sarebbe stata una nostra lunga scaramuccia nel tempo: trovare la parola più precisa possibile per definire un colore.
“Quello del plumbago secondo te che colore è?”, ti ho chiesto per metterti alla prova.
“Azzurro”, hai risposto.
“È pervinca, pervinca!”.
“E che colore è il pervinca?”.
“È color plumbago”.
Hai riso per la circolarità della definizione che non lasciava scampo a una notazione più precisa, notazione che sarebbe sempre importante trovare per definire le sfumature: il gioco è trovare la parola più minuziosa possibile per chiamarla, la parola di grana più fine.
“Fammi leggere, dai”.
Ho memorizzato quei versi quasi con precisione, io credo, perché erano i primi tuoi che leggevo e da lì avrei potuto immaginare quando tu avresti composto versi che io avrei continuato, o viceversa. Facevano così: “Nel momento in cui / con grazia / si malleavano i dolori / io, nella notte, sto e mi levo / e attendo il momento in cui / al risveglio / ogni cosa sarà al suo posto / la topografia del corpo pronta / a scardinare il giorno nuovo”.
Sarebbe stato banale dire che era bella. “È bella”, ho detto, e non ho aggiunto altro, perché sentivo già in corso una riduzione ai minimi termini: quella in cui tu avresti ostentato, e io lodato. D’altra parte è un po’ così, per i ragazzi in generale, abituati sin dall’infanzia a essere lodati molto. Le bambine sono sempre graziose, i maschi sempre bravi. “Sei bravo”, ho detto, e mi sono sentita definitivamente sprofondare in un gioco di ruolo non scritto che per un qualche motivo mi sentivo di interpretare.
Forse il motivo era questo: sapevo ti avrei fatto leggere anche i miei scritti, un giorno, sapevo già forse addirittura che ne avrei scritti anche per te, e questo livellava le forze, faceva sì che potessi lodarti, perché io lo sarei stata altrettanto.
Non avevo ancora contezza piena della spigolosità del tuo carattere, quella che faceva da contraltare ai lineamenti disegnati da Schiele e che ti rendeva parco di lodi, il più possibile. Per quanto sfilacciate tu me ne abbia sempre fatte, ma con un certo contegno, un controllo assoluto. Un mistero della tua psiche che non mi è stato ancora dato di sondare.
In ogni caso ti ho lodato, e di nuovo mi sei sembrato soddisfatto: bastano due versi, avrai pensato. In verità non erano i versi in sé, non tra i migliori anche tra i tuoi futuri, ma il fatto che quel tuo slancio a scriverne fosse anche il mio e apprezzassi il tuo coraggio di donarmene un paio, su uno scoglio, un giorno di sole come a Napoli ci sono in quantità così grande da far credere che ci sarà sempre il sole, fuori e dentro, e che le giornate cupe non sono una parte delle cose, sono proprio uno sgarbo, un improperio, un’ingiustizia. Siamo stati dunque nel sole ma in un sole che c’era sempre, senza stupore e senza contezza dei giorni cupi futuri.
***
Siamo rientrati a casa e ho pianto. Un pianto un po’ di maniera, ottocentesco, e un po’ no. Avevo il sentore dei giorni bui futuri, che sarebbero venuti ineluttabili come sempre vengono. A cena c’era pasta e zucca, e non mi è venuta voglia di andare a mangiare.
A casa mia non andare a mangiare era un affronto, una cosa inconcepibile. Prima di tutto era inconcepibile non potere avere fame, e in secondo luogo un’impronunciabile oltranza quella di non partecipare al desco con il resto della famiglia.
E infatti non c’è stato verso di impuntarmi: con gli occhi ancora un po’ rossi, dopo essermi soffiata il naso con un fazzoletto bianco con le iniziali del professore ricamate (così era ancora tutto molto più ottocentesco), mi sono seduta a tavola e ho mangiato pasta e zucca, mai stata la mia preferita, ma quest’era.
Nella mia famiglia a tavola si chiacchiera sempre molto. Mio fratello Adriano era appena tornato dal cinema con la sua nuova fidanzata, era andato a vedere Kill Bill, volume 1, ed era esaltato e incredulo. “Il sangue finto di Tarantino è la cosa più bella del mondo”, ripeteva. Mia madre tornava da una sessione di esami del suo corso di poesia italiana contemporanea, e mio padre, be’, aveva passato il pomeriggio nello studio a scervellarsi sulla tesi di Michele. Come ho detto era facile alle infatuazioni, ben più di me, e aveva puntato tutto sulle parole prodigiose di quel ragazzino con la testa di conchiglia.
“È intollerabile”, diceva. “Una testa così, e un perfezionismo tale che non combina niente! Che ci vuole, che ci vuole a buttare giù parole, apparentemente a caso? È così che acquistano significato”. Quando partiva con le sfuriate arenare le insensatezze non era facile, per cui lo ignoravamo. Penso che già allora puntasse su Michele per una borsa e per tenerlo come assistente. Michele aveva già dalla sua però una insostenibile testardaggine, e non ho mai capito sul serio a proposito di cosa lottassero. Quel che è certo è che dopo il mio pianto ottocentesco non ne volevo sapere niente: Michele è come giocare a tennis con il gatto, mi ero appuntata in qualche parte della testa, e ne ero in quel momento così sicura che, con il piacere di mio padre, se l’avesse saputo, quelle parole erano per me ineluttabili.
Michele è come giocare a tennis con il gatto e, a volte, è meglio buttare la palla a mare.