Contro l’eccesso di lavoro
di Daniele Muriano
C’è oggi una consapevolezza strisciante che riguarda l’eccesso di lavoro in circolazione, e viene dalla pandemia e dallo smart working: sempre più persone, con argomenti diversi e sensibilità non comunicabili, stanno misurando con la loro pelle il potenziale affettivo-effettivo del tempo libero (pur nella consapevolezza che il tempo libero è una truffa, come sosteneva Adorno: è una truffa, perché è il pallido riflesso del tempo lavorativo, e meglio di Adorno lo sa la signora Emma che lavora in cassa nel supermercato di una famosissima catena, vicino casa mia, a Milano sud, che mi racconta di lavorare 12 ore in un giorno, più pausa pranzo, ed eventuale straordinario; per poi restare a casa il giorno successivo, che serve semplicemente a riprendersi dalla fatica, per poi ripartire l’indomani con le 12 ore, e così via). Lo smart working, si diceva. Sì, perché la consapevolezza è spirata da questa innovazione. Che all’inizio il Capitale ha abbracciato con gioia e bacetti sulle guance, perché si trattava in fondo di colonizzare l’ambiente domestico ancor di più, di compenetrare intimità e senso del dovere, con enormi speranze produttive. Ma è esattamente attraverso lo smart working che molte persone hanno avuto modo di pesare il “tempo libero” in senso pratico e non solo fantasioso, risparmiando ore di vita prima impiegate sui mezzi pubblici affollati o in treni sonnacchiosi. Non è un caso che dopo l’iniziale benedizione, lo smart working si stia riducendo (laddove non è produttivo per l’azienda, dove insomma non serve per risparmiare sul costo delle strutture e dei luoghi di lavoro); Elon Musk, per dirne uno a caso, ritiene lo smart working alla stregua di un vizio, se non serve al datore di lavoro: un problema morale. È il caso emblematico di un “re della telematica” contro le innovazioni della telematica.
La consapevolezza strisciante a cui alludevo, dove si comincia a usmare collettivamente una certa libertà, o al contrario una certa oppressione (se lo smart working diventa totalizzante e occupa addirittura più tempo e spazio interiore del lavoro in ufficio, e questo è il rovescio della stessa medaglia), è circostanza fortuita che andrebbe cavalcata. Ma esiste la sinistra? Esiste una politica che non sia confermativa?
Per il gusto di essere antipatico, quando entro nell’orbita di chi – da sinistra – ha digerito male Marx, io dico che a Marx preferisco il di lui genero, Paul Lafargue: autore dell’Elogio dell’ozio, bestemmiatore del “dogma del lavoro”, andrebbe riletto per contaminare un certo entusiasmo sregolato che da sinistra si imprime al lavoro di per sé – non quanto ai sacrosanti diritti dei lavoratori. Il marito di Laura Marx, Paul Lafargue, è anche padre (a)spirituale di molto pensiero novecentesco contro il lavoro: individua nella passione per il lavoro in sé (indipendentemente dagli scopi, dai desideri di ciascuno) una spinta verso gigantesche miserie sociali e individuali.
Certo, il rivoluzionario Lafargue poggiava i piedi nell’Ottocento, all’ombra nascente della seconda rivoluzione industriale, e parlava da un mondo dove il lavoro era ben altra cosa: eppure quegli argomenti parlano anche al nostro mondo sorridente e un sacco smart. Perché mai?
Non è difficile rendersi conto che, in questo nuovo vecchio secolo, l’eccesso di lavoro è un pericolo per le democrazie, e non solo un’aberrazione sotto i più immaginabili punti di vista. Che le democrazie siano gravemente ammalate, qualunque cosa si intenda con questo, è sotto gli occhi di tutti. Anche sotto quelli di chi nega – con argomenti a volte comprensibili – che viviamo effettivamente in regimi democratici.
La questione è semplice, inizialmente. Il mondo è sempre più complesso, sempre più incomprensibile, dice l’esperienza comune. Perché il mondo è fatto in larga parte di informazioni: certo, esiste il mondo pratico e vitale come l’universo affettivo (per chi può permetterselo), e ci sono un sacco di cose che possiamo toccare. Ma il resto è informazione. A quanto pare noi viviamo in tempi di infodemia, parola recente almeno quanto il problema che vorrebbe designare (anche se a volte quelli che la utilizzano sono il problema). Dobbiamo sapere troppe cose, perché dobbiamo vagliare troppe informazioni. Siamo cretini? No, non siamo cretini. Ma abbiamo poco tempo. Pochissimo tempo. Il sistema mediatico ne approfitta. E propone un’offerta disegnata per chi ha poco tempo, per chi non può verificare il valore di verità delle affermazioni più surrettizie, delle cretinate circolanti. E cosa si fa? Si beve tutto, o si sorseggia timidamente il drink delle informazioni. E poi? Si vota. O non si vota. Ma il risultato non cambia, pare.
