Post in Translation: Blaise Cendrars

Napoli-Una canaglia

dal romanzo Bourlinguer

di

Blaise Cendrars

traduzione di Mario Eleno e Manuela Mosé

 

Allo schifoso e geniale
Curzio Malaparte,
autore di «Kaputt»,
in ricordo della Legione,
in omaggio al giovane garibaldino
in camicia rossa della foresta
d’Argonne,
al fante della montagna
di Reims,
e una stretta di mano al confinato
di Lipari.
 
Blaise Cendrars
(Napoletano d’occasione)

 

 

   Napoli dove ho trascorso la mia più tenera infanzia. Napoli dove ho consumato le mie prime brache seduto ai banchi della Scuola Internazionale del dottor Plüss. Un tedesco, tanto per cambiare. Ma che vadano tutti all’inferno!

A Napoli non c’è soltanto la gente del Basso Porto che tira a campare e soffre e s’affanna in quella cucina del demone pagano che è il dedalo dei vicoli bui dei quartieri, non c’è soltanto la solfatara del Vomero, risistemata da mio padre in lotti moderni, ha dei sussulti, fiammeggia e tuona e sprigiona sbuffi di vapore tra un’eruzione e l’altra del Vesuvio, la lava che schizza dal sottosuolo dove fermenta fin dall’Antichità, il fiore di zolfo che sporca i fiori d’arancio e i grappoli e i pampini dei giardini, ma persino in alto mare, in quella pesante vasca d’indaco, i grandi piroscafi che a fatica s’avvicinano al porto e ingegnandosi e scuotendosi avanzano alla bell’e meglio per non affondare, per non lasciarsi andare all’indietro e colare a picco e inabissarsi di sbieco fino alla fornace sottomarina dove Nettuno magnetizzato sogna e delira, l’anima colpita dalla folgore, il cervello che fa da esca all’appetito vorace dei pesci abissali, questi mostri antemitologici.

Alla partenza da Alessandria d’Egitto nostro padre ci aveva presentato il comandante Agostini, un Sardo mingherlino, febbrile, con sopracciglia spesse e nerissime unite alla barba e ai capelli al punto di farne una maschera pelosa sotto l’alto berretto dorato, e Agostini m’aveva affidato a un mozzo di bordo, Domenico, un gigante, mentre mio fratello e mia sorella giocavano nei saloni del bastimento e mamma si rilassava sulla sdraio nella cabina del comandante che affacciava sulla passerella.

Eravamo a bordo dell’Italia, il primo transatlantico italiano che partendo dal capolinea di Alessandria faceva scalo al Pireo, a Salonicco, Brindisi, Napoli (dove noi dovevamo scendere, nostro padre ci avrebbe raggiunto successivamente con un’altra imbarcazione), filava poi dritto verso Genova, porto di ascrizione, e dopo aver fatto il pieno, toccava Marsiglia, Barcellona, Malaga, per lanciarsi infine verso New York a un’andatura record (undici giorni di traversata!) e c’eravamo ben intesi, io e Domenico, il mozzo che m’aveva in custodia, che una volta giunti a Napoli m’avrebbe nascosto da qualche parte a bordo per sbarcare dopo insieme a New York, dove avremmo abitato, il gigante e io, in incognito, nel più alto dei grattacieli. Gli avevo dato il mio piccolo portamonete e avevo svuotato il salvadanaio.

Era il 1891 o 1892, avevo quattro o cinque anni, e attiravo l’attenzione di tutti a bordo, scortato dal mio marinaio, quel buon gigante che esaudiva ogni mio desiderio, mi faceva salire sulla coffa dell’albero di trinchetto, mi calava giù nella stiva dalla botola dell’occhio di cubia, mi portava a spasso nella sala macchine e fino in fondo al tunnel degli alberi motore, dove bisognava infilarsi e strisciare per raggiungere il punto in cui si sente il gorgoglio delle eliche, la vibrazione dello scafo come una membrana, l’acqua profonda del mare fluire all’interno dell’orecchio e, seduti al centro di questo punto ideale e di equilibrio instabile, partecipare a tutti i movimenti della nave che come una bestia testarda preme a sinistra, preme a destra, fa scricchiolare i verricelli del timone, riceve schiaffi, colpi, urti, si butta in avanti per non impennare, per non sprofondare a poppa, inabissarsi, arranca, si danna e fatica. E al termine di questo tunnel, si vede luccicare una broda torbida sotto una lampadina elettrica che la illumina e in cui si riflette, dentro un pozzo che si riempie d’acqua di mare che sgocciola attraverso le giunture e i pressatrecce delle eliche, una chiavica colma d’olio caldo che trasuda dagli alberi a motore, sono le acque nere, dove si gettano i bambini cattivi, mi diceva Domenico con una smorfia da orco. Però non avevo paura, il gigante mi teneva forte per mano – non era forse il mio complice? non dovevamo andare a scoprire New York insieme? non eravamo amici, noi due?

