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Il problema delle torri nella Milano contemporanea

di Giorgio Mascitelli

L’installazione I sette Palazzi celesti di Anselm Kiefer presso l’Hangar Bicocca è per me l’unico luogo di Milano che induca al raccoglimento. In questo mio atteggiamento è fondamentale che ignori la complessa simbologia che innerva l’opera; ogni volta leggo attentamente la descrizione delle corrispondenze iconografiche di ognuna delle sette torri, ma subito dopo me le dimentico. Gli elementi della spiritualità ebraica, della cultura rinascimentale e di quella tedesca moderna, nonché i riferimenti alla scienza e alla tecnologia, se li cogliessi  a pieno seguendo le approfondite spiegazioni iconografiche degli studiosi, mi allontanerebbero dallo spirito di raccoglimento. Il mio raccoglimento è legato al fatto, evidentemente, che non conosco bene l’opera (non vorrei che si scambiassero queste mie considerazioni per una sottovalutazione dell’attività degli studiosi di arte, al contrario le analisi dei critici e degli storici dell’arte sono assolutamente necessarie per godere di una serie di aspetti dell’opera che altrimenti sfuggirebbero. E’ che qui non sto parlando di godimento estetico). Allo stesso modo non potrei forse neanche definire I sette palazzi celesti la mia opera d’arte preferita, astrattamente parlando potrei indicare altre installazioni, altre sculture, altri dipinti, altri luoghi che mi piacciono di più: semplicemente è quella che mi è più presente perché abito qui. Infatti il vecchio adagio popolare ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’ è una verità basilare nell’osservazione dell’arte: ho molto amato Giacometti, Paul Klee e altri ancora, ma non li ho così spesso davanti allo sguardo. Così amo di più I sette palazzi celesti, perché ha nel mio caso l’incommensurabile superiorità di essere facilmente raggiungibile.

Evidentemente questo significa che la consuetudine crea risonanza. Uso il termine risonanza nell’accezione che gli ha dato il sociologo Hartmut Rosa ossia un canale di relazione con le cose del mondo assolutamente libero e non pregiudicato in cui si perdono le proprie rigidità mentali ottenendo in cambio di sentire vibrare quella determinata cosa del mondo dentro di sé. Potrebbe sembrare strano che un’esperienza legata all’arte, in cui la risonanza, magari indicata con nomi diversi, è sempre stata presente, non si richiami all’eccezionale, ma al quotidiano: basti pensare alla celebre nozione benjaminiana di aura come dimensione unica e trascendente, che la riproducibilità tecnica dell’opera tende a serializzare e dunque a perdere, oltre alle varie declinazioni del concetto di epifania. Il fatto è che nella contemporaneità, specialmente nelle arti visive, la nostra esperienza è caratterizzata da un eccesso di immagini, è un’esperienza caleidoscopica in cui la varietà crea un effetto anestetizzante o, per usare la terminologia filosofica impiegata da Rosa, reificante; le immagini producono uno stupore superficiale che serve solo ad alimentare la curiosità per la successiva apparizione. E’ solo nel banale quotidiano della ripetizione che questo stupore cessa, lasciando spazio alla lentezza che talvolta vuol dire semplicemente distrazione, ma talvolta è un’apertura di uno spazio imprevisto che invita al raccoglimento. Non a caso quando vado all’Hangar a vedere  I sette palazzi celesti non c’è mai fretta, non c’è quella frenesia di vedere tutto quello che si potrebbe vedere lì perché c’è sempre una prossima volta. La vicinanza spaziale crea disponibilità a perdere tempo, che è l’unico modo di guadagnarlo per questo genere di esperienze.

Kiefer ha progettato l’opera in relazione allo spazio esterno, nonostante sia un’opera al chiuso, sia pure in un ambiente insolito come un ex stabilimento industriale. Lo spazio esterno è quello del quartiere Bicocca, dove c’erano le fabbriche della Pirelli e di altre industrie. Negli anni novanta l’area fu trasformata da zona industriale a quartiere residenziale e universitario, con la costruzione sulle antiche officine dell’università, di nuove abitazioni, di uffici, dell’Hangar Bicocca e naturalmente di un centro commerciale. Era la prima di quelle grosse operazioni urbanistiche, dai caratteri spesso speculativi, dovute alla metamorfosi a Milano del capitale industriale in immobiliare, che contribuiranno a trasformare una città anche operaia, e perciò dentro una dialettica con il suo momento fondamentale di opposizione,  in questa roba qui di adesso, con tutte le conseguenze ben note per il paese. In particolare l’arco arancione che immette nel vicino centro commerciale, riportante lo slogan “eat.shop.fun”, costituisce il polo opposto de I sette palazzi celesti e poco importa che siano entrambi prodotti della medesima operazione immobiliare e dunque della medesima logica capitalistica. Non bisogna chiedere all’arte la purezza della coerenza ma di cogliere la vita là dove essa non appare. Piuttosto non è vero che lo slogan consumista qui sostituisca la storia con un eterno presente, come pensavano i situazionisti, infatti alla Bicocca il passato industriale non viene cancellato ma citato, cioè monumentalizzato; allora lo slogan dell’arco va letto come uno sviluppo, o una degenerazione se si preferisce, di quella scritta “A ogni epoca la sua arte, a ogni arte la sua libertà” che si trova sul padiglione viennese della Sezession. L’installazione dell’Hangar risponde all’arte che rivendica la sua piena sincronia al proprio tempo con l’inattualità come unico modo plausibile di essere nel presente.