A queste condizioni, noi cittadini di un mondo che non si comprende, è possibile organizzarsi per cambiare le cose? Dal basso. Ma in che modo? Proteste d’antan, ingenuità strutturale, violenza senza capo né coda, boicottaggi inutili, dichiarazioni di rabbia – cosa possiamo fare? Poco o niente. Non c’è tempo per sapere. Non c’è tempo per informare. Non c’è tempo.
Partito del tempo dovrebbe chiamarsi l’unico partito senz’altro di sinistra e sinceramente democratico. È da lì che è necessario partire. Ma metto da parte la boutade, o almeno ci provo.
Quasi sempre, parlando con la “gente che lavora” di ciò che succede nel mondo (dalla guerra in Ucraina al conflitto israelo-palestinese, ma anche Cina, India, o Nordafrica), non appena si scende un po’ di profondità culturale, arriva la protesta: “Ma io come faccio a sapere di queste cose? Non ho tempo. Devo lavorare, non posso sapere chi sono i cinesi, o gli israeliani, o gli ucraini, o gli egiziani, a mala pena so chi sono gli italiani”. Vale lo stesso per i meccanismi fondamentali dell’economia, per la conoscenza minima di un periodo storico, e per la cultura politica necessaria a organizzare un eventuale dissenso. Di fronte alla complessità del mondo, e alla complessità dell’informazione che fa il mondo, il lavoratore medio è esautorato. Dalla democrazia. Va bene, può ancora votare, ma è un elettore vuoto (o pieno degli omogeneizzati politici e culturali che sono diventati gli articoli o i contenuti giornalistici, la gran parte di essi – il cosiddetto mainstream, in opposizione a una galassia di controinformazione dove non ci si può orientare di fretta, senza prendere abbagli). Per essere un elettore pieno, sazio di informazioni, il cittadino ha bisogno di tempo, molto tempo. Il Partito del tempo, certo, e sono ricaduto nella boutade.
Ovviamente suona ridicolo, ne sono consapevole. Ma non perché sia ridicolo. L’etica del lavoro-per-il lavoro ha reso ridicolo il tempo libero da intendersi come ozio, e lo ha venduto a chi pagava peggio, lo ha sterilizzato politicamente. Per questo pretenderlo, e in modo più che serio, è diventato ridicolo. È da ridere perciò anche la proposta politica più sensata: un reddito universale democratico.
Se regali ai cittadini più tempo, non è detto che mangino brioche. Cioè non è sicuro che il tempo mancante per essere compiutamente cittadini (la pancia piena di informazioni) venga riempito proprio da tutti in maniera virtuosa. Ciascuno con il tempo fa ciò che vuole. Come ciascuno del sistema sanitario nazionale fa ciò che vuole. Non è mica obbligato a curarsi. Non deve far prevenzione per forza, o per legge. Usa il welfare in generale come può – vale a dire come vuole.
Un reddito universale democratico è una forma di welfare, e un’assicurazione contro la deriva apolitica della politica. Fornire a chi lo richiede, indistintamente, senza precondizioni, il minimo indispensabile per la sopravvivenza, è cosa vecchia, ultra detta e marginalmente sperimentata. L’hanno sviluppata teoricamente in tanti, e non bisogna leggere obbligatoriamente con amore André Gorz o abbracciare entusiasti Smircek e Williams e il loro accelerazionismo (di sinistra), per andare in brodo di giuggiole. Basta un pizzico di immaginazione.
Tra l’altro, la proposta di un reddito universale (anche se non concepito come democratico), non è una prerogativa di gente terrificante e brutta, anti-capitalista, che ha per incubo il neoliberismo. Hanno sposato la causa di un reddito di base per tutti anche economisti neoliberali – sebbene in alternativa al welfare, quindi molto male anzi malissimo. Ora non c’è tempo o spazio qui per fare la storia di questa proposta, né per discuterne la fattibilità futura. Che esiste. Il punto è un altro, ragionevolmente.
