Tre segreti di Pulcinella su vita e politica

di Lorenzo Mizzau
Dispositivo. Che il mondo in cui viviamo si esaurisca in un vertiginoso reticolo di dispositivi, sorprende così poco che, a ben guardare, proposizioni simili assumono oggi tutta la carica di ovvietà della tautologia. In effetti, un dispositivo non è che un operatore capace di incidere le linee che strutturano la nostra esperienza quotidiana, assestandole attraverso incessanti processi di scomposizione e ricomposizione. Tutto ciò che finora si è chiamato «istituzione» – dallo Stato alla scuola, dalle amicizie alle agenzie di rating, dalla famiglia alla formazione e ai saperi, dal lavoro agli apparati militari – non è, in ultima analisi, che un vettore di ordine, tale da comporre gli elementi della politica quotidiana, della cultura, dell’economia, della socialità, del gioco, del sogno e della guerra in un quadro efficiente di reciproci incastri.
Che un dispositivo disponga è qualcosa che chiunque è disposto a concedere. Eppure, dopo due secoli e mezzo di filosofia critica, dovremmo ormai aver imparato a diffidare delle tautologie: l’ovvietà è sempre, infatti, il luogo migliore per nascondere una trappola. Anche in questo caso, i sospetti si levano quando al lessico neutralistico degli «operatori», delle «disposizioni», delle «mediazioni» si sostituiscono sinonimi presi dal vocabolario della parzialità. In questo modo, ogni «operatore» diventa strumento e tecnologia di governo, ogni «disposizione» diventa un comando, ogni «mediazione» diventa un compromesso forzato. Lasciarsi alle spalle la neutralità fasulla, dimenticare le parole che ci hanno insegnato, è il primo passo per accedere a questo mondo.
Vampiro. Noi siamo stati derubati. Anzitutto della facoltà di chiamarci «noi». Di quel «noi» ci è stato lasciato il residuo più vergognoso, squallido e privo di valore: l’«io», il supporto senza nome del grigiore quotidiano. In effetti, con il «noi», insieme alla potenza di godere delle nostre amicizie, dei nostri odi, dei nostri amori e delle nostre lotte, ciò che ci è stato succhiato via è proprio il quotidiano. Oggi la nostra quotidianità si merita tutto il disprezzo che ciascuno di noi, nel suo buio sgabuzzino emotivo, le riserva. Come si fa terra bruciata di un territorio per forzare all’esodo di massa i suoi abitanti, così, oggi, i nostri nemici inceneriscono le nostre temporalità per mobilitarci verso la conquista del futuro. Ognuno di noi è già sempre sul piede di guerra. Ma ciò significa soltanto che abbiamo già tagliato in anticipo i nostri legami, affinché non ci ostacolino nella fuga. In questo stato di costante eccitazione, a cui siamo indotti da una mobilitazione senza meta perché finalizzata soltanto allo sgombero, non sorprende che qualcuno dia di matto. Ciò dipende anzitutto dalla strategia con cui il nemico è riuscito a stabilizzare quel complesso impazzito che sarebbe la «mobilitazione senza meta». Essa ha potuto esser trasferita sui nostri smartphone soltanto perché era già qualcosa di virtuale. Allo stesso modo, i nostri legami hanno potuto migrare sui social network soltanto dopo esser stati vampirizzati.
Che cosa c’è di nuovo? Le epoche fatalmente sfiorate dal sentimento della catastrofe imparano presto a dialogare tra loro. Eppure, se il medioevo è diventato per molti versi lo specchio del nostro tempo, non è soltanto in virtù dell’alito delle apocalissi (ecologica, sociale, etica o politica – per lasciare sullo sfondo la volontà oggettivamente genocida del capitalismo politico di oggi, che non si fermerà certo sul confine di Gaza o della Cisgiordania) che lo attraversano da ogni parte. Le vie della morte sono innumerevoli, e tra le sue scorciatoie più battute c’è senza dubbio quella che passa per lo sguardo e il cuore di ciascuno. «Lo sguardo dell’accidioso – scriveva Giovanni Cassiano quindici secoli fa – si posa ossessivamente sulla finestra e, con la fantasia, egli si finge l’immagine di qualcuno che viene a visitarlo; a uno scricchiolio della porta, balza in piedi; sente una voce, e corre ad affacciarsi alla finestra a guardare; e tuttavia non scende in strada, ma torna a sedersi dov’era, torpido e come allibito».
Nell’epoca del compiuto capitalismo cibernetico, le parole con cui Cassiano, nel De institutis coenobiorum, tracciava il ritratto del tipo malinconico, non sembrano aver perso nulla della loro attualità. Assicurarsi di avere lo smartphone in mano in ogni circostanza – al lavoro, al cinema, in metro, in biblioteca – non è infatti diverso dal lasciare socchiusa la porta della propria stanza. Significa lasciare uno spiraglio aperto per l’imprevisto. In ogni momento qualcuno può entrare. In ogni momento può accadere il nuovo. È il segreto del social network, che, con lo stesso gesto con cui ci espropria dei nostri legami, ci deruba della nostra impazienza – della nostra potenza di provocare il futuro. Non è mai stato vero come oggi che il futuro – preso in senso esistenziale – è la fonte genuina dell’angoscia. Heidegger ha saputo enunciare con ambigua chiarezza la connivenza tra futuro e morte. Il punto focale della sua formulazione è che la morte, proprio in quanto impossibilità di esserci, sottrazione e venir meno di ogni possibile, è, insieme, l’apertura originale della possibilità. Oggi l’ipotesi esistenziale dell’angoscia come apertura è confermata da ogni utente di Tik Tok, che, scivolando nel rabbit hole, di reel in reel, di swipe in swipe, passa attraverso tutte le sfumature dell’inautentico, dalla paura all’ennui, finché il suo sguardo non si fissa nel buco nero da cui scaturiscono le immagini possibili. Che il doomscrolling, l’idiozia indotta dell’utente ridotto ad automa, nella sua assoluta inautenticità, sia in ultima analisi retto, nella sua stessa possibilità, dal segreto legame tra i possibili e il loro angosciante sottrarsi, tra le immagini e la morte, è il significato del sorprendente neologismo «deadscrolling».