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Bifo, pensando dopo Gaza: «quel che ci resta della civiltà è solo questo»

«Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà» scrive Bifo in apertura a Pensare dopo Gaza, in uscita il 19 febbraio per Timeo. Poi aggiunge: «ma pensare dopo Gaza significa anche cercare le vie di fuga dal futuro che ci attende, che attende coloro che sono nati in questo secolo infame. A coloro che sono stati generati nella luce tenebrosa del secolo terminale, dobbiamo questa ultima azione di pensiero».

Ospito qui un estratto dal libro, di un libro che andrebbe letto –a prescindere– come diserzione ancora possibile verso quel futuro terminale come il secolo che lo ha generato. Eppure, sempre esistono vie di fuga.

Da qui, per ora, proseguiamo.

***

Che il genere umano possa sopravvivere all’attacco congiunto del cambiamento climatico, della demenza aggressiva dilagante e delle tecnologie di intelligenza distruttiva al momento non è certo. È però certo che la civiltà − intesa come progressiva «umanizzazione » dell’umano, come prevalere del linguaggio rispetto alla ferocia naturale dell’istinto − si sta disintegrando. Da tempo abbiamo percepito i segnali della disintegrazione, da tempo abbiamo capito che la deregolazione liberale apriva la strada al prevalere della forza nel rapporto tra gli animali umani.

Questa involuzione finale della storia moderna è diventata evidente nei giorni e nei mesi che sono seguiti all’atroce aggressione che le formazioni jihadiste palestinesi hanno scatenato contro le comunità che abitavano il sud di Israele il 7 ottobre del 2023, un’aggressione che dobbiamo definire come un pogrom, simile a quelli che il popolo ebraico ha subito nei secoli in molti territori europei, e simile a quelli che i palestinesi della Cisgiordania subiscono da anni per mano delle bande armate di coloni israeliani. Dopo questo anno di ininterrotta atrocità il fallimento del progetto umanistico e universalistico che prese nome di «civiltà » è apparso evidente e la ferocia ha ripreso il sopravvento: il ritorno della belva nella storia umana, il ritorno della violenza omicida come reazione primordiale di difesa della propria sopravvivenza. Il nome «Gaza» appare per la prima volta nei documenti militari del faraone Thutmose III nel xv secolo avanti Cristo. Nelle lingue semitiche il significato del nome della città è «feroce». Come capita spesso nella storia gli uomini si attribuiscono titoli altisonanti, esibiscono posture aggressive e promettono sfracelli, e fu così che i gazawi si auto-nominarono «feroci». L’infelicità del mondo dipende almeno un po’ da questo attribuirsi un’identità, una grandezza, una potenza che non abbiamo, ma che ci piace ostentare, e che talvolta siamo obbligati a ostentare nella speranza di spaventare altri che sono, in realtà, più feroci di noi. Quella sabbiosa striscia di terra che si affaccia sul Mediterraneo orientale è menzionata molte volte nella Bibbia, in antichi documenti egizi e iscrizioni di Ramses II, Thutmose III e Seti I.

Quando gli israeliti giunsero nella Terra Promessa, Gaza era una città filistea, e fra i suoi abitanti c’erano gli Anachim, una popolazione che abitava le regioni montuose di Canaan e alcune zone costiere. È a Gaza che Sansone, accecato e in catene, fece crollare il tempio dedicato all’adorazione di Dagon, dove potevano radunarsi oltre 3000 persone. Morì lui stesso, ma portò con sé all’inferno migliaia di filistei. Dopo il 7 ottobre gli israeliani hanno reagito con crudeltà e ferocia. Se la crudeltà è un desiderio perverso degli umani, la ferocia è reazione animale, iscritta nell’istinto di conservazione. È il ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna l’inizio del processo di estinzione della cosiddetta civiltà. La civilizzazione ha consistito, almeno nei secoli moderni, nel tentativo di sottomettere la ferocia alla politica, l’istinto alla volontà, cioè di sottomettere il caos al linguaggio. Dopo Gaza è tempo di riconoscere che quel tentativo di umanizzazione della storia è fallito, e che non ci sarà un’altra prova. È tempo di riconoscere che l’esperimento chiamato civiltà è fallito. Quel che la civiltà ci ha consegnato in modo durevole è la potenza distruttrice della tecnologia, particolarmente della tecnologia militare. Ma quando la ferocia prevale, la tecnologia diviene la funzione della guerra. Quel che ci resta della civiltà è solo questo: la nostra capacità di uccidere in modo molto più sofisticato e sistematico rispetto a qualsiasi altro animale feroce.

Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà. Ma significa anche cercare le vie di fuga dal futuro che ci attende, che attende coloro che sono nati in questo secolo infame. A coloro che sono stati generati nella luce tenebrosa del secolo terminale, dobbiamo questa ultima azione di pensiero, perché possano disertare la storia, lungo sentieri che al momento non possiamo immaginare.

Pensare dopo Gaza significa riconoscere che le parole sono proferite per dire l’esatto contrario di quello che l’analisi storica, semiologica e psicologica permette di comprendere. Nell’epoca della ferocia il linguaggio serve solo per mentire, ingannare, sottomettere e sfruttare. Nel discorso corrente, nei media ultraveloci, non c’è tempo per l’analisi storica, semiologica o psicologica. Non c’è più tempo per ascoltare né per capire. Il tempo di circolazione dei messaggi nella mediasfera elettronica è iperveloce, più veloce di ogni elaborazione cognitiva. Il tempo accelerato dalla tecno-mediasfera è un tempo contratto, così contratto da non permettere la comprensione e l’elaborazione critica delle parole. In questo senso possiamo dire che si è esaurita la storia umana: perché l’umano (al di là di ogni privilegio specista) è la sfera in cui le parole hanno un senso, i segni vengono interpretati, e il linguaggio media le relazioni tra corpi. Da quando il linguaggio è diventato il campo di battaglia in cui il più potente impone il proprio significato, da quando, in nome della velocità di circolazione dei segni-merce, le vie della critica e dell’indipendenza di pensiero sono state tagliate, siamo entrati nel regno della ferocia. Nel regno della ferocia ogni forma di linguaggio diventa uno strumento di sterminio.

Il Diritto, la Legge si proponevano come forme universali capaci di regolare il rapporto tra gli attori del gioco sociale, intesi come soggetti di linguaggio. Nei secoli moderni il diritto si è affermato come discorso universale alternativo alla ferocia dell’appartenenza tribale. La moderna affermazione dell’universalità della ragione fu resa possibile dal contributo intellettuale ebraico, dal contributo intellettuale di coloro che pensavano da un luogo nomade, da un luogo diverso dall’appartenenza. Anche l’internazionalismo operaio e comunista fu reso pensabile dal contributo della cultura ebraica, libera dall’appartenenza etnica o territoriale. Per questo la tragedia di Gaza ha un carattere definitivo e irrimediabile: perché mostra il tradimento del contributo intellettuale ebraico alla civilizzazione moderna da parte di uno stato e di un esercito che si propongono come espressione territorializzata di quella cultura, eredi di quella storia. Pensare dopo Gaza significa prendere atto del tradimento della cultura ebraica da parte del gruppo dirigente sionista e da parte della grande maggioranza del popolo israeliano: il fallimento della ragione universalista e il tradimento della cultura ebraica moderna sono le due facce della stessa medaglia. Lo stato di Israele è stato fin dall’inizio tradimento e negazione di questo contributo; ma oggi, dopo Gaza, lo scempio del diritto, e della stessa illusione dell’universalità della ragione umana, è divenuto programma politico e senso comune di Israele. La vittoria militare dell’esercito e la complicità del popolo israeliano con il genocidio scatenato dal governo Netanyahu segnano in maniera irreversibile la regressione verso il particolarismo e la cancellazione di ogni speranza di un futuro «umano».

La lezione che Israele ci ha dato è questa: nella sfera storica le vittime non sanno né possono chiedere pace né riparazione, ma possono soltanto cercare vendetta. Ciò vuol dire che le vittime di oggi non potranno mai essere altro che vittime, a meno che non riescano a trasformarsi in carnefici. Dopo il genocidio israeliano, il diritto, l’universalismo e la democrazia appaiono come illusioni che i predatori hanno usato per mantenere il loro potere sulle prede. Ma ora queste illusioni si sono dissolte e appare la faccia feroce del colonialismo, di cui Israele è l’ultima manifestazione. La lotta contro il nazismo e la vittoria contro la Germania di Hitler permisero di riaffermare il valore e l’attualità dei principi dell’universalismo moderno. La ferocia nazista venne sconfitta dalla ferocia delle potenze antifasciste, ma oltre la ferocia della guerra parve poter emergere il tempo della pace, del diritto, della democrazia. Era questo il senso del «nie wieder» che stava alla base della formazione culturale e politica delle generazioni cresciute dopo la fine della Seconda guerra mondiale (la mia generazione). Oggi quella convinzione appare definitivamente un’illusione. Quel mai più era provvisorio, perché non si sono create le condizioni per espellere la ferocia dalla sfera della civiltà umana. Quelle condizioni stanno (o stavano) nell’uguaglianza sociale che la classe operaia organizzata ha avuto la forza di imporre in maniera limitata, senza però raggiungere il nucleo generatore della ferocia: la proprietà privata, lo sfruttamento, la trasformazione del tempo di vita in valore di scambio. Il genocidio che gli israeliani hanno scatenato per vendetta contro la vendetta dei palestinesi mostra che quel nie wieder era una menzogna, perché le vittime del genocidio nazista si preparavano a diventare forti abbastanza per perpetrare a loro volta il loro genocidio.