È in questione l’orizzonte, c’entrano le stelle verso le quali orientarsi nella notte. Si condivide l’approccio? È vero che il disorientamento politico ha molto da spartire con la scarsa capacità di comprendere il mondo? Che la complessità del mondo (ovvero delle sue informazioni) chiede più tempo che in passato? Se non si accetta la verità contenuta in queste domande retoriche, si hanno speranze di carriera e di affermazione individuale. Evviva, auguri. Quando si condivide invece la necessità politica di un Partito del tempo, allora bisogna uscire dallo scherzo, e pensare seriamente.
La maggior parte dei critici del lavoro muove guerra al capitalismo, e al neoliberismo. Ed è sensato, legittimo. Ma la maggior parte dei cittadini non sa nemmeno cosa sia il neoliberismo, e “capitalismo” viene letta come una parola d’ordine per iniziati alla marginalità politica. Invece, la democrazia sanno tutti cos’è. Certamente, magari in tanti non ne riconoscono le cadute, o non sanno definirla precisamente (ma chi ne è capace davvero senza contraddirsi per un attimo?)
Che la democrazia richieda tempo, è uno slogan semplice. Che essere compiutamente cittadini chieda tempo, è altrettanto semplice da capire. La democrazia è anche il tempo, senza il quale semplicemente scompare.
I cittadini che ricevano un reddito universale democratico (il minimo per sopravvivere), e che possano quindi scegliere quanto tempo dedicare al lavoro piuttosto che lavorare per quasi tutto il loro tempo da svegli, potranno svegliarsi alla politica. Se lo vorranno. E comunque avranno tempo per capire, per situarsi. È la storia di cittadini che diventano cittadini. E questo è il minimo dei prezzi, se è vero che la democrazia ha un costo.
Non affronto in questa limitata sede gli effetti che una misura simile avrebbe sul sistema economico e sul mondo del lavoro. Quanto alla fattibilità in un futuro non troppo lontano, è evidente che i maggiori ostacoli risiedano in una certa densità culturale, animata forse qui e là da residui teologici. Ricordo inoltre che ci troviamo nel territorio dell’imprevedibile. L’intelligenza artificiale è tra noi; fino a dieci anni fa nulla di ciò che sta accadendo in questo campo era prevedibile esattamente. Il futuro è politicamente nero come la notte, sì: soprattutto perché non ci sono stelle verso le quali orientarsi. E allora costruiamole, ciascuno nel proprio possibile. Questa è una di quelle.
Una gran bella lettura, grazie, ricca di stimoli e riflessioni. Mi lascia un poco perplessa l’idea di un “minimo indispensabile per la sopravvivenza” concesso a chi ne faccia richiesta senza che dalla sua erogazione non derivino ricatti. Per come si stanno mettendo le cose nutro forti dubbi circa un futuro dove chi veramente voglia vivere di poco, ossia si faccia bastare una dignitosa sopravvivenza, sia lasciato libero di esistere, di incarnare quindi un soggetto altamente disturbante poiché affrancato, di fatto, dal consumismo, in poche parole libero: anche di ammalarsi, di camminare piano, di non essere connesso, di invecchiare in santa pace e in santa pace, infine, crepare.
Intanto grazie per aver letto ed essere intervenuta! Sì, anche io fatico a immaginare un futuro in cui si possa sfuggire così facilmente alle tensioni del consumo. Ecco però: la mia modesta proposta non si inserisce in un quadro di alternativa al capitalismo, né sottintende una critica radicale del consumismo (non perché la pensi in altro modo, per carità, ma perché non ho le risorse, anche immaginifiche, per pormi su quel piano lì). Comunque è certo che, in un momento che non riusciamo ancora a prevedere esattamente ma che troppi indizi ci indicano come vicino, la temuta sostituzione e la completa automazione del lavoro creeranno le condizioni per uno scenario totalmente nuovo. Cosa accadrà allora dipenderà da come ci saremo preparati nel frattempo, in senso – si potrà ancora dire? – ideologico. Potremmo non essere disposti a rinunciare a qualcosa di inutile, e al controllo sociale che lo motiva.
Mi immagino comunque che la sperata liberazione del tempo creerebbe nuovi desideri, bisogni e dunque consumi. Ciò che sarebbe al centro del “ricatto” (prendo a prestito questo termine) non riguarderebbe più la sussistenza, ma il voluttuario. Del resto, anche adesso, molti privilegiati che potrebbero permettersi di liberare il proprio tempo perché hanno sufficienti mezzi per non lavorare in modo continuativo, scelgono lo stesso il lavoro a tempo pieno per non abbassare drasticamente il livello e la varietà dei propri consumi. E sono in una condizione diversa da chi deve accettare il lavoro capestro come alternativa alla fame.
