Minimo strutturale
Di Eda Özbakay
file
ultimamente le file sui marciapiedi sono diven-
tate più lunghe. rigorosamente dritte, di moto
uniforme lungo tutta la linea. spesso non se ne
vede l’inizio, motivo per cui la maggior parte
delle volte non si sa per cosa si è in fila prima
di arrivare al suo termine. la probabilità di
trovarsi nella fila giusta, visto il loro costante
allungarsi, si riduce di giorno in giorno.
abbiamo iniziato ad alzarci all’alba, a uscire
di casa in anticipo, e c’è persino chi non dor-
me più, per mettersi in fila dalla sera prece-
dente. ma il più delle volte, dopo una giornata
di attesa, la fila risulta essere quella sbagliata.
ieri il signor I., già stremato dall’attesa in
quella che sperava fosse la fila che lo avrebbe
condotto a casa, è stato punto da un cala-
brone gigante. pur di non perdere il proprio
posto, non si è mosso, assistendo alla lenta
decomposizione dei suoi tessuti con stupefa-
cente lucidità.
è capitato così, proprio in quel punto e in
quel momento, che una linea di universo si è
curvata, costretta a girare intorno alla massa
dei resti del signor I.
rotor
quando viene la signora U. per badare alle
due figlie dei vicini, le fa giocare nel rotor.
salgono sulle loro biciclette nel cortile perfet-
tamente cilindrico, dove prendono velocità
circolando sempre in tondo. diventa scia,
nella forza centrifuga, il giardino nei loro
occhi, e il verde trifoglio sfuma.
perde la sorella che non riesce a mantenere
la rotazione e si lascia catapultare lontano,
fuori dal vicinato. vince, invece, colei che
continua a girare in tondo, sospesa nel vuo-
to, mentre il pavimento del cortile scompare
graffiando la luce, sotto i raggi di ruota.
vanno e vengono
vanno e vengono con dei manti di piuma
glauchi, rifiutando di fornirci qualsiasi altro
contesto.
la frontiera - c per oltrepassare il varco oc- corre ammorbidire la facciata della cabina di controllo con il proprio alito. in molti ri- mangono incollati con la lin- gua al vetro, le fitte in bocca.
un nome
ogni sera, alle sei, si sentiva la salva di
saluto. quel cannone continuava a sparare,
anche se non era rimasto quasi nessuno da
salutare.
le case bruciavano sempre durante la notte,
mai di giorno. noi vestaglie bianche, tarme
intorno alle fiamme, ci radunavamo sulla
sabbia in salita, in silenzio.
ero fortunata. abitavo su una curva stretta.
troppo stretta per le camionette che nella
sterzata perdevano parte del loro carico dai
cassoni. un cocomero, acqua, delle cipolle.
quando non era rimasto più nessuno nel
villaggio, misi una sedia al centro della mia
stanza, in attesa dell’interrogatore. diceva di
cercare un nome, un nome da dare a tutto
questo.
breakfast
colazióne s.f. [dal lat. collatio -onis “il met-
tere insieme”]
di questo si tratta: di mia madre che finisce
di preparare la colazione , riempiendo i bu-
chi del formaggio con pezzi di formaggio, di
mio padre che si siede e inizia mordendo un
buco ripieno di formaggio sopra una riga di
giornale. di come cadono le briciole di vacca
sui trattati multilaterali.
evoluzione strutturale di un cadavere exquis
interiezione, articolo sostantivo pronome
riflessivo verbo avverbio preposizione arti-
colo sostantivo preposizione complemento
indiretto.
negazione pronome riflessivo verbo avverbio!
articolo sostantivo aggettivo, articolo
sostantivo aggettivo qualificativo aggettivo
preposizione sostantivo.
interiezione, avverbio.
la frontiera - E ecco i tosatori specchiarsi nella collina calva, un attimo prima di avvertire l'impatto del cemento sulle loro menti.
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I testi sono tratti da Minimo strutturale, di Eda Özbakay (pièdimosca edizioni 2024). Con questo estratto non rendo pienamente giustizia all’impianto del libro, alla sua capacità di integrare generi e materiali pur rimanendo animato dall’indecidibile. Più che una raccolta di testi di varia natura (racconti, poesie, costruzioni verbo-visive), si tratta di una piccola opera di incastro e compiute mescolanze. Quella che a una prima lettura si direbbe una serie di microracconti, a guardar bene, con quegli a capo calibrati, le tmesi, l’allineamento a sinistra, i paragrafi/stanze, rivela una densità non dissimile da quella della ‘poesia’, senza bisogno dei suoi dispositivi sonici più evidenti. Anzi, ad essi sottraendosi, mantenendone al minimo l’intensità (nelle liste immaginifiche e nei contrappunti, per esempio), affidando il dettato al potere dell’aleatorio, sempre sull’orlo di trascinarci via con forza centrifuga, e a cambi di frequenza che rivelano, passo dopo posso, un congegno assai ben predisposto. Riconosciamo il minimo strutturale del narrativo: un paesaggio (su cui incombe il caos), una ‘trama’ di rimandi possibili (indecifrabili), ma soprattutto delle forme (delle bozze) di personaggi la cui soggettività è ontologicamente debole o a rischio, coi loro corpi deformati, compressi e torturati lasciati senza spiegazione. Attraverso domesticità perturbanti, allegorie all’umor nero e metanarrazioni, il libro di Özbakay allestisce le sue microfinzioni, e le sviluppa su legature leggerissime. Lo fa soprattutto nell’uso ricorsivo dei testi “la frontiera”, seguiti da una lettera dell’alfabeto, che segnalano la particolare attenzione a un mondo ossessionato dalla classificazione, dal confinamento, dalle linee separatorie. Le figure più frequenti sono, dopotutto, geometrie claustrofobiche: le file, i cubicoli (piscine, cucine, cabine, scatole), le forme sferiche (il rotor, i crani, le “specie ad anello”). Varchi e strappi vengono a bucarle, fiotti di delirio che cercano vie d’uscita da una distopia in cui tutto è addomesticato, “è tutto legno, è tutto pareti, è tutto pavimento, è tutto tavolo e sfregamento” (33). Ѐ un furore sommesso, e una risposta elegantissima al disumano.
(RM)