#3 Animali nel cassetto
una rubrica a cura di Bianca Battilocchi
Apri chiudi apri chiudi
chiudi ora addormenta le palpebre
cosa risiede ancora in quelle tasche di legno
rinchiuso nel rettangolo che scompare
quanti strati di foglie e memoria
tu e gli altri
archivio di fori e chiavi bottoni e graffette
impronte di fantasmi e sonagli
corrispondenze d’ogni tipo
direzioni e foto sbiadite
apri e ricorda
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Nella società dell’eccesso liberalizzato, dei corpi capitalizzati, delle colme discariche – fisiche quanto mentali – e del costante sforzo di rimuoverle dalla nostra vista, qual è il rapporto dei poeti d’oggi con ‘le cose’, soprattutto quelle accumulate e nascoste da tempo nei ripostigli domestici? Che cosa fa riemergere il contenuto di quei cassetti? Quale rapporto si cela tra le loro storie e la Storia? Non senza una certa dose di voyeurismo, questo spazio vuole ospitare differenti sguardi poetici sull’intimità dei propri nascondigli, animarli, osservare che voci parlano.
Giovanna Cristina Vivinetto (inedito)
Vuoi entrare: credi sia rimasta
nei cassetti, negli spigoli delle finestre.
Gli oggetti la sommergono intatta
in un silenzio immateriale, di boscaglia.
Nell’acqua stavate come un solo corpo
e forse il corpo è sempre stato solo
– la schiena premuta sulla vasca,
l’acqua in cui cresceva già qualcosa.
Ora tu vuoi entrare: chiedi se adesso
puoi comprenderla in te questa alterità
di foglie e sabbia sul fondo bianco,
di luce scheggiata ai bordi, appena screziata –
sentirla bene sui palmi e dentro le vene
come se ti appartenesse, come se
da sempre fosse stata tua.
Vuoi entrare e scuoti invano il metallo
della porta, perché non la trovi
da nessuna parte, non sai dove
sia finita tutta quanta l’ostinazione,
tutta la fatica che c’è voluta
per attraversare le parole, farle
diventare esatte – di colpo separarti
dal tuo corpo come dal corpo insopportabile di un altro.
Dimitri Milleri, Alcune cose lasciate nella mia testa (inedito)
L’isola era deserta, ci siamo arrivati con un vecchio traghetto. All’edificio in cui dormivamo mancava il pavimento, l’erba cresceva folta dappertutto. Era grande al punto da non farci incontrare. Il soffitto una volta d’aria, letteralmente ma senza che ci piovesse, sempre limpida.
Raramente incrociavo credo mio padre o mia madre, facevo un segno e continuavo. Devi studiare pensavo, adesso studi, c’era una Playstation accesa sull’erba con i cavi intrecciati. Un giorno mio padre dal nulla ci convoca e fa organizziamo: gite escursioni sveglia ma poi niente – non riuscivo a dormire.
A. è comparsa a quel punto, la bici portata a mano lungo la spiaggia libera – era caldo e la mia famiglia non riusciva a vederla. Spesso cambiava volto e diventava M., Serena, Marco, C., Matilde. Allora che pensi volevo dirle. Chi sei.
Viola Lo Moro, Ostinazione virale (Da Cuore allegro, G. Perrone, 2020)
Ho imparato a memoria il riflesso:
la persiana del palazzo alle spalle
nello specchio tondo mal laccato di rosa antico.
Ho contato nel riflesso le tapparelle
i punti di vernice
sul filo d’antenna
estratto a violenza dalla scatola elettrica
del palazzo alle spalle.
Convivo con l’incrocio miracoloso di tubi
l’intersezione forzata di fili.
Ecco la mia notizia dei giorni virali:
ho recuperato la vista
per necessità.
Conoscevo il pensiero solo dopo l’udito – il fruscio diceva
il bosco
la musica scarsa diceva
del cibo a consumo
il silenzio non diceva
la compagnia – ora son costretta
a guardare l’ostinazione
degli oggetti
indifferenti e screpolati
come me.