Nel mio piccolo, mi accontenterei di pochissimo: che argomenti simili facessero breccia nell’orizzonte politico che già dovrebbero abitare. E invece no: là si confonde la sacrosanta difesa del lavoro con l’idolatria. Con giganteschi danni per il nostro immaginario politico e per il possibile. Sono andato un po’ lungo, chiedo scusa.
Grazie per il tempo di questa bella risposta. Dipende moltissimo da noi, credo, è una questione molto intima (etica? forse) quella che ha a che fare con noi stessi calati nel tempo, e da questa postura, a sua volta, dipende la nostra attitudine a liberare il tempo dal consumo, la messa a fuoco della vacuità che si è impadronita del nostro modo di esistere, di stare nel mondo, di relazionarci tra umani. Interessantissimo e prezioso dibattito, questo innescato dal tuo articolo, sul lavoro, sul tempo, sull’immaginario politico e il possibile. In alto i cuori?
@Paola Ivaldi
Sono contento di queste consonanze, che per esperienza non mi aspetto. Di solito, quando ragiono di questi argomenti in pubblico, sono preparato a rispondere alle critiche, sempre legittime ovviamente, anche se spesso di impronta moralistica. Ecco, sì, penso che il passaggio dalla dimensione “intima” a quella politica debba avvenire, anche per queste istanze, con l’energia di un minimo entusiasmo collettivo, altrimenti si rimane collettivamente nel “dogma del lavoro” che, appunto, ha retaggi non solo ideologici ma pure religiosi, dottrinali, veterotestamentari (e allora benissimo “in alto i cuori”, per quanto mi riguarda! Per me senza nessuna sfumatura antireligiosa, ovviamente).
“Si confonde la sacrosanta difesa del lavoro con l’idolatria”: proprio così.
Leggendo altre cose trovo on line una citazione da “Nello sciame” di Byung-chul Han, che non ho letto, ma che è vicina a questo discorso:
“L’ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tempo dell’ozio è un altro tempo. L’imperativo neoliberista della prestazione trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il tempo di lavoro. La pausa ne è solo una fase. Oggi non abbiamo tempo all’infuori di quello lavorativo. Ce lo portiamo dietro, così, non solo in vacanza, ma anche nel sonno. Per questo dormiamo agitati: i soggetti di prestazione spossati si addormentano come si addormenta una gamba. Poiché serve alla rigenerazione della forza lavoro, anche il riposo non è nient’altro che una modalità del lavoro: il rilassarsi non è altro dal lavoro, ma il suo prodotto”.
@Ornella Tajani
Grazie per la bella citazione!, tra l’altro da un libro e da un autore che incontrai con entusiasmo prima ancora del botto editoriale, e a cui resto sinceramente affezionato (anche se c’è chi ne pensa abbastanza male, forse per il successo pop e perché Han vuole parlare evidentemente a parecchi: però le cose fanno sperare che ci sia un interessante spazio di dicibilità intorno a questi argomenti, nonostante l’indicibilità in politica).
Grazie di questo articolo, che sento molto vicino, in particolare rispetto all’idea che la “verità”, le verità, di qualsiasi tipo, richiedano un tempo percepito sempre più spesso come un’eccentricità. Da par mio parlo di solito di profondità, di complessità: ma in fondo è la stessa cosa.
Mi colpisce soprattutto quanto tempo si dedichi al *parlare* del lavoro da fare/che si fa, quanto il discorso sul lavoro intossichi sempre di più anche i risicati spazi non lavorativi: mi riferisco però a lavori diversi da quello della signora Emma, che dopo 12 ore vorrà sacrosantamente staccare la spina; mi riferisco a quei lavori che portano a un’identificazione totale dell’io con l’attività professionale, rendendo superflua una realizzazione in altre sfere (come ad esempio quella di una cittadinanza consapevole e attiva).
Grazie per la vicinanza all’articolo (visto che anche solo annotare brevemente queste riflessioni, che poi restano per sempre nel digitale e possono persino ‘fare curriculum’, amplifica l’impressione di solitudine e addirittura di desolazione).