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3 Commenti

  1. Bifo scrive: “Dopo questo anno di ininterrotta atrocità il fallimento del progetto umanistico e universalistico che prese nome di «civiltà » è apparso evidente e la ferocia ha ripreso il sopravvento”… Sono d’accordo che si è trattato di una soglia storica, una soglia preparata a monte certo, ma che è stata varcata nel 2024 con la risposta israeliana alla strage del 7 ottobre, e che continua ad aggraversi in seguito all’elezione Trump e alle politiche che questi promuove. Non vedere fino in fondo questa “radicalizzazione” che è stata nei fatti di Israele, ma in “spirito”, ossia in fratellanza ideologica, delle destre estreme in varie parti del mondo, è una forma di diniego. Il diritto internazionale, la diplomazia politica, le istituzioni democratiche, nazionali e internazionali, e alcuni valori elementari come la pietà, sono stati attaccati e denigrati come mai prima d’ora, almeno dal Dopoguerra in poi.

    Non sono pero’ d’accordo quando Bifo scrive: “La ferocia nazista venne sconfitta dalla ferocia delle potenze antifasciste, ma oltre la ferocia della guerra parve poter emergere il tempo della pace, del diritto, della democrazia. Era questo il senso del «nie wieder» che stava alla base della formazione culturale e politica delle generazioni cresciute dopo la fine della Seconda guerra mondiale (la mia generazione). Oggi quella convinzione appare definitivamente un’illusione.”

    Quella convinzione, come lui stesso scrive più sopra, era legata ad un progetto. Questo progetto implicava dei valori, una strategia politica, un’immaginario. Nulla in tutto cio’ era garantito. L’atrocità della guerra aveva motivato la gente ad abbracciare un tale progetto. Ma esso non era inscritto né nel destino dell’umanità né nell’ordine delle cose. Ma questo vale anche per il fascismo montante. Il progetto democratico non è si è svelato di colpo come “una definitiva illusione”. Il progetto democratico è stato sconfitto su più fronti, e in modo oggi gravissimo. Ma non per questo esso è un’illusione. Esso è un progetto, che in questo momento è impedito in modo radicale, e non trova forze per imporsi, per salvaguardare i suoi principi e valori, le sue norme, ecc. Anche se il fascismo trionfasse, come ha trionfato nel Novecento in alcune zone del mondo, nulla garantirebbe la sua perennità, nulla garantirebbe che la ferocia, essendo più istintiva, è allora più “naturale”, più “reale”, del tentativo di canalizzarla e limitarla. L’unica illusione che si puo’ denunciare è quella di coloro che hanno creduto che un certo assetto democratico, nei fatti e nelle menti, fosse una realtà “per sempre”, irreversibile, o “naturale”. E’ stata il frutto di scelte, di battaglie, di resistenza, di speranze. E anche se come mai è sotto attacco, continuerà ad esistere in questa forma: scelte, battaglie, resistenza, speranze.

  2. Buongiorno,
    concordo pienamente con il pensiero di Andrea Inglese, ma saranno le generazioni future che forse dovranno combattere i nuovi fascismi così in grado di avere una visione vera e autentica della nuova democrazia? O piuttosto sono portate a delegare in nome dell’indifferenza? Grazie.

  3. Buongiorno,
    concordo almeno in parte con “Bifo”. Ne condivido la lucida disperazione storica. Eppure, non riesco a non sperare che le nuove generazioni siano in grado di non delegare il potere in nome dell’indifferenza, ma sappiano supplire e guarire ciò che abbiamo inferto noi alla storia, al pianeta. Ho fiducia nel fatto che i giovani sappiano essere più critici e migliori, in grado di liberarsi dalle pastoie tecnocratiche di cui nascono inconsapevoli vittime.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano) e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha preso parte al progetto Civitonia (NERO Editions). Ha curato, per Argolibri, l'inchiesta letteraria La radice dell'inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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