Un poeta in scena: Elio Pecora

Nota

di

Marco Beltrame

 

Numerosi sono i casi di poeti italiani che nella seconda metà del Novecento si sono provati nel genere teatrale – chi per il febbrile bisogno di confrontarsi con il palcoscenico, chi alla ricerca di un pubblico più ampio di quello dei soli lettori. Pensiamo a Pier Paolo Pasolini, autore di sei tragedie in versi e firmatario di un provocatorio Manifesto per un nuovo teatro (1968), o all’esperienza di Giovanni Raboni, che ha composto testi drammaturgici originali, firmato traduzioni di importanti classici, e poi è stato brillante recensore teatrale per il “Corriere della Sera”. Ma l’elenco è sterminato. Tra i tanti, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Giovanni Testori, Mariangela Gualtieri, Patrizia Valduga, Valentino Zeichen, Ludovica Ripa di Meana, Dario Bellezza.

L’interesse verso il teatro di poesia nasce in chi scrive proprio dalla ricerca e lo studio delle prove teatrali del poeta romano per una tesi di laurea di prossima pubblicazione con il titolo Amore funesto. Il teatro di Dario Bellezza. Quello del repertorio teatrale bellezziano è un caso esemplare di corpus drammaturgico di un autore del secondo Novecento, tempo in cui molto facile era la dispersione dei testi, tra manoscritti, copioni dattiloscritti, piccole pubblicazioni e riviste cartacee.

Dalla medesima esigenza di ricostruzione del repertorio dei poeti nella loro interezza nasce Tutto il teatro di Elio Pecora (Il Simbolo, 2024), volume che presenta per la prima volta al pubblico l’intera produzione drammaturgica dell’autore di Sant’Arsenio.

Forse più noto come autore di versi e critico letterario, Elio Pecora, classe 1936, si è dedicato in modo prolifico anche alla scrittura teatrale, con circa venti testi composti nell’arco di quarant’anni. Testi fino a oggi solo in parte disponibili per la lettura, poiché per lo più disseminati in rare pubblicazioni e molti del tutto inediti.

Il volume si apre con Alcesti, testo di debutto mai pubblicato, portato sulla scena nel 1984 da Manuela Morosini con la regia di Enrico Job. Seguono drammi come Pitagora, Prima di cena (Premio IDI 1987), Nell’altra stanza, Il cappello con la peonia, Trittico, tutti scritti e rappresentati tra gli anni Ottanta e Novanta. Per la prima volta appaiono in volume i radiodrammi realizzati per la Rai (Il giardino e Il segreto di Lucio), testi in versi (Narciso in pensiero e una versione di Alcesti in forma di monologo), brevi drammaturgie scritte su commissione come L’ira o dell’andarsene (per il progetto collettivo dal titolo I sette peccati capitali e a cui prendono parte, tra gli altri, Enzo Siciliano, Riccardo Reim, Bernardino Zapponi e Ghigo De Chiara) e Interno (nato come soggetto cinematografico per Il cinema dei poeti, progetto incompiuto dell’animatore del Beat 72 di Roma Simone Carella). Chiudono la raccolta tre monologhi dedicati agli amici scrittori Sandro Penna, Juan Rodolfo Wilcock ed Elsa Morante.

La poetica di Pecora espressa in poesie, romanzi e racconti lascia la sua originale impronta anche nel teatro e nei suoi personaggi. Che siano donne in rotta con l’istituzione familiare o uomini combattivi, i protagonisti del teatro di Pecora sono anime alla ricerca di un’altra condizione d’essere, ritratte nel momento di isolarsi dalla comunità o quando già ritiratesi in un proprio mondo di voci e ombre. «Ignoro sia l’andare che il tornare. Resto qui. Il mio ultimo spettacolo è questo, senza sipari e senza riflettori», confessa l’attrice di prosa Anna, protagonista del dramma in due atti Prima di cena (1986).

Si è deciso di presentare un estratto del monologo A metà della notte, scritto nel 1986. In parte ispirato alle vicende umane di Sandro Penna e Juan Rodolfo Wilcock, scrittori che hanno trascorso gli ultimi anni isolati nelle proprie abitazioni, A metà della notte ci consegna i pensieri di un poeta segregato in una stanza ricolma di «carte e immondizie» e impegnato a raccontare la propria vita a un registratore. Alcune misteriose figure sopraggiungono a interrompere il flusso di ricordi: è l’inizio di un confronto tra il poeta e le ombre del suo passato.

Foto di Dino Ignani

dal monologo A metà della notte.

di

Elio Pecora

Torna alla poltrona, siede, apre il flacone della medicina, versa nel tè gocce del farmaco senza contare. Poi si ricorda del registratore e lo spegne. Posa il bicchiere senza bere.