Ecco sì, pure a me pare verosimile che il tempo libero della signora Emma sia più libero di quello di un professionista (generalmente parlando, per non cadere nei luoghi comuni) che fa combaciare diciamo la propria identità con la funzione che gli è stata assegnata. Del ‘parlare del lavoro’ sembra spesso inquinante il come: una lingua si porta appresso un’etica, e spesso chi fa un certo lavoro parla sempre in quel modo lì (vale più per le professioni intellettuali, ovviamente) anche quando ci sono in mezzo cose famigliari o molto intime. Mi viene l’esempio un po’ buffo di una persona, un professionista del marketing, che parlando con me dell’imminente parto di sua moglie (o compagna, non ricordo) si riferiva alla cosa come alla “delivery”. Niente di eccezionale, temo. Ciascuno, nella propria galleria degli orrori, troverà un equivalente, forse.
Facile immaginare che questo genere di lavori (dove identità e funzione possono coincidere rischiosamente) saranno nel prossimo futuro i più duri a morire. I mestieri più materiali verranno sostituiti prima, o comunque in modo più completo e autonomo, dalle macchine. Quindi le tossine in circolo sono destinate ad aumentare, forse. Anche perché le intelligenze artificiali, che presto saranno le nostre colleghe di lavoro, e in molti campi già lo sono, hanno un modo di parlare e di argomentare che appiccica abbastanza, e sono lavoratori che non smettono mai di lavorare e dunque di parlare di lavoro. Mi pare virtuoso ragionare su questa pervasività, oltre che sul “pericolo democratico” che ho cercato di indicare nel mio articolo.
(Rileggendo mi rendo conto che potrebbe non capirsi la stranezza dell’uso di “delivery” in quel contesto, se non ci si è immersi nella neolingua anglofona di quell’ambiente, dove “delivery” ha un unico significato e un uso anche piuttosto minaccioso e ossessivo. L’accostamento al parto, anche se legittimo quanto al significato, produceva in noi qualcosa di orrido. Perché la neolingua anglofona di certi ambienti lavorativi livella i significati in modo insopportabile).
Ho molto apprezzato questo testo, grazie. Anche se sulla premessa adotterei argomentazioni leggermente più sfumate, perché è molto difficile avere certezza di un prevalente “eccesso di lavoro” in un paese come l’Italia, ad esempio, dove il part-time imposto, specie alle donne, non è un fenomeno di poco peso, e dove nel Meridione il tasso complessivo di occupazione è bassissimo. Certo ci sono intere fasce di genere e generazionali (giovani, donne) che, quando e se lavorano, lavorano tendenzialmente sfruttate, sottopagate e senza tutele. È complesso ed eterogeneo, l’universo del lavoro, ancora di più se allarghiamo lo sguardo al prossimo futuro (sostituzione di milioni di posti di lavoro umani con AI) e a un orizzonte internazionale (penso alle interessanti campagne per la settimana di 4 giorni che hanno raggiunto molti paesi).
Apprezzo molto il riferimento a Lafargue, al valore dell’ozio e del tempo libero. Uno degli aspetti più inattuali del marxismo classico mi sembra proprio quell’ossessione industrialista che capovolge la prospettiva borghese ma forse oggi ci aiuta poco. Anche se Marx conosceva perfettamente il valore del tempo, del tempo operaio e del tempo asservito e liberato, ed è stato lui a insegnarci il concetto di alienazione.
Ma ancora di più ho apprezzato l’articolo nel suo ragionamento sulla democrazia e il suo esercizio. La democrazia se la passa malissimo, ma se ci interessa “democratizzare la democrazia” è proprio su processi deliberativi e non rappresentativi che dovremmo puntare, dovremmo imparare a delegare di meno e a decidere di più. Ma per decidere occorre essere informati, e per essere informati e deliberare occorre tempo. Tempo libero, o “tempo liberato” al servizio della democrazia e della felicità.