A scanso di equivoci nostalgici la forma attuale del quartiere non solo è molto più esteticamente valida, ma anche più salubre. Non si tratta del cuore di un uomo malinconico che non accetta che una città cambi più in fretta di lui, ma è un dato oggettivo che la risistemazione urbanistica che mette al centro non più la produzione ma il consumo pone un problema di creatività e di vitalità allo stesso modo che una casa di coniugi dink, cioè benestanti che non vogliono figli, ordinariamente sarà più piacevole di una con prole smoccolante e vociante. E non è un mistero per nessuno che tale modello di risistemazione espelle abitanti vivi per attrarre capitali, che si potrebbe anche dire lavoro morto al posto di lavoro vivo. Le torri di Kiefer sono invece intrinsecamente estranee all’orizzonte del consumo e partecipi di quello della produzione.

Da qui la loro alterità e la loro opposizione al quartiere e alla città di cui sono fiore all’occhiello.

“Ecco Gaza” ha detto nel vedere i palazzi una visitatrice dell’Hangar, che mi è capitato di sentire quando sono andato l’ultima volta. Tale voce aveva doppiamente ragione: in senso letterale perché i moduli sovrapposti di cemento armato che costituiscono i sette palazzi in effetti evocano, tra le altre cose, le rovine dei bombardamenti e in senso metaforico  perché la forma di un’opera artistica, perlomeno di un’opera importante, ha in sé una natura di paradigma, che le consente di rappresentare simbolicamente eventi che l’autore non poteva conoscere. Qui in altri termini vediamo che questo significato contingente e arbitrario ma non posticcio ed evidentemente indipendente dalla volontà dell’autore indica la capacità di un’opera inattuale di centrare e rappresentare per noi il senso del momento storico immediato.

Questa identificazione è resa possibile dal fatto che i palazzi incarnano l’archetipo di una città fantasma, che lo può essere per mille motivi diversi. Tale spettralità fa da contrappunto allo skyline di Milano, che ogni anno si arricchisce di qualche torracchione in più, come li chiamava il Bianciardi che ha assistito alla prima ondata di turrifazioni negli anni del miracolo economico. Ora che viviamo in questa seconda ondata turrifattoria del nuovo secolo, senza nessun boom, la fatiscenza dei palazzi celesti non è solo un monito e uno sberleffo alla perfezione delle nuove torri. L’effetto che si raggiunge è tragicamente ironico perché la spettralità introdotta dalla speculazione si rivela ai nostri occhi solo nei palazzi celesti, mentre essi non sono  che gli specchi fedeli di ciò che succede, perché chi svuota la città di persone sono i torracchioni innovativi, ecocompatibili e iscritti a bilancio di qualche persona giuridica, il cui legale rappresentante forse non ha mai nemmeno messo piede a Milano. Tale effetto ironico viene moltiplicato dal fatto che la verticalità nei sette palazzi celesti ha una dimensione salvifica di superamento della miseria presente, perlomeno in forma di preghiera, e confligge con quella di rispecchiamento facendo risaltare la miserabilità del presente.

M’immagino che questo luogo, l’hangar, all’origine probabilmente nato come orpello come momento decorativo di un’operazione immobiliare, grazie ai Sette palazzi celesti diventi l’epicentro morale dell’alterità in questa città, qui dove esse viene negata ed è per questo che è un luogo di raccoglimento per me. Che cos’altro è il raccoglimento se non superare le cose di ogni giorno, perché captate in una prospettiva diversa più intima o più generale, verso un’alterità?

 

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2 Commenti

  1. Post interessante, però “casa di coniugi dink, cioè benestanti che non vogliono figli, ordinariamente sarà più piacevole di una con prole smoccolante e vociante”, parla per te, non hai conosciuto i miei figli.

  2. Io provo le stesse sensazioni di fronte ai Sette palazzi celesti. È arte con tutto quello che la parola può significare. Mi emozionano e mi sento di fronte come ad una rivelazione … Sono anche d’accordo nel sottolinearne l’attualità, potrebbero essere le rovine di Gaza. Bravo Giorgio.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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