Domenico mi parlava molto di New York quando andavamo a fare uno spuntino nella cambusa dove c’erano sempre due o tre marinai che lo stavano a sentire mentre fumavano la pipa, ma non ricordo niente di quelle storie, distratto com’ero in mezzo a quegli uomini tutti più o meno barbuti che scimmiottavano l’inquietante Agostini. Al contrario, non ho dimenticato affatto cosa raccontava Domenico della sua terra natia, Taormina, la città dipinta, quando di sera andavo a dormire con lui negli alloggi dell’equipaggio dopo aver fatto una scenata a mamma per ottenerne il permesso.

«È la città dei mostri», diceva incominciando a masticare il pezzo di tabacco che aveva pressato a lungo nei palmi e che doveva durare tutta la notte e fino all’indomani sera, «è la città dei mostri marini, gli stessi che si possono vedere a Napoli, vivi e vegeti, all’Acquario, e in qualsiasi altro posto del mondo nei baracconi da fiera, dove quelli di piccola taglia vengono esposti morti dentro barattoli di vetro pieni di gelatina, mentre i più grandi, essiccati, sono messi in mostra sopra un letto di alghe dietro una vetrina con il divieto di toccare! A Taormina, sotto le case, non ci sono cantine per tenere al fresco il vino ma grotte invase dalla risacca e dagli sciabordii o dai muggiti delle onde. Queste grotte sono profonde. Da sempre ci buttano i bambini che vengono al mondo e quelli che non sanno nuotare vengono mangiati dalle murene. Gli altri si mettono in salvo al largo e ritornano da adulti sulle coste; sono i tonni, i marsuini, i narvali, tutti quei minchioni che si divertono come pazzi nella tempesta e che si lasciano prendere a centinaia con la bonaccia. Le bambine, quelle furbe, vanno a vivere negli abissi e risalgono in superficie quando sono in età da marito. A quel punto hanno la testa molle, i denti marci, un muso grottesco e una voce d’oro. Le chiamano sirene e passano per principesse. Però guai al pescatore che fa l’amore con una sirena, genererà lo squalo martello, il pesce sega o il pesce trombetta, nient’altro che esseri a due teste perché le sirene non hanno cervello e cantano bestialità. Quanto ai bambini che rimettono piede nella loro culla dopo aver combattuto con le murene, rimangono spesso sfigurati per il resto dei loro giorni, o portano strane cicatrici, o si beccano strane malattie che marmorizzano i loro corpi, ma i sopravvissuti diventano i migliori marinai del Mediterraneo e i timonieri più arditi, e quando fanno ritorno, ormai uomini, dalla loro lunga circumnavigazione per prendere moglie a Taormina, sono loro che dipingono le case e ricoprono i muri della città con graffiti indecifrabili, sono profezie che raccontano le loro avventure di mare. Ma Taormina si spopola. L’acqua è un sogno e tutto ciò che il cielo da mattina a sera contiene, astri, venti, uccelli e fumi, è un’esca che inganna la fuga del tempo. Alcuni dei nostri uomini saltano giù dalle navi per andare a cercare una stella nell’acqua. L’oceano è una menzogna…»

Ma gli altri marinai lo sfottevano, tutti quegli uomini che andavano a letto nudi a causa della notte rovente e che erano pelosi dalla testa ai piedi come se l’equipaggio a bordo dell’Italia fosse stato la progenie di Agostini, lo mettevano in ridicolo, perché il mio gigante era glabro e non aveva un pelo né sulla pancia né sul petto. Aveva un tatuaggio sulla parte sinistra del torace, a forma di piccola bocca umana. Lui affermava che erano i segni del morso di una murena che gli aveva iniettato il veleno nel cuore nel momento in cui, come Ercole bambino, aveva strangolato nel sonno quel serpente di mare che si era insinuato dentro la sua culla, veleno che gli aveva fatto cadere più tardi peli e capelli – e senza preoccuparsi delle prese in giro Domenico apriva il suo baule da marinaio ed estraeva piccoli barattoli e boccette di pomate e acque essenziali con le quali si spennellava e si ungeva dappertutto. Ma da lì tirava fuori anche i pezzi del suo tesoro più intimo: una nave in una bottiglia di cui mi spiegava la tecnica di costruzione, cartoline panoramiche di città e porti asiatici, una stella di mare, un ippocampo, un ramo di corallo che mi stringeva nelle mani, una grande conchiglia dei mari del Sud che m’appoggiava all’orecchio e che finiva per farmi addormentare nonostante le risate, le bestemmie, le urla per chiedere qualcosa, lo strascichio dei piedi, la puzza di urina e di sudore, il tanfo degli alloggi dell’equipaggio dove si faceva fatica a respirare, e l’inevitabile note del mandolino sulla soglia, e la voce del tenorino:

 

Vieni sul mar!