Grazie per la lettura attenta, e per questo intervento che mi permette forse di chiarire meglio un punto. Sì, è vero, parlare di eccesso di lavoro in termini assoluti non ha senso, in Italia; e in effetti non ho inteso farlo, avrei dovuto distinguere meglio nella mia premessa (ma c’è così tanta materia nel mio breve intervento, che la densità mi ha imposto alcune omissioni). Condivido anch’io il senso di realtà dei suoi rilievi, certo: ovviamente è così. Tuttavia, come scrivevo in risposta al commento di Paola Ivaldi qui sopra, mi sembra molto importante distinguere la difesa del lavoro dalla sua idolatria (e mi riferivo al brago in cui si trova a rimestare la cosiddetta sinistra, quella che aspira al parlamento, naturalmente). Distinguere la difesa del lavoro dall’idolatria vuol dire per me considerare criticamente la situazione di chi si trova nella norma, o meglio nella condizione per cui ci si batte, ovvero l’impiego a tempo pieno, la gabbia salariale. I problemi che lei rileva sono appunto reali, ma sono patologie in un corpo che si ritiene sano. O meglio in un corpo che aspira a guarire secondo quelle ricette. Mi sembra utile non mescolare l’eccesso di lavoro che prescrive la norma, con la mancata realizzazione della stessa (con il conseguente impegno politico a realizzarla, dalle parti politiche in campo). Ecco, forse ci ho messo troppe parole per argomentare, e una buona metà non erano necessarie; ma ci tengo davvero a che il mio pezzetto scansi questo equivoco. È un ragionamento sul sistema patologico, non sulla deviazione dal sistema patologico (anche se questa deviazione appare adesso, per condizioni politiche ed economiche durature, una norma a sé stante). Solo in questo modo, secondo me, è possibile distinguere la difesa del lavoro dalla sua idolatria, ecco.
Sono d’accordo anche su Marx e Lafargue, dove il secondo – anche se provocatoriamente – ci aiuta oggi a chiarire meglio il primo. E sono felice anche della consonanza quanto alla necessità dell’informazione ai fini del deliberare, cosa oggi non affatto scontata, soprattutto dopo il passaggio meteorico (e per certi versi distruttivo, per altri no) del Movimento 5 Stelle e dell’idea di democrazia che ha portato avanti in un modo sbagliato, colludendo di fatto con la nozione sonnolenta di democrazia che ci vorrebbe sonnambuli dove soltanto pochi hanno diritto di rimanere svegli (anche perché, fuor di metafora, hanno sia il tempo di dormire sia il tempo per informarsi; mentre a volte i più volenterosi di noi devono scegliere per l’uno o per l’altro).
Sono molto d’accordo con Davide Orecchio quando scrive che è sui processi deliberativi e non rappresentativi che dovremmo puntare, e che dovremmo imparare a delegare di meno e a decidere di più. Dunque, come, e dove? Forse ripartire dal territorio, tornare a presidiare dal basso, la vita e gli inevitabili problemi dei luoghi in cui viviamo, soprattutto in ambito urbano, tornare a confrontarci e dibattere in forma assembleare della gestione di un quartiere, per esempio, della circoscrizione. Lo stesso sui luoghi di lavoro, idem nella scuola. Quando terminò lo stato di emergenza rimasi molto colpita dal fatto che la scuola di mio figlio (un noto liceo classico torinese) seguitasse a proporre le assemblee di classe online. Lo dissi, in occasione dell’ultima alla quale presi parte in collegamento, mi venne risposto (tranne da parte dell’insegnante di storia che espresse il proprio accordo) che era molto più comodo (e veloce) così.
Ecco, uno dei problemi – o almeno io lo vedo ormai come un enorme problema – consiste proprio nella progressiva disabitudine a confrontarsi nella presenza fisica, ritenere che tutto possa e debba essere affrontato da remoto minaccia l’incontro e l’aggregazione (assolutamente indispensabili, oggi, per tentare di non farci travolgere dall’ormai evidente tecnocrazia plutocratica che avanza incontrastata), isola le persone e frantuma sempre più il tessuto sociale che, invece, si nutre proprio di fisicità, di mani che si stringono calorosamente, che si alzano per prendere parola, che scrivono appunti, anziché di mani tristi che scrollano e digitano come sa ad altro non fossero più deputate.
Non so se suoni addirittura un po’ stucchevole, ma mi trovo in sostanziale accordo con tutte le persone che sono intervenute, e – a proposito del nodo virtualità/presenza – posso dire che non succede quasi mai, quando porto gli stessi argomenti in luoghi fisici e non digitali. Non significa molto, ovviamente, perché in rete si è mediamente più in disaccordo che offline. Mi viene poi in mente che incontrarsi in carne e ossa chiede non solo coinvolgimento (a cui non si è più molto abituati, ed è una cosa anche generazionale) ma soprattutto tempo. Le persone che non hanno tempo non hanno granché libertà di movimento: per economizzare il tempo di corsi, attività didattiche o culturali, riunioni, assemblee, e così il tempo della politica, il virtuale diventa lo strumento largamente più ‘produttivo’. Non c’è solo questo, sì, perché dall’ultima fase della rivoluzione digitale non si torna indietro: però una società il cui tempo è stato liberato perde molti dei suoi alibi, e non è così ingenuo attendersi il cambiamento di alcune abitudini che c’entrano con lo stare insieme.