 

Non ho smesso invece di pensare, d’interrogarmi. Svuotare la mente, lasciare che galleggi nel nulla! Invece, ogni istante, una nuova trafittura, un altro labirinto da percorrere, un’altra uscita da cercare. Sono felici i bambini, gli idioti! Sono gusci vuoti, pianeti al primo giorno. Non sanno, non aspettano, non ricordano. È questa la felicità? Mi fermo di tossire, non sento più il dolore alla schiena, i miei piedi vanno sicuri per la stanza, ma i pensieri non si fermano, non cedono, ininterrottamente chiedono, rispondono, generando altri pensieri e con questi l’orrore, la confusione. Dormire senza sogni! Dov’è il farmaco che possa sprofondarmi in un lungo sonno?

Ho chiuso fuori della mia stanza il mondo e il mondo dilaga dentro di me con tutti i suoi fantasmi.  Ho voluto cancellare il tempo, gettando via calendari e orologi; ma seguito in un andirivieni fra quel che è stato e quel che sarà. Non posso uccidere le ombre; abitano dentro di me, mi parlano, esigono che gli risponda.

 

Toglie dal collo la sciarpa di seta indiana, se ne serve per asciugare la bocca e la fronte.

Intanto la voce, su musica, intona:

 

Madre da te si parte

questo amore che avvolge

e stravolge i miei giorni

voglia e bisogno insieme

vicinanza e rancore

cupa attesa di morte

che ghermisca chi amo.

Madre da te mi viene

un destino di canto

che arresti le ore brevi

in un’estasi eterna.

E come te misuro

l’attimo dell’amore

l’illusione del canto,

maledico e sospiro

e modulo richiami

dalla mia stanza ombrosa.

 

Il poeta riaccende il registratore e, cessata la musica, la voce detta:

 

…Tutto cominciò da lei, con lei. Prima ero allegro, vivo. Riuscì a caricarmi delle sue ansie, pretese che capissi, la soccorressi. Perciò divenni fiacco, bugiardo. Prima andavo, contento. Mio padre mi portava sulle spalle, scendevamo la collina verso le barche e il mare. Il mondo m’attendeva, perché ne percepissi tutti i respiri, perché ne percorressi tutte le strade. Ero libero, come un falco sui monti, colmo come un fiume ad aprile. Parlavo con i santi dell’altare, con i rami del noce nell’orto. Intanto lei mi nutriva, perché il figlio crescesse sano e docile. L’assecondavo, per farmi attento e forte. Dopo che mi aveva vestito e profumato uscivo a rotolarmi nell’erba, gettavo gli abiti nel pozzo o li ammucchiavo fra i rovi e sotto i sassi. Sapevo già in quale carcere mi avrebbe rinchiuso? Poi mio padre partì. Il mondo mi chiuse porte, mi fermò i passi, svanì ogni certezza. Mi vidi tradito, cacciato dal paradiso. Restai solo con lei, atterrito per quanto accadeva. E lei seppe distrarmi. M’accolse nelle sue carni profumate, m’ad dormentò carezzandomi. La sua voce m’attendeva ai risvegli, mi chiamava dalle scale. Lei rise e cantò per me, mi raccontò di lupi feroci e di case sicure. Spinse dentro di me le sue paure. Davanti a me interrogò la sua giovinezza, pianse le sue malinconie. Così scelsi di esistere per lei, di servirla, placarla. E fui obbediente, amoroso. Tremai per ogni suo sussulto, chiesi ai santi e al destino la sua salute, la sua scontentezza. Scordai le mie voglie, il mio stesso desiderio…

Ora so, dietro il mio innamoramento, allignò il rancore. Lei mi toglieva a me stesso. E, se temevo che s’ammalasse e morisse, invece volevo soltanto la sua sparizione. Per tornare a me, alle mie uniche voglie. Invece volli dimenticarmi. …Fu tutto un errore… Lei diceva soltanto la sua scontentezza, elencava le sue fiacchezze e rabbie. Ma io le badavo per sfuggire alla disperazione. Fu sola anche lei, nonostante la mia vicinanza. Credevo di far luce nella sua notte, ora so che continuò ad andare, da sola, nel buio. La mia fu un’inutile rinuncia. Sono occorsi anni, decenni, per capire, per rintracciare quel poco di me che non avevo annientato, svilito.