Vieni a vogar!

Sentirai l’ebrezza

Col tuo marinar…

 

Durante le manovre di avvicinamento a Napoli, come d’accordo, il caro Domenico m’imboscò nel dormitorio deserto, nascondendomi nella sua cuccetta, e affinché il piccolo bozzo che formavo sotto le coperte non si notasse, ci gettò sopra un cappello impermeabile da tempesta e alcune maglie sporche, come se si fosse appena cambiato, e prima di uscire aggiunse al mucchio pure la chitarra del marinaio con la gamba di legno. Non potevo muovermi e con il cuore che mi batteva e l’orecchio teso sentii il tamburo dell’argano roteare con fracasso proprio sopra la mia testa, un’ancora cadere nell’acqua, fischi e colpi di sirena, grida e incitamenti, il sibilo delle vedette a vapore delle autorità di porto che si accostavano alla nave, lo stridore dei verricelli, poi le discussioni e il lungo mercanteggiare dei battellieri che stavano trasbordando i passeggeri perché a quell’epoca un transatlantico del tonnellaggio dell’Italia non poteva ancora attraccare al molo; e dopo, per due o tre volte e non so per quanto tempo perché il tempo mi pareva terribilmente lungo, mi sembrò che mi chiamassero per nome, ma stavo soffocando e caddi addormentato, asfissiato dall’odore dei piedi del gigante e dalle emanazioni farmaceutiche degli unguenti e dei liquidi di cui faceva un uso così furioso e che impregnavano la sua cuccetta.

In seguito, nostro padre raccontava spesso quest’avventura napoletana affermando con prove che ero scampato per un pelo al tentativo di rapimento da parte di un membro della Mano Nera; ma cosa diavolo poteva saperne della Mano Nera, quel poveraccio di nostro padre, proprio lui che qualche anno dopo fu spossessato delle sue lottizzazioni del Vomero con un semplice raggiro contrattuale dal contabile nel quale aveva riposto tutta la sua fiducia e che invece era un affiliato dell’associazione segreta, proprio lui che fu rovinato legalmente dagli avvocati napoletani che gli erano stati raccomandati dall’alta società e che presumibilmente erano i dirigenti della confraternita. Solo mia madre, che aveva dato a Domenico dieci, venti, cinquanta monete d’oro, uno, due, tre rotoli di banconote per ritrovarmi e che non spifferò mai nulla di questa storia, aveva intuito parte della verità, aveva capito che il tradimento del marinaio m’aveva aperto una piaga nel cuore, ragion per cui da allora stette sempre in ansia per me.

… Mi ricordo che quando Domenico venne a svegliarmi dal mio sonno, credevo che fossimo arrivati a New York e la mia delusione fu immensa quando il gigante, che m’avvinghiava con forza tra le sue braccia, attraversò il ponte di prua e incominciò a salire su per la rampa di scale che conduceva alla passerella illuminata dell’Italia dove m’aspettavano mia madre, l’orribile comandante dalla faccia di cane, due, tre ufficiali del transatlantico, tra cui il commissario. Si stava facendo notte. Un altro bambino si sarebbe battuto per divincolarsi, avrebbe pianto, gridato, graffiato con le unghie la faccia di quella canaglia di marinaio traditore. Del resto non mi mancava certo la voglia di mordergli le orecchie, di fargli schizzare fuori come sangue nero la cicca dalla bocca assestandogli un bel pugno sul mento, di riempirgli la pancia di calci; ma non dissi nulla, soffocavo in corpo ogni impeto, e mentre il gigante saliva le scale, mi sentivo sempre più pesante tra le sue braccia, scalino dopo scalino, pesante come quel bimbetto di cui parla San Cristoforo, che in una notte di pioggia lo svegliò per chiedergli di essere portato sull’altra riva di un fiume straripante, San Cristoforo lo issò sulla spalla e una volta giunto in mezzo al fiume avvertì che il fanciullo diventava a ogni passo più pesante, così pesante che l’uomo credette di non potercela fare. E il buon traghettatore disse: Questa notte ho dovuto portare tutto il Dolore del mondo.

Mia madre mi strinse al petto.

Ero infelice.

Poi m’ammalai.

«Mi creda signora, non è niente» disse il dottore. «Una tipica malattia infantile. Classico. Niente di grave. Latte, riposo, sciroppo e riprenderà colorito. Una tisana la sera e un po’ d’acqua di fiori d’arancio, qualche goccia, può bastare, lo farà dormire…»

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2 Commenti

  1. A parte la sbadata lettura di sguincio del titolo, che ai miei occhi è risultato “Berlinguer”… lapsus freudiani… soprattutto mi è riemersa tutta l’emozione della lettura giovanile di Cendrars, unitamente alla chiara percezione di quanto la sua scrittura scoscesa e iridescente mi abbia influenzato a suo tempo – grazie di questo squarcio di piacere in una domenica grigiastra.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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