 

Spegne il registratore. Si china a raccogliere la sciarpa che gli è scivolata dalla mano sul pavimento. Quindi alza, va all’armadio, cerca in un cassetto. Torna con un libro smilzo. Siede, cerca fra le pagine, riaccende il registratore e detta:

 

Fu per me mia madre la misura di tutte le cose…

 

Getta via il libro mugugnando, spegne il registratore. Si volta verso la poltrona in fondo alla stanza in ombra. Parla agitato:

 

So che sei qui. Avvicinati. Mostra la faccia sdegnata, gli occhi lacrimosi. Quando finirai di pretendere da me la compassione che a me non hai dato mai? Vedi, sono stremato. Pronto a lasciare tutto. Tutto! (Si guarda intorno) carte e immondizie. Vieni, parliamo anche stanotte.

 

La madre si alza dalla poltrona, eretta, sdegnata. L’uomo la raggiunge, le afferra il braccio destro, stringe. Lei si dibatte debolmente, lui le lascia il braccio. La madre si guarda il braccio, guarda l’uomo. Questi s’allontana, dà un calcio alla poltrona, rovescia la sedia col termos e il registratore, caccia un urlo. Un attimo e commenta come guardandosi:

 

Ancora la stessa rabbia, la stessa disperazione! Devo uscire da questo gioco tremendo… Voglio disfarmi, sparire…

 

Crolla ansante sulla poltrona. La madre lo guarda di lontano. L’uomo cerca con gli occhi il termos e la medicina, li vede sul pavimento. Allora si piega per raccoglierli, s’inginocchia. Svita il bicchiere dal termos, versa dal flacone gocce del farmaco senza contare, beve.

La voce, accompagnata dalla musica, dice:

 

Andiamo al tramonto sotto chiuse finestre,

lontano m’additi un ramo una nuvola chiara,

le mie parole per te sono piaghe che ardono

i tuoi sospiri per me sono amari coltelli,

e camminiamo mentre s’addensano le ombre

dentro il mistero che ci comprende e consuma:

nemmeno morta tu finirai di chiamarmi

ma non saprò rispondere che sospirando.

 

La voce e la musica si smorzano. Il poeta è tornato tranquillo. Si rivolge alla madre:

 

Ti prego, rimani. Siedi vicina a me, per un poco.

 

S’alza, raddrizza la sedia rovesciata. Prende la madre per mano e la fa sedere. Siede nella poltrona.

 

…Non so veramente nulla. Per capire ho ripercorso le nostre storie. Ho saputo gli errori, ma anche i patimenti. Mi si è presentata una folla, i tanti che ci sono stati vicini. Ho saputo che era impossibile giudicare una caterva di gesti in conclusi, di frasi balbettate, di progetti mancati. Dov’era la malvagità in così tanta confusione? Ho visto uno stuolo di creature trascinate da un fiume in piena, anna spanti in un abisso senza fondo. Tutte pretendevano di salvarsi, e nel pericolo estremo non cessavano di attendere il porto promesso… Allora, dov’era la colpa? Qual è, dov’è questa colpa? La tua, la mia, degli altri? Giunto a questo, avrei dovuto placarmi. Invece continuo a maledire, a gemere, chiamando morti e vivi nella mia camera stretta. Il tempo che mi resta è una soffertissima agonia. Ma tu non rispondi, non parli. Dentro di me la tua voce ripete le parole di allora: sono parole di sdegno, subito spente nel pianto. Tu sei fra i tanti che stanno dimentichi e ignari; ogni voglia li spinge verso una fame inesausta. E sono anch’io smarrito, anch’io confuso, se cerco compagnia alle ombre, se ancora accuso, assolvo.

 

La madre s’alza dalla sedia, non capisce; va verso la poltrona in fondo, vi siede, scompare.

 

…Allora, in che il mio destino è diverso? Già, la poesia!… Ho cercato parole che significassero quel che intravedevo, sentivo. Perché fossero esatte queste parole bisognava asciugarsi dal sudore, misurare l’ebbrezza. Diviso: da una parte uno che s’invaghisce, si perde, dispera; dall’altra parte uno che vigila, esplora, svela… Per accendere un fuoco da un’altra parte, su una sponda remota, un fuoco capace di scaldare di lontano, capace di entrare negli occhi di chi guarda. Ora quel fuoco è tanto lontano da me che nemmeno lo scorgo. Mia quella voce? Fui io a modulare quel canto? Sto qui, perseguitato dall’ansia come nei giorni interminabili dell’adolescenza quando disperavo di vincere il balbettio per sciogliermi in un dire esatto e ammaliante.

 

Si guarda intorno e non vede la madre. S’alza, si dirige verso la poltrona in fondo alla stanza, prende per mano la madre, la conduce verso la poltrona finora occupata da lui. La madre siede impietrita.

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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